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Un padre e un figlio, sulle strade di un mondo devastato da una catastrofe a noi ignota, cercano una via di salvezza, ostinatamente, contro ogni ragionevole evidenza: intorno a loro uomini che mangiano altri uomini, un paesaggio post-apocalittico, spogliato di ogni forma d’esistenza, non un fiore, non un rapporto umano. Ma il padre e il figlio portano con sé la scintilla primordiale:

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Così il padre del romanzo di McCarthy rassicura il figlio.

È il colore del fuoco, il rosso vivo della passione, dell’esistenza, del sangue, che lancia un messaggio di fede incrollabile nella vita, nonostante tutto sembri tramare per una vittoria delle tenebre.

Questo è il retrogusto vivifico che La strada lascia al lettore e che, da sempre, ha affascinato l’immaginario di Massimo Recalcati e di Mario Perrotta.

Da questo nucleo nasce l’idea di portare in scena in forma di indagine un gioco intimo a due, tra brani del romanzo cui Perrotta dà voce e corpo e l’originalissima rilettura di Massimo Recalcati. Il tutto immerso in un potente contrappunto musicale immaginato per esaltare l’incontro tra due delle voci più significative della cultura contemporanea: Recalcati e Perrotta, insieme in scena, intrecciano stili e temi cari alle loro scritture, per un evento speciale quantomai attuale e necessario in questa fase di rinascita dall’orrore della pandemia.

produzione Permar Compagnia Mario Perrotta

con il sostegno di Regione Emilia Romagna

un progetto speciale di Mario Perrotta
con Sara Chiappori, Vito Mancuso, Mario Perrotta

Quale libertà
Libertà è una parola che segna con forza la nostra contemporaneità, soprattutto dopo che la pandemia ancora in corso ci ha ricordato drammaticamente il senso delle parole segregazione, isolamento, costrizione, solitudine. Oggi, dopo anni di clausure più o meno stringenti, ognuno di noi vorrebbe essere “libero”. Questo desiderio profondo e ancestrale di libertà, però, si scontra – e da sempre – con la libertà dell’altro, di chi mi sta accanto, di chi mi abita di fronte, di chi ha idee diverse dalle mie.
E allora è il momento di riparlare di libertà, di riflettere su quel passaggio delicato e fondamentale in cui la “mia” libertà diventa la “nostra” libertà.
(Mentre do corpo a questo progetto, peraltro, arriva – violenta e inattesa – la guerra nel cuore dell’Europa e rende tutto quello che vado scrivendo ancor più impellente. Il conflitto non è solo politico-economico ma anche esistenziale: uno scontro titanico tra due concezioni di libertà antitetiche).

Lo spettacolo
Da queste riflessioni è nato Libertà rampanti, primo atto del nuovo progetto teatrale (Penso che dovrei volare – 2022-24) che svilupperò attorno al concetto di libertà.
In scena sarò accompagnato dal teologo Vito Mancuso e dalla giornalista e critica di Repubblica Sara Chiappori, per un’indagine a tre voci tra letteratura, musica, teatro e filosofia: un affascinante percorso da Sofocle a Calvino, passando per le suggestioni di Sant’Agostino, Voltaire e dei grandi autori e pensatori del nostro passato, sulle tracce dei mutamenti che la parola libertà ha conosciuto nella storia della cultura occidentale.
I brani che propongo in voce e musica saranno oggetto di confronto tra Sara Chiappori e Vito Mancuso in un continuo rimando tra riflessione e teatro, per un evento speciale che si concluderà con le parole e il pensiero di Italo Calvino.
Mario Perrotta

Un evento speciale di Mario Perrotta e Massimo Recalcati

per il Festival Veleia Teatro

 

Massimo Recalcati e Mario Perrotta tornano in scena insieme per proseguire il viaggio attraverso le relazioni familiari dopo Dalle ceneri dei padri (2018) e Madre: indicativo presente (2019).
La lente di ingrandimento è ora rivolta alla figura del figlio, figura del segreto, del destino, del futuro, figura dell’eredità. A partire da Edipo – figlio ingabbiato nella Legge dettata dal fato che lo pone in un contrasto violento col padre – per approdare ad Amleto – figlio che di quella Legge potrebbe spezzare le catene e che, tuttavia, decide di non agire.
Una più contemporanea assenza del dialogo e la sua antitetica ricerca di comprensione tra generazioni è, invece, alla base di un’altra coppia di figli: da un lato la figlia del mitico “svedese” in Pastorale americana di Philip Roth che, con il suo fondamentalismo adolescenziale, rifiuta il mondo degli adulti, per lei falso e impuro, da cancellare; dall’altro, Telemaco, figura nostalgica del figlio in attesa del padre, ma soprattutto vero erede eretico, in grado di affrontare in maniera autonoma il proprio viaggio e ricomporre il rapporto tra le generazioni.

