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Un padre e un figlio, sulle strade di un mondo devastato da una catastrofe a noi ignota, cercano una via di salvezza, ostinatamente, contro ogni ragionevole evidenza: intorno a loro uomini che mangiano altri uomini, un paesaggio post-apocalittico, spogliato di ogni forma d’esistenza, non un fiore, non un rapporto umano. Ma il padre e il figlio portano con sé la scintilla primordiale:

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Così il padre del romanzo di McCarthy rassicura il figlio.

È il colore del fuoco, il rosso vivo della passione, dell’esistenza, del sangue, che lancia un messaggio di fede incrollabile nella vita, nonostante tutto sembri tramare per una vittoria delle tenebre.

Questo è il retrogusto vivifico che La strada lascia al lettore e che, da sempre, ha affascinato l’immaginario di Massimo Recalcati e di Mario Perrotta.

Da questo nucleo nasce l’idea di portare in scena in forma di indagine un gioco intimo a due, tra brani del romanzo cui Perrotta dà voce e corpo e l’originalissima rilettura di Massimo Recalcati. Il tutto immerso in un potente contrappunto musicale immaginato per esaltare l’incontro tra due delle voci più significative della cultura contemporanea: Recalcati e Perrotta, insieme in scena, intrecciano stili e temi cari alle loro scritture, per un evento speciale quantomai attuale e necessario in questa fase di rinascita dall’orrore della pandemia.

produzione Permar Compagnia Mario Perrotta

con il sostegno di Regione Emilia Romagna

scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta

collaborazione alla regia Paola Roscioli

mashup e musiche originali Marco Mantovani / Mario Perrotta

produzione Permar Compagnia Mario Perrotta, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

con il contributo di Regione Emilia Romagna

in collaborazione con Comune di Medicina, Teatro Asioli di Correggio, Duel

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lo spettacolo

In scena un uomo, o meglio, la sua voce interiore. È la sua anima che fa spettacolo. Tra i tanti abitanti delle pagine dei romanzi di Calvino, è quello meno libero: ha un corpo, una lingua e una mente che non rispondono alla sua urgenza di dire, di agire. Oggi e solo oggi, però, ha deciso di fare spettacolo della sua esistenza, dei suoi pensieri, dei sentimenti che lo agitano. Lui, inchiodato com’è a una croce che non ha voluto, ha deciso di prendersi un’ora d’aria, un’ora e poco più di libertà. E la cerca, la libertà, tra le pagine delle opere del “signor Calvino Italo”, la racconta come sa e come può, la trasforma in versi, in musica, in parabole e collegamenti iperbolici tra un romanzo e l’altro, in canzoni-teatro sarcastiche e frenetiche e improvvisi minuetti intimi, “scalvinando” quelle opere a suo uso e consumo. Il tutto mentre accanto scorre, amaramente ironica, la sua personalissima storia d’amore, una storia impossibile per quel corpo e quella lingua incapaci di parlare.

la libertà, Calvino e io

Il personaggio in scena è un abitante del Cottolengo, il Nano del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, personaggio cui Calvino dedica una sola pagina se pur memorabile. Ho scelto lui e ne ho immaginato tutta l’esistenza – esistenza che Calvino non ci racconta – proprio perché il mio intento era ragionare intorno al concetto di libertà e il Nano del romanzo ne è totalmente privo.

E torno così alle ragioni prime del mio progetto: non certo uno spettacolo su Calvino, ma uno spettacolo sulla libertà, sull’autodeterminazione, tema che occupa da molto tempo i miei pensieri sull’uomo in quanto animale sociale e sulle storture che mi fastidiano nel nostro convivere quotidiano. Per mia fortuna lo stesso tema ha assediato i pensieri di Italo Calvino lungo tutta la sua parabola letteraria, attraversando ugualmente i romanzi realistici, così come quelli fantastici e l’epoca combinatoria. Questo mi ha consentito di coniugare il mio “ragionare di libertà” con la possibilità di affrontare un autore che ho molto amato ma che mai avevo osato accostare al mio teatro. Ho sempre pensato, difatti, che Calvino fosse impossibile da rappresentare, almeno così com’è.

È stato questo confluire delle mie riflessioni e di quelle di Calvino intorno a quella parola fragile che è “libertà” che mi hanno convinto a provarci. E, soprattutto, è stato la scoperta di quel romanzo considerato minore e quel personaggio così impossibilitato a scegliere per se stesso a darmi una plausibile via da percorrere con la mia scrittura. Parto, quindi, dalla sua condizione antitetica di disabile totale per parlare della condizione di noi “abili” che la libertà la sprechiamo ogni giorno. E affondo le mani liberamente negli altri scritti di Calvino “scalvinandoli”, scompigliandoli e ricomponendoli, così come serve al Nano per procedere nella sua serata di spettacolo.

