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con Massimo Recalcati e Mario Perrotta

dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy

 

Un padre e un figlio, sulle strade di un mondo devastato da una catastrofe a noi ignota, cercano una via di salvezza, ostinatamente, contro ogni ragionevole evidenza: intorno a loro uomini che mangiano altri uomini, un paesaggio post-apocalittico, spogliato di ogni forma d’esistenza, non un fiore, non un rapporto umano. Ma il padre e il figlio portano con sé la scintilla primordiale:

 

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

 

Così il padre del romanzo di McCarthy rassicura il figlio.

È il colore del fuoco, il rosso vivo della passione, dell’esistenza, del sangue, che lancia un messaggio di fede incrollabile nella vita, nonostante tutto sembri tramare per una vittoria delle tenebre.

Questo è il retrogusto vivifico che La strada lascia al lettore e che, da sempre, ha affascinato l’immaginario di Massimo Recalcati e di Mario Perrotta.

Da questo nucleo nasce l’idea di portare in scena in forma di indagine un gioco intimo a due, tra brani del romanzo cui Perrotta dà voce e corpo e l’originalissima rilettura di Massimo Recalcati. Il tutto immerso in un potente contrappunto musicale immaginato per esaltare l’incontro tra due delle voci più significative della cultura contemporanea: Recalcati e Perrotta, insieme in scena, intrecciano stili e temi cari alle loro scritture, per un evento speciale quantomai attuale e necessario in questa fase di rinascita dall’orrore della pandemia.

In scena Mario Perrotta Perrotta con la giornalista di Repubblica e critica teatrale Sara Chiappori e il noto teologo e autore di numerosi besteseller Vito Mancuso.
Tre serate tra teatro, letteratura e filosofia, sulle tracce delle trasformazioni del concetto di libertà da Sofocle a Italo Calvino.

Quale libertà
Libertà è una parola che segna con forza la nostra contemporaneità, soprattutto dopo che la pandemia ancora in corso ci ha ricordato drammaticamente il senso delle parole segregazione, isolamento, costrizione, solitudine. Oggi, dopo anni di clausure più o meno stringenti, ognuno di noi vorrebbe essere “libero”. Questo desiderio profondo e ancestrale di libertà, però, si scontra – e da sempre – con la libertà dell’altro, di chi mi sta accanto, di chi mi abita di fronte, di chi ha idee diverse dalle mie.
E allora è il momento di riparlare di libertà, di riflettere su quel passaggio delicato e fondamentale in cui la “mia” libertà diventa la “nostra” libertà.

Lo spettacolo
Da queste riflessioni è nato Libertà rampanti, primo atto del nuovo progetto teatrale (Penso che dovrei volare – 2022-24) che svilupperò attorno al concetto di libertà.
In scena sarò accompagnato dal teologo Vito Mancuso e dalla giornalista e critica di Repubblica Sara Chiappori, per un’indagine a tre voci tra letteratura, musica, teatro e filosofia: un affascinante percorso da Sofocle a Calvino, passando per le suggestioni di Sant’Agostino, Voltaire, Shakespeare, Dostoevskij, Morante, sulle tracce dei mutamenti che la parola libertà ha conosciuto nella storia della cultura occidentale.

I brani che propongo in voce e musica saranno oggetto di confronto tra Sara Chiappori e Vito Mancuso in un continuo rimando tra riflessione e teatro, per un evento speciale che si concluderà con le parole e il pensiero di Italo Calvino.

Mario Perrotta

uno spettacolo di Mario Perrotta
con 
Mario Perrotta
produzione Permàr, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

lo spettacolo

In scena un uomo, o meglio, la sua voce interiore. È la sua anima che fa spettacolo. Tra i tanti abitanti delle pagine dei romanzi di Calvino, è quello meno libero: ha un corpo, una lingua e una mente che non rispondono alla sua urgenza di dire, di agire. Oggi e solo oggi, però, ha deciso di fare spettacolo della sua esistenza, dei suoi pensieri, dei sentimenti che lo agitano. Lui, inchiodato com’è a una croce che non ha voluto, ha deciso di prendersi un’ora d’aria, un’ora e poco più di libertà. E la cerca, la libertà, tra le pagine delle opere del “signor Calvino Italo”, la racconta come sa e come può, la trasforma in versi, in musica, in parabole e collegamenti iperbolici tra un romanzo e l’altro, in canzoni-teatro sarcastiche e frenetiche e improvvisi minuetti intimi, “scalvinando” quelle opere a suo uso e consumo. Il tutto mentre accanto scorre, amaramente ironica, la sua personalissima storia d’amore, una storia impossibile per quel corpo e quella lingua incapaci di parlare.