 

mercoledì 21 luglio 2021
Area Archeologica di Veleia (PC), ore 21.30
www.veleiateatro.it

Un evento unico di Mario Perrotta e Massimo Recalcati

per il Festival Veleia Teatro

 

Tornano in scena a Veleia Massimo Recalcati e Mario Perrotta, questa volta accompagnati da Paola Roscioli, perché oggetto d’indagine, di conversazione e improvvisazione, sarà il materno e le sue declinazioni tra passato e presente.
Partiremo da lontano – dal celebre racconto di Re Salomone e le due madri – poggiando lo sguardo e le parole sul senso profondo del materno, che è sacrificio di sé per amore del figlio, come dimostra chiaramente quella che tra le due contendenti è la vera madre. E incontreremo madri di eredità vitali, impalpabili, a volte apparentemente terrifiche, ma sotto le quali si cela lo splendore, come nella poesia Bambina mia di Mariangela Gualtieri, mentre di ben altra eredità, gravosa, racconta la Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini. Qui esplode in tutta la sua crudeltà il sentimento ambivalente di un figlio che non ha mai saputo/potuto recidere quel cordone viscerale con la madre, un figlio che in lei e solo in lei trova ragione e fine della sua esistenza.
E ancora, le parole intime, profonde e disarmanti di Alessandra Saugo: le pagine dei suoi diari ci conducono in una maternità viscerale e lievissima, dove pare di viaggiare costantemente sul crinale tra il troppo amore e la consapevolezza di quanto quel rapporto di viscere un giorno svanirà nell’indipendenza delle figlie adorate.
In controcanto, infine, due madri – Medea e Lireta – l’una pronta a sacrificare i suoi figli pur di vendicare la donna offesa, l’amante abbandonata che è lei stessa; l’altra – che conosciamo attraverso le parole del diario di Lireta Katiaj – pronta a sacrificare tutto, pur di essere madre salvifica fino in fondo.
Recalcati, Perrotta e Roscioli, alternando le loro voci, proveranno a individuare i fili nascosti, la parte resistente al tempo, del materno in un’epoca disorientata come la presente.

 

mercoledì 3 luglio 2019
Area Archeologica di Veleia (PC), ore 21.30
www.veleiateatro.com

uno spettacolo di Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
produzione Teatro Stabile di Bolzano, La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale

 

prima nazionale
Piccolo Teatro di Milano
7 – 12 gennaio 2020

 

con Mario Perrotta e Paola Roscioli

e con Marica Nicolai
aiuto regia Yasmin Karam
scene Mario Perrotta, Sabrina Beretta
costumi Sabrina Beretta
video artist Hermes Mangialardo
effetti speciali Laura Soprani, IMA Sfx Studios
foto Luigi Burroni
realizzazione scene Fabrizio Magara, Maria Isabel Anaya
sarta Maria Isabel Anaya
organizzazione Permàr
in collaborazione con DUEL
grazie a Anna Gamberini, Diletta Guidi per l’interpretazione dei video
La Corte Ospitale, La Baracca, Piscina Comunale di Medicina

 

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La trilogia: In nome del padre, della madre, dei figli >

 

Note di drammaturgia

 

NONNA

Madre che possiede.

Madre che è madre perché mette al mondo. E questo basta.

Madre che sa – non potrebbe non sapere – cosa è giusto e cosa non lo è per i suoi figli. 

Madre che dovrebbe smettere di essere madre perché è tempo di fare la nonna. Ma mia figlia, no, mia figlia non la lascio andare via. Nonna che si ostina a fare la madre. Eternamente.

 

MADRE

Figlia che adesso è madre.

Figlia che vorrebbe andare via ma non sa come. Non vuole sapere.

Figlia che mamma non dirmi sempre cosa devo fare con mia figlia. È mia! Questa figlia è mia, non tua. Io so cosa devo fare.

Io sono la madre. E se non so, madre che gruppi di madri su WhatsApp.