Ne è venuto fuori uno spettacolo profondamente mio che – al contempo – mi sembra rispettare nella sua sostanza profonda la lezione calviniana sulla libertà. Un omaggio personalissimo a un autore che ha saputo modellare la mia visione delle cose del mondo.

Mario Perrotta

uno spettacolo di Mario Perrotta

consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati

Premio Ubu 2022 Miglior nuovo testo / scrittura drammaturgica

Dalila Cozzolino finalista ai Premi Ubu 2022 come Miglior Attrice Under 35

con Luigi Bignone, Dalila Cozzolino, Matteo Ippolito, Mario Perrotta

e – in video – Arturo Cirillo, Alessandro Mor
Marta Pizzigallo, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano

e – in audio – Saverio La Ruina, Marica Nicolai, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano

aiuto regia Marica Nicolai
costumi Sabrina Beretta
luci e scene Mario Perrotta
video Diane | Luca Telleschi | Ilaria Scarpa
mashup Vanni Crociani, Mario Perrotta
realizzazione scene Fabrizio Magara
sarta di scena Maria Isabel Anaya
foto Luigi Burroni

produzione Teatro Stabile di Bolzano, Fondazione Sipario Toscana Onlus
La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale, Permàr

in collaborazione e con il contributo di Regione Emilia Romagna, Comune di Grosseto, Teatro Cristallo
Olinda residenza artistica, Duel

La trilogia: In nome del padre, della madre, dei figli >

Dei Figli conclude la trilogia In nome del padre, della madre, dei figli, provando a ragionare su quella strana generazione allargata di “giovani” tra i 18 e i 45 anni che non ha intenzione di dimettersi dal ruolo di figlio. Non tutti, per fortuna, e non in ogni parte del mondo. Ma in Italia sì, e sono tanti…

Una casa che è limbo, che è purgatorio, per chiunque vi passi ad abitare. Vite in transito che sostano il tempo necessario – un giorno o anche una vita – pagano un affitto irrisorio e in nero e questo li lascia liberi di scegliere quanto stare, quando andare.

Solo uno sosta lì da sempre: Gaetano, il titolare dell’affitto.
Al momento, le vite in casa sono quattro. Vediamo tutti gli ambienti come se i muri fossero trasparenti. La casa è fluida, come le vite che vi abitano. Le uniche certezze sono tre monitor di design, bianchi, come enormi smartphone. Su ognuno di essi stanziano, incombenti, le famiglie di origine degli abitanti: genitori, sorelle, cugini…
13 personaggi per un intreccio amaramente comico, un avvitamento senza fine di esistenze a rischio, imbrigliate come sono nel riflettere su se stesse.

Mario Perrotta

Una delle grandi mutazioni antropologiche del nostro tempo riguarda la cronicizzazione dell’adolescenza. Se prima la giovinezza era legata alla pubertà e si concludeva con la fine dell’adolescenza, oggi l’adolescenza non è più il riflesso psicologico della “tempesta” psicosessuale della pubertà bensì una condizione di vita perpetua che tende a cronicizzarsi. Quando questo accade in primo piano è la difficoltà del figlio di accettare la separazione dai genitori per riconoscersi e viversi come adulto. L’adolescenza perpetua impedisce infatti al figlio di divenire uomo assumendo le conseguenze dei propri atti anziché colpevolizzare il mondo degli adulti identificandosi nel ruolo della vittima tanto innocente quanto inconsolabile.
Il nuovo spettacolo di Mario Perrotta indaga queste e altre sfumature dell’esser figlio sine die, senza però dimenticare la forza, lo splendore e l’audacia straordinaria della giovinezza.

Massimo Recalcati

uno spettacolo di e con Mario Perrotta

consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati

collaborazione alla regia Paola Roscioli

aiuto regia Donatella Allegro

costumi Sabrina Beretta

musiche Giuseppe Bonomo, Mario Perrotta

progetto grafico Fabio Gamberini

produzione Permar, Teatro Stabile di Bolzano

con il contributo di Regione Emilia Romagna

in collaborazione con DUEL

Premi Ubu 2019 – Secondo classificato nella categoria Miglior nuovo testo o scrittura drammaturgica

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La trilogia: In nome del padre, della madre, dei figli >

Interamente scritto e diretto da Perrotta, In nome del padre nasce da un intenso confronto con lo psicanalista Massimo Recalcati, che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro.

