Mario Perrotta

Italiani cìncali

Teatro dell'Argine

Italiani cìncaliParte prima: minatori in Belgio

«Mario Perrotta, un fenomeno dotato anche di umanità. Lo deve a un titolo che funziona, Italiani Cìncali!, a un’abilità travolgente, a un tema politicamente micidiale»
Franco Quadri, La Repubblica

Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Interpretato e diretto da Mario Perrotta
Voci amichevolmente registrate da Peppe Barra, Ferdinando Bruni, Ascanio Celestini, Laura Curino, Elio De Capitani

DEDICATO A LUCIO PARROTTO

Spettacolo finalista ai PREMI UBU 2004 categoria Migliore Drammaturgia

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Cìncali cioè: zingari!
Così credevano di essere chiamati gli italiani emigrati in Svizzera; pare, invece, che fosse una storpiatura di cinq, “cinque” nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra
– …sì, ma voleva dire anche zingaro!
– Quasi un anno di testimonianze, un anno di memorie rispolverate a fatica. Ho preso la macchina e ho girato senza un luogo preciso dove andare, eppure il Sud è tutto uguale, non hai bisogno di sapere dove qualcuno ha preso le valigie ed è partito: basta entrare in un bar, un bar della provincia e chiedere. La risposta è sempre la stessa:
– qui tutti siamo emigrati…
– me lo racconta?
Si fanno pregare, un attimo soltanto, poi partono con la loro storia, infinita, che reclama ascolto. Anche il Sud è infinito. Me lo insegna la mia macchina che mi porta di paese in paese, sempre per caso, e s’inerpica tra i paesi montani del nord-est produttivo ed è ancora Sud. Sì! Per i Belgi, gli Svizzeri, i Tedeschi che chiedevano braccia dopo la seconda guerra mondiale, Sud era la Puglia, la Sicilia, la Calabria e Sud era il Veneto, il Friuli:
– siamo emigrati tutti qui …
– Quattro parole, sempre le stesse.
– Sì, sì… io ci ero amico con quelli del Sud, ma noi veneti ci trattavano meglio di loro, all’estero…
– e giù così fino a Lecce confine ultimo ad est, che non ha un Sud, e allora il cerchio si chiude:
– noi leccesi lavoravamo meglio e di più di quelli del nord… perciò eravamo rispettati…
– Non è vero purtroppo, né per gli uni né per gli altri, ma ognuno ha bisogno di un proprio Sud.
Negli archivi pubblici e privati trovo lettere, diari salvati per miracolo ma loro non hanno più nulla,
– ho bruciato tutto… – mi confessa qualcuno – meglio dimenticare…
– Meglio dimenticare.
Non la penso esattamente così ma accetto la loro posizione di esuli perenni, di zingari della memoria, senza una terra da chiamare “casa”:
– stavo meglio al Belgio… – mi dicono in Italia.
– Qui si sta bene, ma il paese è il paese… – mi dice chi è rimasto fuori. Non è vero purtroppo, loro una “casa” non l’hanno più. Alcuni mi indicano qualcun’altro come se fosse la loro “casa” -… chiedi a lui, a lui! Lui conosce tutte le nostre storie…-.
– Per trent’anni ho letto e scritto tutte le lettere di questo paese. Qui erano tutti analfabeti!
– Un postino. Il postino. Due, tre, quattro postini e anche loro sono tutti uguali, come il Sud. Sapevano tutti leggere e scrivere. Li ascolto e scopro in loro la coscienza involontaria di un’intera comunità. Il postino ha molto da dire, ricorda tutto perché la sua era una missione, lui era il ponte con il mondo, lui ha viaggiato più di tutti senza aver mai lasciato il paese: il postino sì che ha memoria!
E la memoria è importante, perché -…ne abbiamo sempre meno…
– perché – …qualcuno l’avrà pure permesso quel boom economico…
– perché – …l’Italia girava in Cinquecento e noi dormivano in otto in una stanza…
– perché – …siamo stati venduti dallo Stato per un sacco di carbone…
– perché – …mi vergogno di raccontare a mio figlio quello che siamo stati e come ci hanno trattati… –
Il postino, lui sa tutte queste storie… sì, ma come metterle in scena? Forse partirò da qui…
(Luce. In scena c’è un postino. Racconta)