Mario Perrotta

L’Eco di Bergamo

Il bès di Ligabue un capolavoro di Mario Perrotta “….Da mi basia mille/deinde centum,/Dein mille altera, dein seconda centum/Deinde usque altera mille, deinde centum./Dein, cum milia multa fecerimus…”: alzi la mano chi, da adolescente, non ha mai sognato con gli immortali versi del Carme numero 5 di Catullo: “…Baciami mille volte e ancora cento/poi nuovamente […]

Il bès di Ligabue un capolavoro di Mario Perrotta

“….Da mi basia mille/deinde centum,/Dein mille altera, dein seconda centum/Deinde usque altera mille, deinde centum./Dein, cum milia multa fecerimus…”: alzi la mano chi, da adolescente, non ha mai sognato con gli immortali versi del Carme numero 5 di Catullo: “…Baciami mille volte e ancora cento/poi nuovamente mille e ancora cento/e dopo ancora mille e ancora cento/e poi confonderemo le migliaia/ tutte insieme per non saperle mai…”.
Un bès, un bacio, lo ha cercato, implorato, chiesto, urlato, desiderato e detestato per tutta la vita Antonio Ligabue: senza mai riuscire a coronare il suo sogno. Non lo ha avuto dalla madre naturale che lo abbandona bambino, né dall’uomo che lo riconoscerà dandogli il suo cognome, Laccabue (che, da adulto, cambierà in Ligabue); né dalla madre adottiva, una svizzera tedesca che lo cresce fino a diciotto anni fino a quando, esasperato dalle sue stranezze, lo spedisce in Italia, né, ovviamente, da nessuna donna, non dalle lavandaie che lui spia al fiume, non dalle ragazze del paese che hanno tutte paura di lui: “al matt”, “al todesch”.
Un bès – Antonio Ligabue è il sorprendente, magnifico spettacolo di e con Mario Perrotta, che è andato in scena sabato sera ad Albano nell’ambito della rassegna Albanoarte Teatro in collaborazione con MolteFedi sotto lo stesso cielo, riscuotendo un grande successo di pubblico tributato al suo straordinario interprete.
“Ma sarà la prima che incontri per strada/che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato,/per un amore nuovo”, cantava Fabrizio De Andrè in “La canzone dell’amore perduto”: l’amore, Ligabue, lo cercherà per tutta la vita, elemosinandolo senza raggiungerlo mai: brutto, sporco, cattivo “Matto!”.
Perrotta non interpreta Ligabue, “è” Ligabue: nel corpo al corpo con il personaggio – in questo primo spettacolo di quella che diventerà una trilogia dedicata al pittore naïf – Mario Perrotta compie un percorso performativo che trascende “l’interpretazione” a favore di un’adesione totale con il soggetto.
Certo che resta una grandissima prova d’attore ma è come se Perrotta ci trasportasse, davvero, nel cervello malato del pittore, attraverso un’immediatezza interpretativa che oltrepassa il limite della “mimesis”, per arrivare a quella sorta di “transustanziazione teatrale”, che si favoleggiava venisse raggiunta negli spettacoli diretti da Jerzy Grotowski, dove il “verbo” si fa davvero “carne”. Una scrittura (lo spettacolo vanta una sfilza di premi lunga così) che ci ha ricordato, per la sua spietata bellezza, la prosa dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, soprattutto il romanzo “Gelo”, protagonista proprio un anziano pittore sull’orlo della follia, ossessionato, tra l’altro, dal latrato dei cani, così come Ligabue lo era, tra l’altro, dal suono delle campane. Uno spettacolo scorticato Un bès che squaderna, una sorta di tavola anatomica del sistema nervoso “malato” del protagonista; ma uno spettacolo che scortica anche lo spettatore, morbosamente attratto e attonito allo stesso tempo, di fronte alla messa a nudo di quest’anima tormentata in un corpo che viveva in un perenne sovraeccitamento sensoriale, in un’allucinata distorsione della realtà che gli permetteva di penetrarla fin nei minimi, infinitesimali dettagli, che si riverbereranno nella sua pittura. Uno spettacolo che non disdegna l’ironia, costruito con l’argilla dell’argine del grande fiume, che per anni, sarà la casa del pittore, e che ci culla sulle note dello struggente, delicato lieder di Schubert, che accompagna l’incipit della narrazione.