Un padre. Uno e trino. Niente di trascendentale: nel corpo di un solo attore tre padri diversissimi tra loro per estrazione sociale, provenienza geografica, condizione lavorativa. Sulla scena li sorprendiamo ridicoli, in piena crisi di fronte al “mestiere più difficile del mondo”.
I figli adolescenti sono gli interlocutori disconnessi di altrettanti dialoghi mancati, l’orizzonte comune dei tre padri che, a forza di sbattere i denti sullo stesso muro, si ritrovano nudi, con le labbra rotte, circondati dal silenzio. E forse proprio nel silenzio potranno trovare cittadinanza le ragioni dei figli.

Mario Perrotta

Il nostro tempo è il tempo del tramonto dei padri. La loro rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita dei figli o come bastoni pesanti per raddrizzarne la spina dorsale si è esaurito irreversibilmente. Il nostro tempo è il tempo dell’evaporazione del padre e di tutti i suoi simboli. Ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. I padri smarriti si confondono coi figli: giocano agli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo. La differenza simbolica tra le generazioni collassa. In questo contesto di decadenza emerge forte una esigenza di nuove rappresentazioni del padre.

Il linguaggio dell’arte – e in questo progetto di Mario Perrotta che ho scelto di accompagnare, il linguaggio del teatro – può dare un contributo essenziale per cogliere sia l’evaporazione della figura tradizionale della paternità, sia il difficile transito verso un’altra immagine – più vulnerabile ma più umana – di padre della quale i nostri figli – come accade a Telemaco nei confronti di Ulisse – continuano ad invocarne la presenza.

Massimo Recalcati

di e con Mario Perrotta

dall’omonima trasmissione cult per Rai Radio 2

Premio Internazionale della Radio ex aequo con la BBC

con il sostegno di Regione Emilia Romagna

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3 puntate realizzate live su musica dalla nota trasmissione andata in onda su Radio Rai 2 nel 2007 sull’emigrazione italiana del dopoguerra.

Nel 1980 Mario Perrotta ha 10 anni e da solo, una volta al mese, va in treno da Lecce a Milano, per vedere un po’ più spesso suo padre che lavora a Bergamo e per controllare “l’apparecchio ai denti”. In ogni viaggio viene affidato dalla madre a una famiglia di emigranti scelta sul momento. Brindisi, Bari, Pescara, Ancona, Rimini, Bologna, Parma, Milano; ma anche Zurigo, Stoccarda e Bruxelles in un fuori programma deciso dal padre all’arrivo nella grigia e imponente Stazione Centrale di Milano.

Per la trasmissione radiofonica sono state realizzate 15 puntate: 15 stazioni per altrettante storie che ritraggono un’Italia sopravvissuta a un’epopea di umani affanni. La curiosità di Mario bambino alimenta la sua fantasia insieme ai racconti dei viaggiatori. Scorrono davanti ai suoi occhi le odissee degli italiani che negli anni sono stati costretti ad abbandonare i luoghi d’origine nella speranza di un’esistenza migliore. Nei paesi di destinazione, non così distanti, hanno trovato intolleranza, subito umiliazioni, incontrato condizioni di vita e di lavoro disumane. Cambiano il colore della pelle, i nomi, l’epoca, i mezzi usati e i luoghi di partenza e di arrivo, ma si ripete ancora oggi quel drammatico movimento migratorio che accomuna popoli di diverse sponde geografiche. Attraverso la voce e lo sguardo di un bambino che mescola dentro di sé radici, tradizioni, rimpianti, dialetti, sogni, attese, Emigranti Esprèss è la narrazione di quei viaggi sul treno degli emigranti: non solo la rievocazione di storie italiane strappate alla dimenticanza, ma una sorta di poema popolare che commuove e fa riflettere.

Ascolta le puntate

Puntata 1 – Lecce

Questa è la stazione di partenza. Lecce. Arrembaggio al treno con la tecnica del futticumpagnu. Mario parte da solo e lancia un saluto d’amore alla mamma.

Puntata 2 – Brindisi

Il treno parte e si trasforma nella terra di nessuno. Mario si appresta a raccontare minchiate a piede libero, prega per diventare come Modugno e ammira il materno di Rosa. Storia di Antonio e del cantiere svizzero. Si chiude con un’orgia alimentare che è il vero oppio dei popoli.

Puntata 3 – Bari

Qui si materializza il “Quarto Stato” sul finestrino del treno e Mario lo intitola “Fiumana 1980”. Storie di partenze epiche per il Belgio, di visite mediche e baracche naziste. Arrivo a Bari dove si spiega la diversità genetica del barese, mentre il treno si accoppia per amore col suo compagno di Taranto, caricandosi di altro Quarto Stato.

