Mario Perrotta

Sipario

In nome del padre Il numero preferito da Mario Perrotta è il tre. Tre sono i testi di Flaubert, Aristofane e Moliere che costituiscono l’ossatura d’una Trilogia sull’individuo sociale. Tre sono le schegge dell’emozionante Progetto Ligabue, snodatosi in tre diversi momenti (Un bes, Pitur, Bassa continua Toni sul Po). E più di recente, nel settembre del 2016, arriva Verso […]

In nome del padre

Il numero preferito da Mario Perrotta è il tre. Tre sono i testi di Flaubert, Aristofane e Moliere che costituiscono l’ossatura d’una Trilogia sull’individuo sociale. Tre sono le schegge dell’emozionante Progetto Ligabue, snodatosi in tre diversi momenti (Un besPiturBassa continua Toni sul Po). E più di recente, nel settembre del 2016, arriva Verso terra – A chi viene dal mare, occupando tre giorni in tre differenti location del Salento. Spettacoli, è giusto dirlo, di grandi consensi e riconoscimenti come i diversi Premi Ubu e altri ancora. Adesso Perrotta con questo suo In nome del padre nella trina veste di drammaturgo, regista e unico interprete, che ha debuttato in prima assoluta al Piccolo di Milano, nel circolare Teatro Studio Melato, vuole fare il blow up su una nuova trilogia incentrata sulla famiglia di oggi, iniziando giusto con questo spettacolo un viaggio che proseguirà poi indagando sulle figure delle madri e infine dei figli. Manco a dirlo lo spettacolo in questione è incentrato su tre diversi padri che abitano in tre diversi piani d’un palazzo: il giornalista siciliano Sciacca al 1° piano, il capofficina veneto al 2° e il napoletano commerciante Giuseppe al 3° piano. A Perrotta gli è sufficiente indossare una giacca o un giubbino accanto a tre filiformi sculture colte in tre diverse posture, per diversificare bene i tre personaggi che si esprimono con le parlate tipiche di quelle regioni, sofferenti tutti e tre della stessa malattia di vivere pessimi rapporti con i figli adolescenti, scoprendosi ridicoli e non adeguati al ruolo di padri, distanti dal capire ciò che frulla in quei cervelli distratti da mille cose, specchio d’una società schizzata e un po’ alla deriva, i cui valori ormai sono diventati carta straccia, mucchi di polvere che si volatilizzano e i cui pulviscoli chissà se un giorno potranno dare vita ad un nuovo rinascimento. «Il nostro tempo è il tempo del tramonto dei padri – scrive in una nota Massimo Recalcati consulente della drammaturgia di Perrotta – . Ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. I padri smarriti si confondono coi figli: giocano agli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo. La differenza simbolica tra le generazioni collassa». Insomma stiamo assistendo ad una evaporazione della figura tradizionale del padre, per il quale si può ipotizzare nel futuro un’altra immagine, un padre diverso. Argomenti che in maniera portentosa Perrotta porta in scena, facendosi portatore del pensiero dei tre personaggi, saltando da uno all’altro avendo chiari i pensieri che li attanagliano. Il giornalista vuole scrivere un articolo sugli adolescenti che sono già oltre 100mila quelli chiusi nelle loro stanze, come suo figlio Virgilio, avvolti da un mal di vivere che niente ha a che fare con l’atarassia dei greci, fuggendo un mondo che disprezzano e che provoca solo dolore. Con la moglie cerca di capire le ragioni di questo comportamento, che non è l’insuccesso o il bullismo scolastico, né tanto meno il timore del mondo o una silente omosessualità accostandolo a nomi altisonanti di omosessuali riguardanti la letteratura, l’arte e la storia. Il capofficina da canto suo, non ha problemi con suoi dieci operai ma con il figlio Lesandro che va bene a scuola ma che vorrebbe, a suo dire, un padre colto e che si esprima in un buon italiano. Consigliato dal commerciante Giuseppe del terzo piano è andato da uno psicanalista ma ne è uscito scontento perché lui parla e l’altro non gli dice niente. Rimpiange di non avere la cultura di Sciacca e invidia la vita di Giuseppe tutta all’insegna di soldi, discoteche e palestre. Qui il problema è più del padre che del figlio, colto più volte a chiudere lui le pagine di youporn lasciate sul computer. Per il commercialista il capofficina è uno zotico, gli ha consigliato lo stesso psicanalista dove va sua moglie e i suoi pensieri sono i soldi, le donne, le canne, gli spritz e le discoteche dove ci porta la figlia Giada con le amiche. Il tipo con evidenti tare infantili si vanta d’avere quattro negozi e venti stipendi da distribuire, pensa che la figlia, sempre con le cuffie alle orecchie ad ascoltare musica, possa essersi innamorata di Virgilio e aver flirtato con lui. In fondo forse non gliene frega nulla, neppure che la moglie possa fare nei suoi frequenti viaggi in Francia ciò che lui fa con le sue donnine. Mario Perrotta si cala agevolmente nei tre personaggi, pure nei loro tipici idiomi, lasciando alla fine un filo di speranza perché Virgilio aprendo la porta della sua stanza abbraccerà il padre, restando così sino all’alba, dicendo che il giorno dopo sarebbe andato a scuola. Giada ha scritto a Virgilio dicendo che il padre non era più un problema e la stessa cosa ha fatto il ragazzo nei confronti del suo, aggiungendo che sarebbe tornato a scuola. Lesandro invece si avvicinerà al padre e insieme suoneranno la chitarra. Le porte che si aprono e i silenzi dei figli per spalancare infine i cuori dei padri.