Mario Perrotta

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Quel Milite Ignoto che grida contro l’inutile in tutti i dialetti NAPOLI – «Sotto l’acqua che cadeva a rovescio / grandinavano le palle nemiche […] O vigliacchi che voi ve ne state / con le mogli sui letti di lana, / schernitori di noi carne umana, / questa guerra c’insegna a punir. […] Voi chiamate […]

Quel Milite Ignoto che grida contro l’inutile in tutti i dialetti

NAPOLI – «Sotto l’acqua che cadeva a rovescio / grandinavano le palle nemiche […] O vigliacchi che voi ve ne state / con le mogli sui letti di lana, / schernitori di noi carne umana, / questa guerra c’insegna a punir. […] Voi chiamate il campo d’onore / questa terra di là dei confini; / qui si muore gridando: assassini! […] Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta, / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù. […] O Gorizia, tu sei maledetta / per ogni cuore che sente coscienza; / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu».
Già, «O Gorizia, tu sei maledetta». È uno dei più alti e risentiti (e alto proprio perché risentito) canti anarchici. E mi meraviglio che Mario Perrotta – autore, regista e protagonista di Milite Ignoto – quindicidiciotto, in scena ancora oggi pomeriggio al Nest – non l’abbia utilizzato, come epigrafe, leitmotiv o sigla finale del suo spettacolo.
Perrotta cita, invece, La leggenda del Piave, con la tristemente nota retorica de «Il Piave mormorò: / “Non passa lo straniero!”». E certo, si tratta di un’amara e sacrosanta frecciata contro la propaganda patriottarda. Ma il fatto è che «O Gorizia, tu sei maledetta» costituisce un riassunto incredibilmente preciso, e profetico in maniera eclatante, di tutti i temi sviluppati nello spettacolo in questione: a partire dal concetto, dal dato concreto e dalla metafora della «carne umana».
Anzi, Mario Perrotta scrive: «carne di uomo», con un ulteriore abbassamento verso la fisicità e la fruibilità (nel nostro caso militaristica) di quella carne: come se si dicesse, insomma, carne di maiale o di pollo o di manzo. E basterebbe un simile rilievo a dimostrare l’acuta pregnanza del testo qui messo in scena, tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra, i diari raccontano, un progetto de L’Espresso e dell’Archivio Diaristico Nazionale.
Infatti, non un pensiero, non un’analisi in termini storici, non una presa di posizione ideologica presiedono a Milite Ignoto – quindicidiciotto: la Grande Guerra per Perrotta diventa – puramente e semplicemente – ciò che della Grande Guerra sentiva e pativa il Corpo determinato dall’insieme dei corpi di tutti quelli che vennero mandati allo sbaraglio, a morire per niente, senza sapere, senza poter darsene una ragione, nel nome, appunto, di una «patria» che avvertivano come qualcosa di sconosciuto.
Di conseguenza, i veri narratori di quell’immane tragedia sono adesso – ed ecco la grande invenzione drammaturgica di Perrotta – i cinque sensi (la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto) e i loro organi (gli occhi, l’orecchio, il naso, la bocca, la mano): «occhi uguale buio!», «orecchio uguale botti!», «naso uguale schifo!», «bocca uguale secco!», «mano uguale cojoni!». Sì, la mano. Mano a verificare che «il tuo posto è qui», giusto il grido («le palle le avete o no?») dei signori ufficiali all’addestramento, ma anche «mano uguale cercare nel buio a senter dove che stanno l’antri, compagni militari di sventura: mani su petto, mani su faccia, spalla con spalla, gumbeto a gumbeto, e di mano in mano, abbraccio in abbraccio, ognuno diventa corpo solo con gli altri, corpo militare, e tu pure». Questo passo, peraltro, è un esempio della non meno rilevante invenzione messa in campo da Perrotta sul piano specifico della scrittura: poiché il suo Milite Ignoto consiste nel Corpo indifferenziato che concorrono a determinare i corpi di tutti coloro che – per citare ancora «O Gorizia, tu sei maledetta» – pativano e morivano «su quei monti, colline e gran valli», gli viene attribuita una lingua che consiste nella fusione dell’italiano con un po’ tutti i nostri dialetti. È, però, un mélange che costantemente trasforma il realismo minuto in una terribile apocalisse dell’anima: «[…] e nni pol portare via i morti. E ti restano accanto. E si disfano nel fango, e s’inabissano per rispuntare chissà dove. E gridano ancora che son lì, presenti, spargendo umori di morte nelle viscere del fango. E tu resti più immobile che puoi sperando arriva presto l’inverno e copre di neve fango e fetore. E poi bestemmi con le lacrime all’occhi, per quella speranza, quella preghiera Sior fa che venga l’inverno!». In breve, Mario Perrotta si conferma come uno dei più ispirati fra i narratori civili del nostro teatro, accanto, per intenderci, ad Ascanio Celestini, Marco Baliani e Marco Paolini. Chissà perché, fra parentesi, non veniva a Napoli (e va a tutto merito del Nest l’avercelo fatto tornare) da qualcosa come dodici anni, dall’Italiani cìncali! presentato nel 2005 alla Galleria Toledo. E non sto a dire quanto sia bravo, ad esprimersi – seduto su un muretto fatto dei sacchetti di sabbia delle trincee – soprattutto con le espressioni del viso e i movimenti del tronco, delle braccia e, giusto, delle mani. Penso, piuttosto, alla sua osservazione circa il sentirsi «l’inutile addosso»: giacché incarna uno degli «archetipi» che tornano e tornano attraverso i decenni. Sul finale si ode, come un eco sottile e lontano, «Il silenzio fuori ordinanza» che un tempo i «nonni», al momento di andare in congedo, facevano ascoltare alle reclute schierate sull’attenti. Cinquantaquattro anni fa, nella Scuola d’Artiglieria di Bracciano, in mancanza della tromba lo feci suonare con il clarinetto, da un diplomato al Conservatorio di Parma. Ma prima, per certe parole di rivolta, ero stato rinchiuso tre giorni nella cella di rigore. Una bara con solo un tavolaccio fissato al muro. E sul muro trovai la scritta: «Naia, ozio senza riposo, in cui il facile diventa difficile, per il conseguimento, attraverso l’inutile, del nulla assoluto».