Mario Perrotta

Giornale di Vicenza

Ligabue, pitùr che voleva l’amore Mario Perrotta ama ripetere che in teatro il rapporto tra gli attori sul palcoscenico e gli spettatori in platea è come un rapporto erotico: vive grazie al respiro di entrambe le parti, si nutre di una sintonia o di una mancata sintonia che regolano il passo del cuore, richiede un […]

Ligabue, pitùr che voleva l’amore

Mario Perrotta ama ripetere che in teatro il rapporto tra gli attori sul palcoscenico e gli spettatori in platea è come un rapporto erotico: vive grazie al respiro di entrambe le parti, si nutre di una sintonia o di una mancata sintonia che regolano il passo del cuore, richiede un corteggiamento, un annusarsi reciproco. Il teatro del regista salentino, premio Ubu 2013 come miglior attore, questa sintonia sa crearla davvero. Il suo spettacolo Un bès – Antonio Ligabue, andato in scena al Teatro Astra di Vicenza e dedicato al pittore emiliano, è una danza in equilibrio su due fili. Il primo è quello che lega inevitabilmente attore e spettatore ogni volta che si va in scena: è un filo sottile che dev’essere tirato come una corda di violino, deve fare trattenere il fiato, deve mantenere al massimo livello l’attenzione. Il secondo è il filo della diversità, della marginalità di cui tratta la storia: Ligabue (vero
nome Antonio Laccabue, Zurigo 1899-Gualtieri, Reggio Emilia 1965) il diverso per eccellenza, qui torna in vita e non lascia illeso lo spettatore, ma lo interpella continuamente, gli chiede di avvicinarsi o di avere paura, di rifiutarlo o accoglierlo. Perrotta è un funambolo elegante. Fin dall’inizio sa restare in equilibrio su questi due fili, spesso facendoli coincidere: così il rapporto tra lui, attore, e lo spettatore si traduce nel rapporto tra lo scemo del paese e la società, tra la follia e la normalità. Sin dalla sua entrata in scena, dall’alto, attraverso la platea, rivolgendo lo sguardo al pubblico, chiedendo “un bès”, un bacio. Perrotta è un Ligabue intenso, srotolato con potenza e dolcezza attraverso alcuni momenti importanti della sua esistenza: l’infanzia e il difficile rapporto con la madre, l’affidamento; la relazione burrascosa e dolorosa con gli altri, con gli abitanti di Gualtieri, paese in cui viene esiliato a causa della sua follia; l’isolamento nella natura, dove – dice – c’è tutto quello di cui si ha bisogno. «Basta sedersi in riva al fiume e aspettare. Prima o poi arriva». Alla violenza della pazzia sa unire la tenerezza di un uomo che per tutta la vita ricerca disperatamente “un bès”, un bacio, un contatto fisico, qualcuno che sappia amarlo. Il risultato è un’interpretazione straordinaria, impreziosita dal talento artistico di Perrotta che, come Ligabue, sa parlare attraverso i disegni. Così le lingue in scena si moltiplicano, amplificando l’effetto di coinvolgimento. Non solo il dialetto reggiano, non solo il tedesco, ma anche la voce, quella più importante, delle immagini che si delineano attraverso il carboncino e costruiscono la scenografia, le altre relazioni, gli affetti. Questo Perrotta-Ligabue parla con le immagini, parla dentro le immagini, urla contro le immagini. Con i tratti che prendono forma nei fogli, si scoprono le paure e i sogni, quelli che Ligabue non sapeva esprimere, ma sapeva solo disegnare. Il pubblico trattiene il fiato, sorride a volte, in un sorriso che è sorriso di tenerezza. Gli applausi sono lunghissimi. Meritatamente. Un percorso che sa rispettare l’anima più profonda di questo “pitùr” forestiero e selvatico. Uno spettacolo che restituisce molto e che, in un certo senso, restituisce anche quel “bès”, quel contatto umano, quella comprensione profonda che Ligabue ha ricevuto sempre troppo poco.