la libertà, Calvino e io

Il personaggio in scena è un abitante del Cottolengo, il Nano del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, personaggio cui Calvino dedica una sola pagina se pur memorabile. Ho scelto lui e ne ho immaginato tutta l’esistenza – esistenza che Calvino non ci racconta – proprio perché il mio intento era ragionare intorno al concetto di libertà e il Nano del romanzo ne è totalmente privo.

E torno così alle ragioni prime del mio progetto: non certo uno spettacolo su Calvino, ma uno spettacolo sulla libertà, sull’autodeterminazione, tema che occupa da molto tempo i miei pensieri sull’uomo in quanto animale sociale e sulle storture che mi fastidiano nel nostro convivere quotidiano. Per mia fortuna lo stesso tema ha assediato i pensieri di Italo Calvino lungo tutta la sua parabola letteraria, attraversando ugualmente i romanzi realistici, così come quelli fantastici e l’epoca combinatoria. Questo mi ha consentito di coniugare il mio “ragionare di libertà” con la possibilità di affrontare un autore che ho molto amato ma che mai avevo osato accostare al mio teatro. Ho sempre pensato, difatti, che Calvino fosse impossibile da rappresentare, almeno così com’è.

È stato questo confluire delle mie riflessioni e di quelle di Calvino intorno a quella parola fragile che è “libertà” che mi hanno convinto a provarci. E, soprattutto, è stato la scoperta di quel romanzo considerato minore e quel personaggio così impossibilitato a scegliere per se stesso a darmi una plausibile via da percorrere con la mia scrittura. Parto quindi, dalla sua condizione antitetica di disabile totale per parlare della condizione di noi “abili” che la libertà la sprechiamo ogni giorno. E affondo le mani liberamente negli altri scritti di Calvino “scalvinandoli”, scompigliandoli e ricomponendoli, così come serve al Nano per procedere nella sua serata di spettacolo.

Ne è venuto fuori uno spettacolo profondamente mio che – al contempo – mi sembra rispettare nella sua sostanza profonda la lezione calviniana sulla libertà. Un omaggio personalissimo a un autore che ha saputo modellare la mia visione delle cose del mondo.

Mario Perrotta

uno spettacolo di Mario Perrotta

consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati

Premio Ubu 2022 Miglior nuovo testo / scrittura drammaturgica

Dalila Cozzolino finalista ai Premi Ubu 2022 come Miglior Attrice Under 35

con Luigi Bignone, Dalila Cozzolino, Matteo Ippolito, Mario Perrotta

e – in video – Arturo Cirillo, Alessandro Mor
Marta Pizzigallo, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano

e – in audio – Saverio La Ruina, Marica Nicolai, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano

aiuto regia Marica Nicolai
costumi Sabrina Beretta
luci e scene Mario Perrotta
video Diane | Luca Telleschi | Ilaria Scarpa
mashup Vanni Crociani, Mario Perrotta
realizzazione scene Fabrizio Magara
sarta di scena Maria Isabel Anaya
foto Luigi Burroni

produzione Teatro Stabile di Bolzano, Fondazione Sipario Toscana Onlus
La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale, Permàr

in collaborazione e con il contributo di Comune di Grosseto, Teatro Cristallo
Olinda residenza artistica, La Baracca – Medicinateatro, Duel

La trilogia: In nome del padre, della madre, dei figli >

Dei Figli conclude la trilogia In nome del padre, della madre, dei figli, provando a ragionare su quella strana generazione allargata di “giovani” tra i 18 e i 45 anni che non ha intenzione di dimettersi dal ruolo di figlio. Non tutti, per fortuna, e non in ogni parte del mondo. Ma in Italia sì, e sono tanti…

Una casa che è limbo, che è purgatorio, per chiunque vi passi ad abitare. Vite in transito che sostano il tempo necessario – un giorno o anche una vita – pagano un affitto irrisorio e in nero e questo li lascia liberi di scegliere quanto stare, quando andare.

