Mario Perrotta

Corriere della Sera

Nei gesti dolenti di Perrotta rivivono i soldati dimenticati Con Mario Perrotta è andata così. Lo scorso luglio Roberto Rinaldi, un collega affettuoso (non ce ne sono più di due o tre), mi disse d’aver visto in primavera uno spettacolo straordinario dedicato a Ligabue, il pittore: nasceva in vari punti della regione e tutto confluiva […]

Nei gesti dolenti di Perrotta rivivono i soldati dimenticati

Con Mario Perrotta è andata così. Lo scorso luglio Roberto Rinaldi, un collega affettuoso (non ce ne sono più di due o tre), mi disse d’aver visto in primavera uno spettacolo straordinario dedicato a Ligabue, il pittore: nasceva in vari punti della regione e tutto confluiva a Reggio Emilia. Descrisse lo spettacolo con accenti tali da provocarmi dispiacere di non averlo visto. Ma, dissi, non ne sapevo niente. Gli chiesi il cellulare di Perrotta e con lui mi lamentai della mia ignoranza. Con netta e chiara sincerità Perrotta mi rispose che non vi fu trascuratezza ma scelta: non avevo visto niente di suo, pensava non mi sarebbe interessato. Replicai che non vi era stato disinteresse bensì pura e semplice casualità. Appena se ne fosse data l’occasione avrei visto un suo spettacolo.
È accaduto con Milite ignoto – quindicidiciotto, ora in tournée a Lecce. Avevo da poco letto un’antologia dei racconti di Federico De Roberto dedicati alla Grande Guerra, ma quando si spensero le luci e seduto su un mucchio di sacchi da trincea Mario Perrotta cominciò a parlare misurai la distanza tra la sua voce e quella razionale del grande scrittore siciliano. In Mario Perrotta di razionale, di scongiurante, di allontanante non c’è nulla. Egli aveva tratto il suo materiale da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra. I diari raccontano dello stesso Maranesi e di Pier Vittorio Buffa, dunque, in buona sostanza, dagli archivi. Ma anche questa è un’indicazione che non mi sembra soddisfacente, è solo una notizia necessaria. Lo dico con energia perché se è vero che è il contenuto a dettare le condizioni, ossia a dettare la forma, è ancora più vero, e lo è di più in questo caso, che tale forma m’è subito apparsa dominante. Dominanti erano due fatti: la voce di Perrotta e la sua gestualità.
Ciò di cui parlava possiamo immaginarlo (fango, sudore, fetore, corpi, freddo, spari nel buio, gesti inconsulti, stragi, milioni di morti, la patria che per la prima volta unisce in una parola mille diversità, la diversità delle lingue, cioè dei dialetti, l’ignoranza dei poveri venuti da ogni dove e la stupidità di tanti tra quelli che hanno studiato, chi prima non voleva la guerra e poi la voleva). Ma il punto è, lo ripeto: come parlava di tutto ciò? A bassa voce, con pudore, con dolore, con l’anima (dico anima, non tecnica, bravura, mestiere, né immersione psicologica: in chi poi se il suo personaggio è un ignoto?). Si trattava di un racconto moderno di cose antiche, un racconto senza soggetto rivolto a un soggetto che potrebbe rispondere e anzi davvero rispondeva: ignoto? Ma se mi hanno bombardato e sono ignoto a me stesso!
L’altro cruciale capitolo era, di Perrotta, la gestualità. Nell’immobile corpo vi era una specie di pietrificazione, quella della stupefazione che precede e segue la parola; o un’austerità, una rinuncia. Ma vi erano anche le braccia. Il senso del loro movimento lo si coglieva negli ultimi minuti, quando esce infine una musica: era un movimento da direzione d’orchestra, ma ondeggiante, apprensivo, conclusivo. Quelle «cose antiche» Perrotta non le stava recitando: immerso, le stava rivivendo.