Madre che ho letto su internet che si muore, di vaccini si muore. Madre che ragazze ma voi lo usate il latte vaccino?

 

BIMBA

Bimba che è figlia, figlia e basta.

Bimba che fai la cacca a mamma. Bimba che fai la cacca a nonna.

Bimba che adesso dormi, perché non dormi? A mamma. A nonna.

E non mangi, questo non lo mangi. Neanche quest’altro. Perché non mangi? Perché non mi mangi?

Bimba che qui, devi restare qui. Non c’è altro posto. In questo abbraccio.

Figlia che, anche se madre, devi restare qui. In questo abbraccio. E non soffocare.

Se non sai fare, stai qui a guardare. Fammi fare, la madre. Ancora. Fammi fare.

E tu guardami fare, guarda il tuo faro, impara a fare. Come la mamma, a fare.

 

Dopo aver indagato la figura evanescente dei padri contemporanei, il secondo capitolo della trilogia In nome del padre, della madre, dei figli sposta la lente di ingrandimento sulla figura della madre.

Una figura che, per buona parte degli italiani, ha mantenuto costante nel tempo una sorta di sacralità e onniscienza che la rende ingiudicabile, al di sopra del bene e del male, nonostante le lotte di emancipazione degli ultimi decenni per affrancare la società dal modello patriarcale.

Una visione patologica – tutta nostrana – che impedisce a una donna di dichiarare, e sanamente, la propria fragilità di fronte al compito materno, costringendola a dover esser madre “per sempre”.

Mario Perrotta

 

La maternità non è un’esperienza di centramento ma di decentramento. È la gioia nel vedere il proprio frutto imparare a camminare o a parlare, nel vederlo entrare nel mondo. Ma quando la maternità diventa patologia si passa dalla madre simbiotica dell’epoca patriarcale – la madre che non lascia andare il proprio figlio, la madre del sacrificio che vive la propria maternità come cancellazione della donna e dei suoi desideri – alla madre narcisistica, che vive la maternità come un handicap, una lesione, una ferita al proprio essere donna. Il figlio non è più ciò che completa il suo essere ma è vissuto come un ingombro alla propria affermazione personale. Mentre nella madre patriarcale la madre uccide la donna, nella madre ipermoderna e narcisistica è la donna che uccide la madre. Nello spettacolo di Mario Perrotta la grande intuizione drammaturgica è la messa in scena non della madre tout court ma della madre come maledizione che passa attraverso le generazioni, una verticalizzazione profonda della questione materna che la psicoanalisi conferma sistematicamente: una donna può vivere in modo libero, creativo, generativo il rapporto con i propri figli solo quando ha fatto il lutto della propria madre.

Massimo Recalcati

Un evento speciale di Mario Perrotta e Massimo Recalcati

per il Festival Veleia Teatro

 

Massimo Recalcati e Mario Perrotta, insieme in scena, provano a intrecciare i loro stili e i temi cari alle loro scritture, in una cavalcata tra diversi classici della letteratura, dall’Iliade a La strada di McCarthy, passando per Odissea e i Vangeli, alla ricerca di una figura di padre ancora possibile, di una rinascita dalle ceneri dei padri di un recente passato.

Il viaggio inizia tra le braccia di un padre “classico” –  Ettore che innalza il figlio al cielo implorando gli Dèi che ne facciano un uomo migliore di lui – mentre si compie il passaggio fondamentale tra generazioni: la consegna di un’eredità “esistenziale” piuttosto che di una sostanziale. Ma non tutti gli eroi omerici hanno saputo essere padri fino in fondo e allora ecco Telemaco, la figura del figlio che attende il ritorno. E di nostos parla anche la parabola del Figliol prodigo, dove il ritorno è quello di un figlio tra le braccia di un padre che accoglie, che sa perdonare, che restituisce nuovo senso all’esistenza attraverso l’atto vitale del perdono.  Perché un padre oggi può restituire senso alla sua funzione, donando in eredità ai figli il suo resistere e persistere nel desiderio di vita, donando la forza della passione con cui affronta le cose e i casi della vita. Esattamente ciò che accade al padre de La Strada di Cormac McCarthy che, in un mondo disabitato da Dio, decide di resistere, di “sopravvivere” ma con desiderio ostinato, facendosi testimone del senso della vita.