Solo uno sosta lì da sempre: Gaetano, il titolare dell’affitto.
Al momento, le vite in casa sono quattro. Vediamo tutti gli ambienti come se i muri fossero trasparenti. La casa è fluida, come le vite che vi abitano. Le uniche certezze sono tre monitor di design, bianchi, come enormi smartphone. Su ognuno di essi stanziano, incombenti, le famiglie di origine degli abitanti: genitori, sorelle, cugini…
13 personaggi per un intreccio amaramente comico, un avvitamento senza fine di esistenze a rischio, imbrigliate come sono nel riflettere su se stesse.

Mario Perrotta

Una delle grandi mutazioni antropologiche del nostro tempo riguarda la cronicizzazione dell’adolescenza. Se prima la giovinezza era legata alla pubertà e si concludeva con la fine dell’adolescenza, oggi l’adolescenza non è più il riflesso psicologico della “tempesta” psicosessuale della pubertà bensì una condizione di vita perpetua che tende a cronicizzarsi. Quando questo accade in primo piano è la difficoltà del figlio di accettare la separazione dai genitori per riconoscersi e viversi come adulto. L’adolescenza perpetua impedisce infatti al figlio di divenire uomo assumendo le conseguenze dei propri atti anziché colpevolizzare il mondo degli adulti identificandosi nel ruolo della vittima tanto innocente quanto inconsolabile.
Il nuovo spettacolo di Mario Perrotta indaga queste e altre sfumature dell’esser figlio sine die, senza però dimenticare la forza, lo splendore e l’audacia straordinaria della giovinezza.

Massimo Recalcati

uno spettacolo di e con Mario Perrotta

produzione Permàr

con il sostegno di Duel

musiche Silva Costanzo, Mario Arcari

 

 

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Cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa.
Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso.
Andrea Camilleri

 

Mario Perrotta dà voce e corpo a Terra matta di Vincenzo Rabito, le memorie di un uomo che attraversa tutti gli eventi epocali del secolo scorso.

Manuale di sopravvivenza è nato come lettura audio-video all’inizio della pandemia di Covid-19 da un’idea del Piccolo museo del diario e dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (AR), in collaborazione con Giulio Einaudi Editore, Radio3 Rai e Duel, per ridare al tempo della clausura forzata una dimensione più umana, rilassata, una cura dell’anima altrettanto necessaria dopo la prioritaria cura dei corpi.

Il progetto diventa ora una lettura-spettacolo su musica che attraversa alcune delle vicende più appassionanti di un uomo che ha superato tutte le difficoltà della vita, rischiando spesso la propria e rialzandosi sempre. Un’epopea tragicomica e a volte esilarante, scolpita con una Olivetti Lettera 22 da un semianalfabeta ormai settantenne come ultima battaglia personale perché, come dice Rabito stesso, «se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare».

Foto: © Luigi Burroni

 

uno spettacolo di e con Mario Perrotta

consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati

produzione Permàr, Teatro Stabile di Bolzano

collaborazione alla regia Paola Roscioli

aiuto regia Donatella Allegro

costumi Sabrina Beretta

musiche Giuseppe Bonomo, Mario Perrotta

progetto grafico Fabio Gamberini

organizzazione Permàr

in collaborazione con DUEL

Premi Ubu 2019 – Secondo classificato nella categoria Miglior nuovo testo o scrittura drammaturgica

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La trilogia: In nome del padre, della madre, dei figli >

Interamente scritto e diretto da Perrotta, In nome del padre nasce da un intenso confronto con lo psicanalista Massimo Recalcati, che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro.

Un padre. Uno e trino. Niente di trascendentale: nel corpo di un solo attore tre padri diversissimi tra loro per estrazione sociale, provenienza geografica, condizione lavorativa. Sulla scena li sorprendiamo ridicoli, in piena crisi di fronte al “mestiere più difficile del mondo”.
I figli adolescenti sono gli interlocutori disconnessi di altrettanti dialoghi mancati, l’orizzonte comune dei tre padri che, a forza di sbattere i denti sullo stesso muro, si ritrovano nudi, con le labbra rotte, circondati dal silenzio. E forse proprio nel silenzio potranno trovare cittadinanza le ragioni dei figli.

