Mario Perrotta

Prima Guerra

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Prima GuerraQuattordicidiciotto

«Perrotta e Roscioli, affiancati sulla scena dai musicisti Mario Arcari ed Enrico Mantovani, affidano alla sola voce le mille sfumature di un testo splendido, potente nella semplicità ruvida di un parlato dal sapore trentino e in perfetta fusione con una musica e un cantato che ora è racconto e ricordo, ora è pura emozione»
Alessandra Agosti, Il Giornale di Vicenza

Uno spettacolo di Mario Perrotta
Con Mario Perrotta e Paola Roscioli
musiche originali eseguite dal vivo da Mario Arcari (oboe, clarinetto, percussioni) ed Enrico Mantovani (chitarre)

Spettacolo scelto da Radio 3 Rai per il centenario della Grande Guerra

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Quando nasce una guerra – dio mama – so da che parte sto. Anche se non la voglio, anche se quella guerra mi ribalta lo stomaco, comunque so da che parte sto: se sono francese, poniamo, sto con la Francia; se sono tedesco sto con la Germania; austriaco con l’Austria e se sono italiano sto con l’Italia…
E invece no. Se sono italiano, ma vivo in Trentino o nelle Venezie Giulie, può anche essere che sto con l’Austria. Anzi: sicuro che sto con l’Austria, soprattutto se questa nazione si chiama ancora Impero Austro-Ungarico e siamo nei primi anni del secolo passato.

Però, quando una guerra nasce, finisce pure. E tutti ce lo ricordiamo quand’è nata e quando è finita. Tutti lo sappiamo e lo ripetiamo, da un secolo: la guerra del ’15 -’18…
E invece no. Se sono italiano, vivo in Trentino o Venezie Giulie – che poi è austrungarìa – può anche essere che la guerra comincia prima. Anzi: sicuro che comincia prima. Soprattutto se c’ho 21 anni, massimo 40, la guerra, per me che sono italiano e sto con l’Austria, comincia nel 1914 . Però – dio benedetto – finisce come per tutti gli altri nel 1918.

E quando una guerra finisce si sa finalmente chi sono i vincitori e i vinti…
E invece no. Se sono austro-italiano, c’ho i miei 21 anni, massimo 40, ho buttato il sangue un anno in più degli altri italiani come me, può anche essere che non so se ho vinto o perso. Anzi: sicuro che non lo so, soprattutto se mio fratello era sull’altro fronte – “boia di un giuda” l’han chiamato – mia mamma e la mia donna portate di forza in un campo di concentramento da soldati austriaci come me, la nostra casa stracciata e con la porta sbracata che sembra urlare la sua disperazione, mentre io, che almeno pianger volevo davanti a questo scempio della guerra finita, mi hanno detto di stare allegro che ora siamo in Italia, che anche se non ho più niente e se ho sparato dalla parte sbagliata, ora siamo in Italia. Cristo! Anche il diritto alla disperazione m’hanno tolto che adesso, dicono, siamo in Italia, dicono.

Non so, quindi, se ho vinto o se ho perso.
So solo che gli austriaci m’hanno dato addosso perché non si fidavano di noi di lingua italiana; che gli italiani m’hanno dato addosso perché non si fidavano di noi italiani di Cecco Peppe; che Mussolini m’ha dato addosso e m’ha nascosto i miei morti all’ombra di Battisti; che io non ho voluto la maledetta guerra, che ho sparato a un nemico che non m’è nemico, che m’hanno chiamato dai campi – tempo un giorno – per andare in trincea e che nessuno m’ha risposto alla domanda: ma io, da che parte sto?

Appunti su Prima Guerra

Con questo spettacolo ho voluto indagare un pezzo di storia misconosciuto, anzi, volutamente cancellato perché, come sempre, la storia la scrivono i vincitori. E fu così anche nel 1918: si insabbiò la vicenda dei trentini e dei giuliani che combatterono onestamente come soldati austriaci di lingua italiana, per rendere trionfale la questione irredentista e la conquista di Trento e Trieste. Ma i numeri parlano chiaro: circa 100.000 arruolati di lingua italiana con l’Imperatore d’Austria e solo 1.700 irredenti che passarono a combattere con l’Italia.
Ma non è finita: perché nessuno ci ha mai raccontato che gli austriaci di lingua tedesca, appena l’Italia entrò in guerra, deportarono, nel giro di 24 ore, i loro stessi connazionali di lingua italiana – 130.000 donne, vecchi e bambini – e li ammassarono nei primi campi di concentramento della storia contemporanea, le cosiddette “Città baracche”, lasciandoli a deperire in condizioni penose per 3 anni, fino alla fine del conflitto.
E infine: tornati dai campi di concentramento, donne, vecchi e bambini sopravvissuti, scoprirono di essere diventati italiani di lingua e di fatto e scoprirono che nessuno sapeva dirgli che fine avessero fatto i loro cari mandati al fronte dagli austriaci, austriaci la cui macchina burocratica, intanto, era andata distrutta sotto i colpi della sconfitta.
E allora, donne e anziani si rimboccarono le maniche e ripartirono ancora, destinazione Monti Carpazi sull’ex fronte russo, a cercare tra le rocce un bracciale, un anello, un foglio di carta, una medaglietta, che gli permettesse di riconoscere un fratello, un marito, un figlio.
Alla storia nascosta di questi uomini dedico questo spettacolo e l’impegno mio e dei miei compagni di viaggio che hanno affrontato con passione questa messa in scena tra parole e musica.