 

mercoledì 18 luglio 2018
Area Archeologica di Veleia (PC), ore 21.30
www.veleiateatro.it

traduzione di Mario Perrotta
regia di Mario Perrotta
 
con Marco Toloni, Lorenzo Ansaloni, Mario Perrotta, Paola Roscioli, Donatella Allegro, Giovanni Dispenza, Alessandro Mor, Maria Grazia Solano
 
Spettacolo vincitore del PREMIO SPECIALE UBU 2011

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Progetto Trilogia dell’individuo sociale: vai al capitolo due I cavalieri – Aristofane cabaret >
Progetto Trilogia dell’individuo sociale: vai al capitolo tre Atto finale – Flaubert >

È nello scontro tra Alceste (il misantropo) e Oronte (l’uomo di potere) che ravviso una possibile chiave di lettura del testo. E’ lì che esplode il massimo abuso, dando segno di una società talmente malata di potere e di rapporti di interesse, da giustificare, al limite, la misantropia del protagonista, liberandolo dall’etichetta classica di “caso clinico”. Ma non solo Alceste e Oronte: tutti i rapporti tra i personaggi di questa farsa tragica sono schiacciati verso il basso dagli obblighi sociali e da un aleggiante timore della ritorsione (la denuncia, il processo, l’esclusione dalla “corte”), salvo poi deflagrare violentemente nel finale. Alceste diviene così un militante dell’etica, un “resistente” in un mondo talmente lontano dalle sue istanze da condannarlo irrimediabilmente alla sconfitta. Rapporti di potere e col potere: niente di più vicino a noi. Sembra paradossale, ma la società del Re Sole, asfittica e autoreferenziale, riguarda strettamente la nostra società globalizzata. Un’indagine sul potere, sulle sue malattie. Un’indagine sull’amore: amore che diviene impossibile quando assume, anch’esso, la smorfia terribile di un esercizio di potere.
Il Misantropo è la prima parte della Trilogia sull’individuo sociale. “Individuo sociale” è una contraddizione in termini: un’utopia, una condizione limite a cui tendere. È sufficiente l’incontro/scontro con l’altro per mettere in crisi i confini della nostra individualità – e questo lo sappiamo bene tutti. Ed è questa lacerazione tra le proprie istanze e quelle dell’altro che ci governa continuamente, nel nostro agire quotidiano e nella nostra evoluzione di razza umana. Eppure tutti vorremmo essere animali sociali, tutti vorremmo vedere il trionfo definitivo della giustizia, dell’equità e della solidarietà. Il vero guaio è che ognuno – ogni individuo – ha un concetto tutto suo di giustizia, di equità e di solidarietà. E siamo di nuovo al muro contro muro: individuo contro individuo. La trilogia verterà su tre testi: Il misantropo di Molière, I cavalieri di Aristofane, Bouvard e Pécuchet di Flaubert, tre farse violente – o grottesche tragedie – per rispondere ad un interrogativo: siamo per natura individualisti o animali sociali?


Mario Perrotta

Uno spettacolo di Mario Perrotta
 
con Mario Perrotta, Micaela Casalboni, Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Alessandro Mor, Anaïs Nicolas, Claudia Mosconi, Livio Remuzzi
 
musiche composte e registrate da Mario Arcari
 
PREMIO DELLA CRITICA 2015 alla trilogia del Progetto Ligabue
Premio UBU 2015 al Progetto Ligabue come miglior progetto artistico e organizzativo

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Come si “racconta” un colore? E un insieme di colori che compongono un quadro? e le figure e le storie che animano un quadro? Come si restituisce la bellezza assoluta di certe opere di Ligabue senza omettere, però, che era lo “scemo del paese”? Secondo movimento del Progetto Ligabue, uno spettacolo che vede coinvolti sulla scena otto interpreti per regalare voce, suono e fatica fisica al mondo interiore di Ligabue. Per trasformare in corpi danzanti e parlanti gli animali, i volti e i paesaggi del suo immaginario pittorico. Sullo sfondo l’Italia degli anni a cavallo tra la seconda guerra mondiale e il boom economico, anni in cui esplodevano i maestri del neorealismo così come i Modugno e i Celentano, mentre Antonio Ligabue dipingeva isolato in un bosco e intorno a lui si agitava un mondo contadino in bilico tra l’Ottocento e la Seicento da comprare a rate. Un focus sull’artista e il suo paesaggio interiore, alla ricerca di quel corto circuito che avvenne nella sua vita quando le linee verticali delle montagne svizzere vennero a contatto con le linee orizzontali delle pianure padane, generando nell’anima un contrasto esplosivo continuamente denunciato dal pittore nei suoi dipinti.