Mario Perrotta

Il nostro tempo è il tempo del tramonto dei padri. La loro rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita dei figli o come bastoni pesanti per raddrizzarne la spina dorsale si è esaurito irreversibilmente. Il nostro tempo è il tempo dell’evaporazione del padre e di tutti i suoi simboli. Ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. I padri smarriti si confondono coi figli: giocano agli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo. La differenza simbolica tra le generazioni collassa. In questo contesto di decadenza emerge forte una esigenza di nuove rappresentazioni del padre.

Il linguaggio dell’arte – e in questo progetto di Mario Perrotta che ho scelto di accompagnare, il linguaggio del teatro – può dare un contributo essenziale per cogliere sia l’evaporazione della figura tradizionale della paternità, sia il difficile transito verso un’altra immagine – più vulnerabile ma più umana – di padre della quale i nostri figli – come accade a Telemaco nei confronti di Ulisse – continuano ad invocarne la presenza.

Massimo Recalcati

Di e con Mario Perrotta


 

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3 puntate realizzate live su musica dalla nota trasmissione andata in onda su Radio Rai 2 nel 2007 sull’emigrazione italiana del dopoguerra.

Nel 1980 Mario Perrotta ha 10 anni e da solo, una volta al mese, va in treno da Lecce a Milano, per vedere un po’ più spesso suo padre che lavora a Bergamo e per controllare “l’apparecchio ai denti”. In ogni viaggio viene affidato dalla madre a una famiglia di emigranti scelta sul momento. Brindisi, Bari, Pescara, Ancona, Rimini, Bologna, Parma, Milano; ma anche Zurigo, Stoccarda e Bruxelles in un fuori programma deciso dal padre all’arrivo nella grigia e imponente Stazione Centrale di Milano.

Per la trasmissione radiofonica sono state realizzate 15 puntate: 15 stazioni per altrettante storie che ritraggono un’Italia sopravvissuta a un’epopea di umani affanni. La curiosità di Mario bambino alimenta la sua fantasia insieme ai racconti dei viaggiatori. Scorrono davanti ai suoi occhi le odissee degli italiani che negli anni sono stati costretti ad abbandonare i luoghi d’origine nella speranza di un’esistenza migliore. Nei paesi di destinazione, non così distanti, hanno trovato intolleranza, subito umiliazioni, incontrato condizioni di vita e di lavoro disumane. Cambiano il colore della pelle, i nomi, l’epoca, i mezzi usati e i luoghi di partenza e di arrivo, ma si ripete ancora oggi quel drammatico movimento migratorio che accomuna popoli di diverse sponde geografiche. Attraverso la voce e lo sguardo di un bambino che mescola dentro di sé radici, tradizioni, rimpianti, dialetti, sogni, attese, Emigranti Esprèss è la narrazione di quei viaggi sul treno degli emigranti: non solo la rievocazione di storie italiane strappate alla dimenticanza, ma una sorta di poema popolare che commuove e fa riflettere.

 

All’interno del progetto Versoterra è stato realizzato un evento esclusivo: l’esecuzione dell’intera trasmissione RAI in 15 puntate in 3 giorni di spettacolo consecutivi.

Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Interpretato e diretto da Mario Perrotta

 

 

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Documentario Miniere e Fabbriche: parte prima > e parte seconda >

 

Progetto Italiani Cìncali: vai alla parte prima Minatori in Belgio >

 

– Se sei emigrante la prima cosa che ti devi imparare è che nna enùta è solo nna enùta, mentre la turnàta è per sempre…

