Perrotta è Antonio Ligabue, un disperato bisogno d’amore
Mario Perrotta cambia ancora. Non si adagia sugli allori, appena trova una formula riconoscibile, che può essere vincente, ma ripetitiva, anche nel futuro prossimo, la abbandona e si lancia in nuove sfide. La “ricerca” nel caso dell’attore leccese è totale non soltanto un abbellimento per intendere un certo tipo di teatro. Dopo i soliloqui sulla sediolina passando al corale approdando al musicale, stavolta è il disegno ad attrarlo, a trasformarlo, a tradire ciò che era stato per consegnarci, spiazzando nuovamente, un nuovo Perrotta che, dopo la trilogia sull’individuo sociale, sforna adesso il primo capitolo della triade su Antonio Ligabue, il pittore, “el mat” di Gualtieri (progettoligabue.it).
La prima fotografia si chiama Un bès e solo, in accento emiliano e mentre disegna forsennatamente la “mutter”, la madre che non ritrova, recitando, sta in scena, alternando la vita interiore-psicologica e passaggi di biografia necessaria per capirne il percorso. Nel secondo, l’anno prossimo, l’attore di “Italiani cincali” sarà attorniato dalla danza di Micha Von Hoecke, in “Svizzera e furore”, mentre nel 2015 un happening invaderà per una giornata, “Antonio sul Po”, soltanto la cittadina nelle vicinanze di Reggio Emilia, Gualtieri, seconda “casa”, a dir la verità non così accogliente, per lo svizzero Laccabue riconvertito in Ligabue.
L’idea è imponente. L’impegno grande. Mario Perrotta è stato anche calciatore nelle giovanili del Lecce, alla sinistra, assieme ad Antonio Conte e Francesco Moriero, attore fin dai cinque anni sul palco con il nonno che traduceva Eduardo De Filippo in dialetto salentino, artista a tutto tondo con una grande manualità per il tratto, il disegno, la pittura. Mille vite, come i gatti. Quest’ultima caratteristica è la spirale e la soluzione con la quale riesce, con il suo pestare il carboncino pece sui grandi fogli bianchi, a dare volti e lampi, squarci ed a delineare tutto il mondo interiore del pittore.
Sarebbe stato inutile riprodurre i galli nell’atto del combattimento o le tigri pronte all’aggressione, gli autoritratti con il cane. Quello era Ligabue, qui invece Perrotta (che deve però risolvere la grana del disegnare con le spalle al pubblico per una buona comprensione del testo) rimette in circolo un mondo rimasto celato, emerso da documenti, estratti, interviste, video. Ed è proprio da un filmato in bianco e nero, lancinante e straziante, che ha origine il tutto, nel titolo ma anche nel fil rouge di fondo che esprime la grande solitudine, il grande gorgo di dolore e mancanza di affetto ed amore, patito quando fu strappato alla sua Svizzera tedesca ed immerso in questo mondo italiano che lo sbeffeggiava, lo dileggiava fino all’autoemarginazione, per cinque lunghi anni, sulle rive del Po, a vivere come un uomo primitivo, come un animale che, per non sentirsi solo, imitava i versi degli altri intorno.
“Dame un bes” dice un Ligabue già anziano, e famoso, ad una cameriera sì giovane quanto non così avvenente che con quella promessa-minaccia si fa fare un disegno sul retro della tovaglietta dell’osteria. Quasi da circonvenzione d’incapace, il pittore disegna sperando nell’ambito bacio (neanche le prostitute andavano a letto con lui sostenendo che puzzava), lui chiede informazioni, delucidazioni, è palpitante, fremente, si ferma e chiede nuovamente “Me lo dai un bes?” sognante, lei lo rincuora, lo tranquillizza mentre gli continua a dire che sì, glielo darà questo benedetto bacio ma solo e soltanto dopo che avrà terminato il suo disegno che lei non riesce a comprendere ma che ha capito in giro che potrebbe valere molti soldi.
Alla fine di quei tratti veloci il bacio, leggero, fuggevole, arriverà ma solo sulla guancia e di sfuggita mentre l’artista lo avrebbe voluto in bocca. E’ questo (il video viene proiettato nel finale) il sunto di una vita, di promesse non mantenute, di attese vane, di rincorse mai soddisfatte. La smania, la violenza della tigre che abbaia ma non morde, che rimane lontana, in disparte, come ferita, cacciata soltanto per la sua pelliccia, alla quale nessuno ha mai chiesto come stava. O se era felice.