Puntata 4 – Pescara

Il treno si assesta per la notte tra sedili, sediolini, portapacchi e bagni “autoreggenti”. Mario fugge dal suo scomparto e impara le lingue sulle targhette “non gettare alcun oggetto dal finestrino” e “vietato fumare”. Storia di Pina e di Stalin. Sapere le lingue è cosa importante…

Puntata 5 – Ancona

Puntata d’amore. Mario incontra il Professore seduto nel cesso del treno che legge lettere d’amore. Storia di Rita, Nino e il Professore e l’arte epistolare. Saper leggere è importante ma saper scrivere ti cambia la vita. Il treno riparte da Ancona e Mario si appresta alla “spiata”.

Puntata 6 – Rimini

È sempre notte fonda sul treno e Mario spiega “la spiata” e la “teoria dei piedi”. Storia di Settimo e della sua fronte solcata dalla cicatrice di Natale.

Puntata 7 – Bologna

Qui si entra nella Terra dell’Alba: l’EmiliaeRomagna. Il treno passa da una notte a un’altra notte: la notte bianca che è la nebbia. Mario fa colazione con i biscotti “Ringhio”, conosce Tano e scopre il comunismo con una partita di calcio. Intanto si sosta nella Bologna del mito per poi lasciarla per sempre. Quella Bologna non esiste più.

Puntata 8 – Parma

Apparizione dalla nebbia di Virgilio, l’uomo blu, che carica Mario sulle spalle, attraversa il finestrino del treno e cammina nel bianco della nebbia sino al nero profondo della miniera. Viaggio nei polmoni della terra sino alla vena 25. Quanto misura la tua testa?

Puntata 9 – Milano

Siamo sul fiume Po che separa quelli lavorano per vivere da quelli che vivono per lavorare. Intanto il treno carico di Pinocchi, procede verso il ventre di balena della stazione di Milano. Mario è al redde rationem: troverà o no suo padre ad aspettarlo? Certo che sì e non solo. Inaspettatamente Mario non scende dal treno… è suo padre che ci sale! E il viaggio continua.

Puntata 10 – Stazione di Milano

Sosta forzata di mezz’ora alla Stazione di Milano. Mario scende dal treno e visita in solitaria il museo delle cere, affronta per l’ennesima volta Landrù, il mostro di Parigi e incontra Assunta, nella sala d’attesa abbandonata dei sotterranei della stazione. Storia di Assunta e Rocco e del matrimonio del secolo. Tutti gli emigranti passati per quella stazione ci hanno lasciato un brandello di vita o una vita intera.

Puntata 11 – Frontiera

Qui si narra di camicie verdi, prodotte dalla sartoria Lega Nord, del cavaliere nero dell’Elvezia, James Schwarzenbach e del paese colore della sciolta. Gli emigranti affrontano la visita medica di sola andata. Voce di Domenico, operaio della Eternit. Intervista del 2003 e 2006.

Puntata 12 – Zurigo

Mario incontra Ugo. Storia del bambino Ugo e dei suoi otto anni passati in clausura in una stanza 5 metri per 4 e delle stelle nere. La pisciata nel giardino degli Svizzeri precisi precisi.

Puntata 13 – Stoccarda

Poesia “dedicata” a Zurigo. Mario cerca di volare giù dal treno per raggiungere Rosa, ma viene afferrato in volo da suo padre. Fine di un amore impossibile. La bocca schiantata di pianto e l’apparecchio ai denti. Storia di Giuseppe, dei denti di suo figlio Santuccio e della Germania. Legge tedesca dello ius sanguinis. A fine puntata la Signorina del glossario dichiara di non aver mai ascoltato una parola del programma.

Puntata 14 – Bruxelles

Con un rocambolesco cambio di programma, Mario e suo padre continuano il viaggio verso Bruxelles per vedere le miniere dell’uomo blu. Il cancello della miniera senza la scritta “il lavoro rende liberi”. Incontro con Pinuccio, il postino, e la sua storia d’amore con Michele e Donna Natalia. Pinuccio racconta anche il cielo e il sole del Salento: tutto il nero, di tutto il carbone del mondo, a questo sole non ci può tingere manco un raggio. Mario si accorda con la Signorina della voce per andarci, l’indomani, nel sole!