– Due termini per indicare la stessa cosa: il ritorno. Ma la differenza è fondamentale. Me l’hanno spiegata con parole semplici ma inequivocabili. Nna enùta (una venuta), è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare…
La turnàta, invece, è altra cosa… vuol dire che hai raggiunto l’obiettivo, ti sei sistemato, puoi mettere a fuoco, ricordare le facce e i luoghi perché ora stai per tornarci, definitivamente.
Ancora una volta loro parlano e io ascolto, registro cassette su cassette, raccolgo materiali, lettere, annoto sensazioni. Ma, soprattutto, cerco di tenere a mente gli sguardi, sono quelli che mi raccontano più di ogni parola, sono gli sguardi ciò che dovrò portare con me quando racconterò la loro storia. E ognuno ha il suo di sguardo, frutto di vicende personali e familiari, frutto delle diverse esperienze lavorative, del livello di integrazione raggiunto all’estero. Anche il luogo scelto per emigrare sembra avere un peso: c’è un sguardo da Belgio, uno da Germania, uno da Svizzera, ma, soprattutto, c’è uno sguardo da enùta e uno da turnàta. Chi è rimasto e chi è tornato. Due categorie distinte e di facile comprensione.
E alla fine degli anni sessanta molte erano le “venute”, magari anche con la macchina
– …ché chi partiva in treno, tornava in macchina, sennò che tornava a fare…
– magari con una macchina nuova multiaccessoriata
– …versione Sport, pelliccia sui sedili, volante in pelle e doppia marmitta che tuona, per dare un sentimento di potenza a chi ti guarda…
– magari anche con la moglie bionda, biondissima, anche lei superaccessoriata
– …ché chi partiva scapolo, tornava con la femmina, sennò che ci era andato a fare…
– ma sempre di “venute” si trattava, per poi ripartire e dimenticare.
 
Le turnàte invece erano poche ed erano un’avventura.
Chiudere una vita passata all’estero in un camion – armadio, letti, corredo, servizi di piatti, pentole, quadri, foto, lettere, lettere di licenziamento, di assunzione, passaporto, visti sul passaporto, conto in banca, cassa malattia, visite mediche alla frontiera, viaggi in treno, compagni di viaggio, amici, nemici, mangianastri, mangiadischi, dischi italiani, ricordi, belli, brutti, la Germania, il Belgio, la Svizzera, cìncali, umiliazioni, riscatti, la prima macchina, la seconda… – e guardarlo partire quel camion. E poi accendere la macchina e seguirlo. Passare la frontiera. Arrivare sino a Bologna dove finisce l’autostrada. Arrivare nel Salento dove finisce l’asfalto. Arrivare a casa dove finisce tutto. Allora vuole dire che ti sei sistemato…
Da Zurigo a Lecce i chilometri sono 1400. Un’avventura. Soprattutto se non hai un camion; soprattutto se non hai armadio, letti, corredo, servizi di piatti, pentole… soprattutto se la turnàta la fai non perché ti sei sistemato ma perché
– …gli svizzeri ti hanno fottuto!
– soprattutto se in macchina ci sono un nonno morto, un sindacalista e un bambino che ha vissuto cinque anni murato in una stanza.
Un’avventura.

Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Interpretato e diretto da Mario Perrotta
Voci amichevolmente registrate da Peppe Barra, Ferdinando Bruni, Ascanio Celestini, Laura Curino, Elio De Capitani