Uno spettacolo di Mario Perrotta
Con Mario Perrotta e Paola Roscioli
musiche originali eseguite dal vivo da Mario Arcari (oboe, clarinetto, percussioni) ed Enrico Mantovani (chitarre)

Spettacolo scelto da Radio 3 Rai per il centenario della Grande Guerra

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Progetto Grande Guerra: vai a Milite Ignoto – quindicidiciotto >

Quando nasce una guerra – dio mama – so da che parte sto. Anche se non la voglio, anche se quella guerra mi ribalta lo stomaco, comunque so da che parte sto: se sono francese, poniamo, sto con la Francia; se sono tedesco sto con la Germania; austriaco con l’Austria e se sono italiano sto con l’Italia…
E invece no. Se sono italiano, ma vivo in Trentino o nelle Venezie Giulie, può anche essere che sto con l’Austria. Anzi: sicuro che sto con l’Austria, soprattutto se questa nazione si chiama ancora Impero Austro-Ungarico e siamo nei primi anni del secolo passato.

Però, quando una guerra nasce, finisce pure. E tutti ce lo ricordiamo quand’è nata e quando è finita. Tutti lo sappiamo e lo ripetiamo, da un secolo: la guerra del ’15 -’18…
E invece no. Se sono italiano, vivo in Trentino o Venezie Giulie – che poi è austrungarìa – può anche essere che la guerra comincia prima. Anzi: sicuro che comincia prima. Soprattutto se c’ho 21 anni, massimo 40, la guerra, per me che sono italiano e sto con l’Austria, comincia nel 1914 . Però – dio benedetto – finisce come per tutti gli altri nel 1918.

E quando una guerra finisce si sa finalmente chi sono i vincitori e i vinti…
E invece no. Se sono austro-italiano, c’ho i miei 21 anni, massimo 40, ho buttato il sangue un anno in più degli altri italiani come me, può anche essere che non so se ho vinto o perso. Anzi: sicuro che non lo so, soprattutto se mio fratello era sull’altro fronte – “boia di un giuda” l’han chiamato – mia mamma e la mia donna portate di forza in un campo di concentramento da soldati austriaci come me, la nostra casa stracciata e con la porta sbracata che sembra urlare la sua disperazione, mentre io, che almeno pianger volevo davanti a questo scempio della guerra finita, mi hanno detto di stare allegro che ora siamo in Italia, che anche se non ho più niente e se ho sparato dalla parte sbagliata, ora siamo in Italia. Cristo! Anche il diritto alla disperazione m’hanno tolto che adesso, dicono, siamo in Italia, dicono.

Non so, quindi, se ho vinto o se ho perso.
So solo che gli austriaci m’hanno dato addosso perché non si fidavano di noi di lingua italiana; che gli italiani m’hanno dato addosso perché non si fidavano di noi italiani di Cecco Peppe; che Mussolini m’ha dato addosso e m’ha nascosto i miei morti all’ombra di Battisti; che io non ho voluto la maledetta guerra, che ho sparato a un nemico che non m’è nemico, che m’hanno chiamato dai campi – tempo un giorno – per andare in trincea e che nessuno m’ha risposto alla domanda: ma io, da che parte sto?

Appunti su Prima Guerra

Con questo spettacolo ho voluto indagare un pezzo di storia misconosciuto, anzi, volutamente cancellato perché, come sempre, la storia la scrivono i vincitori. E fu così anche nel 1918: si insabbiò la vicenda dei trentini e dei giuliani che combatterono onestamente come soldati austriaci di lingua italiana, per rendere trionfale la questione irredentista e la conquista di Trento e Trieste. Ma i numeri parlano chiaro: circa 100.000 arruolati di lingua italiana con l’Imperatore d’Austria e solo 1.700 irredenti che passarono a combattere con l’Italia.
Ma non è finita: perché nessuno ci ha mai raccontato che gli austriaci di lingua tedesca, appena l’Italia entrò in guerra, deportarono, nel giro di 24 ore, i loro stessi connazionali di lingua italiana – 130.000 donne, vecchi e bambini – e li ammassarono nei primi campi di concentramento della storia contemporanea, le cosiddette “Città baracche”, lasciandoli a deperire in condizioni penose per 3 anni, fino alla fine del conflitto.
E infine: tornati dai campi di concentramento, donne, vecchi e bambini sopravvissuti, scoprirono di essere diventati italiani di lingua e di fatto e scoprirono che nessuno sapeva dirgli che fine avessero fatto i loro cari mandati al fronte dagli austriaci, austriaci la cui macchina burocratica, intanto, era andata distrutta sotto i colpi della sconfitta.
E allora, donne e anziani si rimboccarono le maniche e ripartirono ancora, destinazione Monti Carpazi sull’ex fronte russo, a cercare tra le rocce un bracciale, un anello, un foglio di carta, una medaglietta, che gli permettesse di riconoscere un fratello, un marito, un figlio.
Alla storia nascosta di questi uomini dedico questo spettacolo e l’impegno mio e dei miei compagni di viaggio che hanno affrontato con passione questa messa in scena tra parole e musica.