Puntata 15 – Nel sole

In un salto temporale fatto di colloqui col padre, telefonate con la madre e preparativi con la Paola Roscioli del glossario, Mario si ritrova nel 2007 sul treno di ritorno per il Sole. Durante il viaggio, ricorda le case che parlano del Belgio, le parole ascoltate nel paese colore della sciolta e intanto riarrotola il gomitolo di tutto il viaggio, di tutte le storie, di tutti i messaggi, di tutti i saluti, di tutte le cose dette e musicate nelle precedenti fermate. Ringrazia tutti quelli che vuole ringraziare e sposa colei che vuole sposare. Ma il treno è già al cartello “Salento”: Mario lancia una dichiarazione d’odio e d’amore alla sua terra. Voce di Med, tunisino che vive da anni in Italia. E tutta la prospettiva si ribalta…

Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Interpretato e diretto da Mario Perrotta

 

 

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– Se sei emigrante la prima cosa che ti devi imparare è che nna enùta è solo nna enùta, mentre la turnàta è per sempre…

– Due termini per indicare la stessa cosa: il ritorno. Ma la differenza è fondamentale. Me l’hanno spiegata con parole semplici ma inequivocabili. Nna enùta (una venuta), è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare…
La turnàta, invece, è altra cosa… vuol dire che hai raggiunto l’obiettivo, ti sei sistemato, puoi mettere a fuoco, ricordare le facce e i luoghi perché ora stai per tornarci, definitivamente.
Ancora una volta loro parlano e io ascolto, registro cassette su cassette, raccolgo materiali, lettere, annoto sensazioni. Ma, soprattutto, cerco di tenere a mente gli sguardi, sono quelli che mi raccontano più di ogni parola, sono gli sguardi ciò che dovrò portare con me quando racconterò la loro storia. E ognuno ha il suo di sguardo, frutto di vicende personali e familiari, frutto delle diverse esperienze lavorative, del livello di integrazione raggiunto all’estero. Anche il luogo scelto per emigrare sembra avere un peso: c’è un sguardo da Belgio, uno da Germania, uno da Svizzera, ma, soprattutto, c’è uno sguardo da enùta e uno da turnàta. Chi è rimasto e chi è tornato. Due categorie distinte e di facile comprensione.
E alla fine degli anni sessanta molte erano le “venute”, magari anche con la macchina
– …ché chi partiva in treno, tornava in macchina, sennò che tornava a fare…
– magari con una macchina nuova multiaccessoriata
– …versione Sport, pelliccia sui sedili, volante in pelle e doppia marmitta che tuona, per dare un sentimento di potenza a chi ti guarda…
– magari anche con la moglie bionda, biondissima, anche lei superaccessoriata
– …ché chi partiva scapolo, tornava con la femmina, sennò che ci era andato a fare…
– ma sempre di “venute” si trattava, per poi ripartire e dimenticare.
 
Le turnàte invece erano poche ed erano un’avventura.
Chiudere una vita passata all’estero in un camion – armadio, letti, corredo, servizi di piatti, pentole, quadri, foto, lettere, lettere di licenziamento, di assunzione, passaporto, visti sul passaporto, conto in banca, cassa malattia, visite mediche alla frontiera, viaggi in treno, compagni di viaggio, amici, nemici, mangianastri, mangiadischi, dischi italiani, ricordi, belli, brutti, la Germania, il Belgio, la Svizzera, cìncali, umiliazioni, riscatti, la prima macchina, la seconda… – e guardarlo partire quel camion. E poi accendere la macchina e seguirlo. Passare la frontiera. Arrivare sino a Bologna dove finisce l’autostrada. Arrivare nel Salento dove finisce l’asfalto. Arrivare a casa dove finisce tutto. Allora vuole dire che ti sei sistemato…
Da Zurigo a Lecce i chilometri sono 1400. Un’avventura. Soprattutto se non hai un camion; soprattutto se non hai armadio, letti, corredo, servizi di piatti, pentole… soprattutto se la turnàta la fai non perché ti sei sistemato ma perché
– …gli svizzeri ti hanno fottuto!
– soprattutto se in macchina ci sono un nonno morto, un sindacalista e un bambino che ha vissuto cinque anni murato in una stanza.
Un’avventura.

Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Interpretato e diretto da Mario Perrotta
Voci amichevolmente registrate da Peppe Barra, Ferdinando Bruni, Ascanio Celestini, Laura Curino, Elio De Capitani

DEDICATO A LUCIO PARROTTO

Spettacolo finalista ai PREMI UBU 2004 categoria Migliore Drammaturgia

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Cìncali cioè: zingari!
Così credevano di essere chiamati gli italiani emigrati in Svizzera; pare, invece, che fosse una storpiatura di cinq, “cinque” nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra
– …sì, ma voleva dire anche zingaro!
– Quasi un anno di testimonianze, un anno di memorie rispolverate a fatica. Ho preso la macchina e ho girato senza un luogo preciso dove andare, eppure il Sud è tutto uguale, non hai bisogno di sapere dove qualcuno ha preso le valigie ed è partito: basta entrare in un bar, un bar della provincia e chiedere. La risposta è sempre la stessa:
– qui tutti siamo emigrati…
– me lo racconta?
Si fanno pregare, un attimo soltanto, poi partono con la loro storia, infinita, che reclama ascolto. Anche il Sud è infinito. Me lo insegna la mia macchina che mi porta di paese in paese, sempre per caso, e s’inerpica tra i paesi montani del nord-est produttivo ed è ancora Sud. Sì! Per i Belgi, gli Svizzeri, i Tedeschi che chiedevano braccia dopo la seconda guerra mondiale, Sud era la Puglia, la Sicilia, la Calabria e Sud era il Veneto, il Friuli:
– siamo emigrati tutti qui …
– Quattro parole, sempre le stesse.
– Sì, sì… io ci ero amico con quelli del Sud, ma noi veneti ci trattavano meglio di loro, all’estero…
– e giù così fino a Lecce confine ultimo ad est, che non ha un Sud, e allora il cerchio si chiude:
– noi leccesi lavoravamo meglio e di più di quelli del nord… perciò eravamo rispettati…
– Non è vero purtroppo, né per gli uni né per gli altri, ma ognuno ha bisogno di un proprio Sud.
Negli archivi pubblici e privati trovo lettere, diari salvati per miracolo ma loro non hanno più nulla,
– ho bruciato tutto… – mi confessa qualcuno – meglio dimenticare…
– Meglio dimenticare.
Non la penso esattamente così ma accetto la loro posizione di esuli perenni, di zingari della memoria, senza una terra da chiamare “casa”:
– stavo meglio al Belgio… – mi dicono in Italia.
– Qui si sta bene, ma il paese è il paese… – mi dice chi è rimasto fuori. Non è vero purtroppo, loro una “casa” non l’hanno più. Alcuni mi indicano qualcun’altro come se fosse la loro “casa” -… chiedi a lui, a lui! Lui conosce tutte le nostre storie…-.
– Per trent’anni ho letto e scritto tutte le lettere di questo paese. Qui erano tutti analfabeti!
– Un postino. Il postino. Due, tre, quattro postini e anche loro sono tutti uguali, come il Sud. Sapevano tutti leggere e scrivere. Li ascolto e scopro in loro la coscienza involontaria di un’intera comunità. Il postino ha molto da dire, ricorda tutto perché la sua era una missione, lui era il ponte con il mondo, lui ha viaggiato più di tutti senza aver mai lasciato il paese: il postino sì che ha memoria!
E la memoria è importante, perché -…ne abbiamo sempre meno…
– perché – …qualcuno l’avrà pure permesso quel boom economico…
– perché – …l’Italia girava in Cinquecento e noi dormivano in otto in una stanza…
– perché – …siamo stati venduti dallo Stato per un sacco di carbone…
– perché – …mi vergogno di raccontare a mio figlio quello che siamo stati e come ci hanno trattati… –
Il postino, lui sa tutte queste storie… sì, ma come metterle in scena? Forse partirò da qui…
(Luce. In scena c’è un postino. Racconta)

uno spettacolo di Mario Perrotta

dal diario di Lireta Katiaj e altri milioni di diari mai scritti

con Paola Roscioli

Spettacolo scelto da Rai Radio3 per la Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione

produzione Permar, La Piccionaia

con il sostegno di Regione Emilia Romagna

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Il Teatro di Radio3 per la Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione >

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Albania.
C’è una donna, Lireta si chiama. C’è una donna che guarda oltremare cercando un brandello d’Italia, anche solo una luce. Una luce di Puglia che illumina i sogni di là, nella terra dell’alba. C’è un gommone che parte e la donna si sta in mezzo agli altri sul mare, cercando d’Italia e di luci. Tra le braccia ha una bimba che, neanche tre mesi di vita e si trova sull’onda, nel nero di un cielo senza luna.
L’hanno detto alla donna, alla bimba e a tutti gli altri lì sul gommone: “Se arriva la guardia costiera d’Italia buttatevi in acqua!” L’hanno detto anche all’uomo, compagno alla donna che si sta anche lui sul gommone. Ogni onda che arriva, il mare s’ingrossa più ancora. E più forte è il terrore di perdersi la bambina dalle mani. Ogni volo sull’onda, precede uno schianto sull’acqua arrabbiata e ogni schianto è un ricordo.