DEDICATO A LUCIO PARROTTO

Spettacolo finalista ai PREMI UBU 2004 categoria Migliore Drammaturgia

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Cìncali cioè: zingari!
Così credevano di essere chiamati gli italiani emigrati in Svizzera; pare, invece, che fosse una storpiatura di cinq, “cinque” nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra
– …sì, ma voleva dire anche zingaro!
– Quasi un anno di testimonianze, un anno di memorie rispolverate a fatica. Ho preso la macchina e ho girato senza un luogo preciso dove andare, eppure il Sud è tutto uguale, non hai bisogno di sapere dove qualcuno ha preso le valigie ed è partito: basta entrare in un bar, un bar della provincia e chiedere. La risposta è sempre la stessa:
– qui tutti siamo emigrati…
– me lo racconta?
Si fanno pregare, un attimo soltanto, poi partono con la loro storia, infinita, che reclama ascolto. Anche il Sud è infinito. Me lo insegna la mia macchina che mi porta di paese in paese, sempre per caso, e s’inerpica tra i paesi montani del nord-est produttivo ed è ancora Sud. Sì! Per i Belgi, gli Svizzeri, i Tedeschi che chiedevano braccia dopo la seconda guerra mondiale, Sud era la Puglia, la Sicilia, la Calabria e Sud era il Veneto, il Friuli:
– siamo emigrati tutti qui …
– Quattro parole, sempre le stesse.
– Sì, sì… io ci ero amico con quelli del Sud, ma noi veneti ci trattavano meglio di loro, all’estero…
– e giù così fino a Lecce confine ultimo ad est, che non ha un Sud, e allora il cerchio si chiude:
– noi leccesi lavoravamo meglio e di più di quelli del nord… perciò eravamo rispettati…
– Non è vero purtroppo, né per gli uni né per gli altri, ma ognuno ha bisogno di un proprio Sud.
Negli archivi pubblici e privati trovo lettere, diari salvati per miracolo ma loro non hanno più nulla,
– ho bruciato tutto… – mi confessa qualcuno – meglio dimenticare…
– Meglio dimenticare.
Non la penso esattamente così ma accetto la loro posizione di esuli perenni, di zingari della memoria, senza una terra da chiamare “casa”:
– stavo meglio al Belgio… – mi dicono in Italia.
– Qui si sta bene, ma il paese è il paese… – mi dice chi è rimasto fuori. Non è vero purtroppo, loro una “casa” non l’hanno più. Alcuni mi indicano qualcun’altro come se fosse la loro “casa” -… chiedi a lui, a lui! Lui conosce tutte le nostre storie…-.
– Per trent’anni ho letto e scritto tutte le lettere di questo paese. Qui erano tutti analfabeti!
– Un postino. Il postino. Due, tre, quattro postini e anche loro sono tutti uguali, come il Sud. Sapevano tutti leggere e scrivere. Li ascolto e scopro in loro la coscienza involontaria di un’intera comunità. Il postino ha molto da dire, ricorda tutto perché la sua era una missione, lui era il ponte con il mondo, lui ha viaggiato più di tutti senza aver mai lasciato il paese: il postino sì che ha memoria!
E la memoria è importante, perché -…ne abbiamo sempre meno…
– perché – …qualcuno l’avrà pure permesso quel boom economico…
– perché – …l’Italia girava in Cinquecento e noi dormivano in otto in una stanza…
– perché – …siamo stati venduti dallo Stato per un sacco di carbone…
– perché – …mi vergogno di raccontare a mio figlio quello che siamo stati e come ci hanno trattati… –
Il postino, lui sa tutte queste storie… sì, ma come metterle in scena? Forse partirò da qui…
(Luce. In scena c’è un postino. Racconta)

Uno spettacolo di Mario Perrotta
collaborazione alla regia Paola Roscioli
collaborazione alla ricerca Riccardo Paterlini

Premio UBU 2013 come Miglior attore protagonista
Premio HYSTRIO-TWISTER 2014 come Miglior spettacolo dell’anno a giudizio del pubblico
Premio UBU 2015 come Miglior progetto artistico e organizzativo per l’intero Progetto Ligabue
PREMIO DELLA CRITICA/Associazione Nazionale Critici di Teatro 2015 per l’intero Progetto Ligabue

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Un bès… Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi

Provo a chiudere gli occhi e immagino: io, così come sono, con i miei 40 passati, con la mia vita – quella che so di avere vissuto – ma senza un bacio. Neanche uno. Mai.
Senza che le mie labbra ne abbiano incontrate altre, anche solo sfiorate. Senza tutto il resto che è comunione di carne e di spirito, senza neanche una carezza. Mai.
E allora mi vedo – io, così come sono – scendere per strada a elemosinarlo quel bacio, da chiunque, purché accada.
Ecco, questo m’interessa oggi di Antonio Ligabue: la sua solitudine, il suo stare al margine, anzi, oltre il margine – oltre il confine – là dove un bacio è un sogno, un implorare senza risposte che dura da tutta una vita. Voglio avere a che fare con l’uomo Antonio Ligabue, con il Toni, lo scemo del paese. Mi attrae e mi spiazza la coscienza che aveva di essere un rifiuto dell’umanità e, al contempo, un artista, perché questo doppio sentire gli lacerava l’anima: l’artista sapeva di meritarlo un bacio, ma il pazzo, intanto, lo elemosinava.
Voglio stare anch’io sul confine e guardare gli altri. E, sempre sul confine, chiedermi qual è dentro e qual è fuori.

Mario Perrotta