Uno spettacolo di Mario Perrotta dai testi di Aristofane
regia di Mario Perrotta
 
con Mario Perrotta, Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Maria Grazia Solano, Giovanni Dispenza, Donatella Allegro
 
musiche dal vivo eseguite da Mario Arcari e dagli attori della compagnia
 
Spettacolo vincitore del PREMIO UBU 2011

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Progetto Trilogia dell’individuo sociale: vai al capitolo uno Misantropo – Moliere >
Progetto Trilogia dell’individuo sociale: vai al capitolo tre Atto finale – Flaubert >

 
 
“Questo non è Aristofane, questo è Aristofane rovistato e scorretto. Questa è una scorrettezza continua, è una fotografia scattata a sorpresa, senza preavviso, a futticumpagnu. È un Aristofane preso a prestito, quando serve, altrimenti… bastiamo noi”.

Così comincia il mio nuovo cabaret contemporaneo. Come la televisione ci propone ogni giorno, l’agone politico – il momento più alto di una vera democrazia – ridotto a un cabaret, un avanspettacolo truce, fatto di parole vuote berciate al massimo volume, vaniloqui di chi non sa che cosa dice ma poco importa, purché risulti inascoltabile la voce dell’avversario. Complice di questo nulla spettacolare il pubblico inebetito, il popolo, che qui diventa il vero protagonista di una drammaturgia originale. Se con Molière sono stato filologicamente corretto, rispettando testo e versi alessandrini, con Aristofane sarò irriverente, lo prenderò a prestito, mantenendo intatta, però, la veemenza politica dei suoi testi, per realizzare una fotografia d’Italia il più possibile urticante, uno spaccato a sorpresa di un paese complice del potere, un paese che sfoga la sua rabbia per una situazione che, al di là delle rimostranze verbali, continua ad alimentare colpevolmente. ” La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. Basta virare in negativo uno dei versi più noti della canzone d’autore italiana per ritrovarsi di fronte i protagonisti del dissesto sociale e morale in cui viviamo. “C’è la crisi, non si campa più con ‘sta crisi” diventa così, il tormentone dietro il quale nascondere le proprie responsabilità, il mantra italiota che ci libera tutti, l’oppio contemporaneo di un popolo mai diventato nazione. E allora saranno scintille tra contendenti, musica oscena per rime triviali, intermezzi pubblicitari, gran varietà, cavalieri e macellai, e martellanti insofferenze da condominio. Panem et circenses per tutti!

Note di regia

I Cavalieri – Aristofane cabaret è la seconda parte della Trilogia sull’individuo sociale aperta da Misantropo nel 2009. “Individuo sociale” è una contraddizione in termini: un’utopia, una condizione limite a cui tendere. E’ sufficiente l’incontro/scontro con l’altro per mettere in crisi i confini della nostra individualità – e questo lo sappiamo bene tutti. Ed è questa lacerazione tra le proprie istanze e quelle dell’altro che ci governa continuamente, nel nostro agire quotidiano e nella nostra evoluzione di razza umana. Eppure tutti vorremmo essere animali sociali, tutti vorremmo vedere il trionfo definitivo della giustizia, dell’equità e della solidarietà. Il vero guaio è che ognuno – ogni individuo – ha un concetto tutto suo di giustizia, di equità e di solidarietà. E siamo di nuovo al muro contro muro: individuo contro individuo. La trilogia verterà su tre testi: Il misantropo di Molière, I cavalieri di Aristofane, Bouvard e Pécuchet di Flaubert, tre farse violente – o grottesche tragedie – per rispondere ad un interrogativo: siamo per natura individualisti o animali sociali?

Mario Perrotta