Ricordo di un padre con l’alcool e la mano facile, un padre che serra i figli sotto chiave mentre picchia la moglie. Ma Lireta non cede. Ogni volta, disperata, tenta una difesa di quella madre così remissiva, una difesa qualunque gridando, sbattendo, ma senza risposta. Ricordo di un matrimonio con chissà chi, matrimonio combinato tra famiglie, senza che lei possa dire parola. Ma Lireta non cede. Rifiuta. Tutto rifiuta: l’uomo, il matrimonio, e anche la famiglia. Ricordo di un fuga da casa e di un innamoramento, “che io” le diceva lui “se mi ami ti porto in Italia”. Ricordo di una casa vicino al mare, ancora una volta serrata a chiave aspettando che la portassero, insieme alle altre, sulle strade d’Italia, “che io se mi ami ti porto in Italia”, dicevano anche gli aguzzini delle altre. Ma Lireta non cede. E scappa. Ma uno di loro, un aguzzino, la insegue per giorni, la prende, la guarda negli occhi e le dice “ti amo”: anche lui, come l’altro, le dice “ti amo”. E nasce una bimba.
Ricordo di quando con lui e con la bimba in braccio, decidono di prendere quel gommone che adesso aggredisce le vette del mare, enormi, ringhianti, che ogni volta che sei sulla cima butti l’occhio lontano sperando una luce di Puglia. E Lireta non cede e si serra più forte la bimba sul petto.
Ricordo di un volo, a qualche metro dalla costa del Salento, un volo verso l’acqua spinti giù dal Caronte che guida il gommone.

Ed è qui che tutto si sospende: vola Lireta, vola il compagno e vola la bimba di soli tre mesi e un’intera esistenza passa davanti agli occhi, in quel tempo infinito passato per aria – sospesi – prima del contatto con quel mare che è morte, che è vita nuova…

Note di regia

«Quando ho conosciuto Lireta Katiaj al Premio Pieve nel 2012 (premio annuale organizzato dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano, Arezzo), mi sono innamorato immediatamente della sua storia d’immigrata, una storia archetipica che contiene in sé tutte le stigmate del migrare: dalle ragioni fino alle conseguenze di una scelta così forte come quella di lasciare la propria terra.

In questi tre anni sono tornato spesso intorno alle pagine del suo diario fino a quando uno dei punti centrali del suo racconto, quel volo in acqua con una bimba di soli tre mesi in braccio, non ha fatto cortocircuito con quell’immagine violenta che la cronaca recente ci ha imposto per settimane su ogni mezzo di informazione: il corpo di quel bambino di soli tre anni riverso sulla spiaggia con la faccia nella sabbia.
È stato uno schianto: il volo di Lireta, il bimbo sulla spiaggia e mio figlio, tre anni anche lui, che dorme tranquillo nel suo lettino. Da quel momento non ho potuto più tenere insieme queste tre immagini senza avvertire un malessere forte, fisico. E quando accade questo, so che spetta al teatro il compito di sciogliere il nodo allo stomaco.

La prima idea, come sempre, è stata quella di una possibile drammaturgia, ma per poter scrivere di Lireta, c’era bisogno di maneggiare la materia a lungo, nel tempo e nello spazio, ragionare a più voci e in diverse forme e allora il pensiero è corso subito a un progetto che unisse l’invenzione teatrale con la realtà dei luoghi, delle facce e delle voci di chi, ieri e oggi, ha scommesso sulla vita attraversando il mare.

Nasce così VERSOTERRA, un progetto articolato che coinvolgerà tutto il Salento e che vedrà fianco a fianco, artisti di molte forme d’arte e immigrati, emigranti salentini e scrittori, scuole di ogni ordine e cineasti, con diverse stazioni narrative che guarderanno l’alba sulla costa adriatica per concludersi al tramonto sulla costa ionica. La sera, invece, sarà dedicata a LIRETA – a chi viene dal mare, lo spettacolo che costituirà l’evento centrale del progetto e sarà il lascito permanente di tutto ciò che accadrà in terra salentina dal 30 settembre al 2 ottobre 2016».

