Mario Perrotta

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Un bès di Mario Perrotta. La “vita di dietro” di Antonio Ligabue «Se vi do un quadro, dopo voi mi volete bene?». Inizia poco prima, dalla platea contenuta del Teatro Valle Occupato all’apertura di stagione, il passo incerto del pittore Antonio Ligabue, detto Toni. Offre in cambio l’arte per una briciola d’amore, il pittore nato […]

Un bès di Mario Perrotta. La “vita di dietro” di Antonio Ligabue

«Se vi do un quadro, dopo voi mi volete bene?». Inizia poco prima, dalla platea contenuta del Teatro Valle Occupato all’apertura di stagione, il passo incerto del pittore Antonio Ligabue, detto Toni. Offre in cambio l’arte per una briciola d’amore, il pittore nato in Svizzera e tradotto nella provincia di Reggio Emilia, in quella Gualtieri dove oggi – guarda un po’ – è tornato vivo un antico teatro cinquecentesco, chiuso nel 1979 per problemi strutturali mai risolti e letteralmente “dischiuso” al pubblico da un gruppo di giovani pochi anni fa, convinti della folle idea di poterlo trasformare in un palcoscenico contemporaneo. La loro battaglia è ancora attiva, viva. In dialogo con le istituzioni dal 2005 stanno salvaguardando un piccolo gioiello in cui è conservata la cultura del Novecento (si invita a vedere qui alcune foto). O almeno ci stanno provando. Al fianco del Teatro Sociale Gualtieri s’è posto allora Mario Perrotta, attore e autore teatrale leccese che in Emilia con il Teatro dell’Argine ha costruito la sua fortuna e che con il Progetto Ligabue sta indagando la figura del pittore vivendoci dentro, non solo interpretando ma sviluppando in un percorso intimo la propria figura d’artista. Un bès, chiede Ligabue alla platea. In “un bès” è quel che serve – o appunto manca – a ché si sperimenti la mancanza, l’assenza dell’amore che fa l’uomo disumano e, quindi, artista. Ligabue è autore di opere coloratissime e altre graffiate, un istinto naïf governò il suo tratto arrabbiato a comporre quella privazione in sagome di bestie disperate come uomini e autoritratti bestiali, dentro paesaggi tinteggiati in forma di desiderio, in cui mescolate sono l’Emilia e la Svizzera, i suoi luoghi, la sua vita. Perrotta penetra la scena risalendo dalla platea, in un lungo coprente cappotto scuro che è tutto di lui, l’immagine nota, il corpo occluso da quel viso ispido, ossuto, quegli occhi in cui si vede compressa la sua necessità. «È permesso, do fastidio…», dice quasi fra sé appena sul palco, cerca attenzione ma insieme ha il timore di essere invadente, indesiderato. Ma ecco allora che tre anonimi pannelli sulle assi, appena voltati di fronte, quella necessità la svelano e la rivolgono verso lo sguardo altrui: spazio bianco, spazio per disegnare e misurare il contorno ai desideri. Prende un carbone Perrotta/Ligabue, di spalle inizia a segnare, graffiare il foglio. Inizia cioè a raccontare di sé. La narrazione in prima persona ha un forte connotato biografico e riporta il pittore fra le dolci colline verdeggianti dell’origine che sempre rimarranno anche nelle sue opere più aggressive come un paesaggio d’infanzia impresso in una memoria cellulare, avvolgente. Ligabue «nato con la vita di dietro», mai davvero capace a mostrarsi di fronte, meno ancora nei suoi autoritratti impauriti e tesi che nell’espressionismo violento della sua fauna contadina. Perrotta entra nei suoi abiti con umiltà e dedizione, disegna di spalle, dal vivo, quella “vita di dietro” in cui s’impresse il segno del pittore, quindi lo riproduce degnamente sviluppando quel tratto intimo come ne fosse tramite (e disegna oltretutto benissimo!). Il monologo che ne trae è soffiato via, affannato da un dolore inguaribile e rabbioso, la scena invece è composta di pochissimi elementi e forse, più che essenziale, si ha la sensazione che sia un po’ semplificata. Di una buona materia Perrotta fa racconto appassionato e probabilmente, suo unico e non grave peccato, si priva di un carico poetico e onirico più estremo, come non si fidasse di affondare l’incanto e così rivelare più dolcemente alcuni difficili snodi drammaturgici del testo. Ma la sua voce – esperimento riuscito in un dialetto acquisito – è ospite di voci del popolo, il paesaggio–paese tutto attorno a Ligabue per le sue parole prende forma, come fosse un suo quadro furente, come fosse il quadro del suo funerale durante cui gli invitati, giunti a dire il vero senza invito, vedono in una bara chiusa tutto ciò che è perduto e che hanno allontanato per l’intera vita, ciò che potevano essere e non sono stati, misurando così la brevità del loro sguardo che vedeva un matto, negli abiti sporchi di un genio.