Mario Perrotta

Lireta – a chi viene dal mare è tratto da Lireta non cede – diario di una ragazza albanese.
Potete trovare il diario di Lireta depositato alla Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (AR) > o acquistarlo online qui

uno spettacolo di Mario Perrotta
collaborazione alla regia Paola Roscioli

produzione Permar, Teatro dell’Argine

con il contributo di Regione Emilia Romagna

Premio UBU 2013 come Miglior attore protagonista
Premio HYSTRIO-TWISTER 2014 come Miglior spettacolo dell’anno a giudizio del pubblico
Premio UBU 2015 come Miglior progetto artistico e organizzativo per l’intero Progetto Ligabue
PREMIO DELLA CRITICA/Associazione Nazionale Critici di Teatro 2015 per l’intero Progetto Ligabue

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Un bès… Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi

Provo a chiudere gli occhi e immagino: io, così come sono, con i miei 40 passati, con la mia vita – quella che so di avere vissuto – ma senza un bacio. Neanche uno. Mai.
Senza che le mie labbra ne abbiano incontrate altre, anche solo sfiorate. Senza tutto il resto che è comunione di carne e di spirito, senza neanche una carezza. Mai.
E allora mi vedo – io, così come sono – scendere per strada a elemosinarlo quel bacio, da chiunque, purché accada.
Ecco, questo m’interessa oggi di Antonio Ligabue: la sua solitudine, il suo stare al margine, anzi, oltre il margine – oltre il confine – là dove un bacio è un sogno, un implorare senza risposte che dura da tutta una vita. Voglio avere a che fare con l’uomo Antonio Ligabue, con il Toni, lo scemo del paese. Mi attrae e mi spiazza la coscienza che aveva di essere un rifiuto dell’umanità e, al contempo, un artista, perché questo doppio sentire gli lacerava l’anima: l’artista sapeva di meritarlo un bacio, ma il pazzo, intanto, lo elemosinava.
Voglio stare anch’io sul confine e guardare gli altri. E, sempre sul confine, chiedermi qual è dentro e qual è fuori.

Mario Perrotta

Scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta
musiche originali composte ed eseguite da Mario Arcari (clarinetto, oboe, percussioni) e Maurizio Pellizzari (chitarra, tromba)

PREMIO HYSTRIO 2009 alla drammaturgia
Finalista ai PREMI UBU 2008 categoria Miglior Attore Protagonista

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«Questa sera mi affitto due musicisti, li porto nella piazza del paese e faccio il botto! Stasera succede un casino». Così entra in scena Telemaco – figlio di un Ulisse mai tornato – e comincia il suo spettacolo d’arte varia. Non risparmia nulla, a sé stesso e agli altri: racconta, come sa e come può, la sua versione dei fatti. E ogni sentimento si fa carne viva sulla scena e diventa corpo, parole in musica, avanspettacolo, versi sciolti e danza, odissea a brandelli di un ragazzo che non sa tenere insieme i cocci di una storia – quella di suo padre – che non sta più in piedi. Per Telemaco il tempo dell’attesa è scaduto: è ora di fare spettacolo.

La mia Odissea

C’è un personaggio nell’Odissea che, da sempre, cattura la mia attenzione, un personaggio che molti non ricordano neanche: Telemaco.
Ho provato a chiedere in giro e, difatti, molti ricordano il cane di Ulisse – Argo, mi pare… – ma non il figlio. Io, invece, ne ho sempre subito il fascino, perché la sua attesa è carica di suggestioni. Telemaco non ha ricordi di Ulisse, non l’ha mai visto, non sa come è fatto, non sa il suono della sua voce: per Telemaco, Ulisse è solo un racconto della gente.
Ed è proprio questa assenza ad aprire infinite possibilità nei pensieri di Telemaco. Lui è l’unico personaggio dell’Odissea che può costruire un’immagine di Ulisse calibrata a suo piacimento. I pensieri di Telemaco, forse, sono l’unico luogo dove Ulisse può essere ancora un eroe.
Ma gli eroi durano il tempo di un romanzo e questo Telemaco lo sa…
È così che ho disancorato Telemaco dal tempo degli eroi e l’ho trascinato qui, nel ventunesimo secolo, avvilito da una madre reclusa in casa; assediato dalla gente del paese che, non sapendo che fare tutto il giorno al bar della piazza, mormora della sua “follia” e della sua famiglia mancata; circondato dal mare del Salento, invalicabile e affamato di vite umane. Solo così potevo immaginare un’odissea mia, contemporanea, solo portando la leggenda a noi, in questo nostro tempo così disarticolato e privo di certezze.
E dunque si mescolano nello scrittura il mito e il quotidiano, Itaca e il Salento, i versi di Omero e il dialetto leccese, legati insieme da una partitura musicale rigorosa, pensata ed eseguita dai musicisti che mi accompagnano in questo lavoro e diventano anch’essi, con i loro molteplici strumenti, voci musicali del racconto.