Mario Perrotta

Bassanonet

L’umanità ferita di Ligabue Il quinto appuntamento con Operaestate Festival ha portato in scena al Teatro al Castello Un bès – Antonio Ligabue. Sul palco Mario Perrotta, artefice di un progetto suddiviso in tre parti intitolato Progetto Ligabue, dedicato all’artista e all’uomo, alla sofferenza di Toni e al genio di Ligabue. Lo spettacolo, prodotto da […]

L’umanità ferita di Ligabue

Il quinto appuntamento con Operaestate Festival ha portato in scena al Teatro al Castello Un bès – Antonio Ligabue. Sul palco Mario Perrotta, artefice di un progetto suddiviso in tre parti intitolato Progetto Ligabue, dedicato all’artista e all’uomo, alla sofferenza di Toni e al genio di Ligabue. Lo spettacolo, prodotto da Teatro dell’Argine — realizzato in collaborazione con Paola Roscioli per la regia e con Riccardo Paterlini per la ricerca — attore e progetto sono stati premiati in più occasioni, la prima al debutto nel 2013 con il Premio Ubu a Perrotta, come migliore attore.
Qualche timore per le nuvole scure che hanno portato un po’ di pioggia attorno all’orario dell’appuntamento, ma asciugate le sedie il pubblico ha potuto assistere senza disagi allo spettacolo, il disagio vero di un uomo speciale tutto rappresentato sul palcoscenico.
Perrotta-Ligabue entra in scena dalla platea, dal basso, e chiede implorando un bès, un bacio, negli occhi e nei gesti oltre che nelle parole i marchi a fuoco di una sofferenza di quelle che non guariscono certo con un bacio, ma che una qualsiasi dimostrazione d’affetto potrebbe almeno lenire. Il monologo prosegue in una scena nera, dove si distinguono tre pannelli/tele muniti di rotelle che li faranno anche danzare in un valzer e che aiuteranno a raccontare la parabola di Ligabue dalla nascita alla morte, nel mezzo un’esistenza minata dal rifiuto e dalla frustrazione.
La drammaturgia dà voce soprattutto all’ossessione, ai tratti stranianti, al dolore e al desiderio di amore di Antonio, la sua genialità è incarnata dai disegni che Perrotta esegue con maestria col carboncino sui fogli bianchi. Per prima si anima la giovane madre che l’ha abbandonato, in Svizzera dove Ligabue nacque tredici giorni prima dell’inizio del ‘900, con una manciata di ore che lo tirano per i capelli in un secolo ormai raffermo, invece di accoglierlo sulle ali del vento nuovo, nel nuovo secolo. Neanche un bacio, già da lì. Tra le montagne appuntite, è custodito da una mutter, Elisa, che non dà baci per non affezionarsi troppo ma vuole bene al bambino difficile, che la adora. È il momento anche dei primi segnali di comportamenti che deviano dalla norma e che da subito lo porteranno a conoscere la solitudine e il dileggio. Perrotta parla d’amore alla Elisa tratteggiata alle sue spalle accasciato a terra, un Cristo sdraiato tra le braccia della Pietà, ma non c’è pietà nella comunità di finzione che si vede minata dall’approdo di un diverso.
L’interprete cerca di restituire lo strazio di una mente vacillante e di un corpo sradicato con un periodare ossessivo, ripetitivo, con un andamento a tratti inceppato a tratti impetuoso, fluviale. Il fiume, il Po, Antonio ribattezzato Laccabue lo conoscerà quando sarà trasferito a Gualtieri paese d’origine del padre che decide di riconoscerlo formalmente, non per amore. Dovrà lasciare le sue montagne, picchi e abissi torneranno vividi anche sulle rive piane del Po e tra i suoi pioppeti, soli testimoni per tanto tempo della produzione di gran parte dell’opera per cui Ligabue sarà celebrato. Italiano, Tedesco e dialetto raccontano come in un caleidoscopio rotto Toni, lo scemo del paese (“al matt, al todesch”), oggetto di scherno e cattiverie ma così bravo a disegnare. Perrotta lo fa agitare senza tregua in una gabbia di sofferenza e di solitudine, dove il solo conforto sembra essere l’idea delle donne che potrebbero lenire tanto dolore — magari Ines — sono le uniche che potrebbero donarlo, quel bacio che non sarà dato. Ma l’isolamento gli consentirà di dare forma alla sua arte, che Ligabue si rende conto essere speciale, seppure solo quando avrà sessant’anni sarà conosciuta e riconosciuta e lo eleverà da quel sistema che l’aveva confinato ai margini, che aveva stigmatizzato la sua estraneità — nessuna immagine a evocare come un marchio i suoi dipinti nello spettacolo bassanese.
Perrotta si spende senza riserve, il suo monologo assillante dove il dolore e l’instabilità sono un basso continuo riesce a farlo sentire, quel fastidio che non si vorrebbe/dovrebbe sentire. A fine spettacolo ringrazia il pubblico, perché recitare dal vivo è un’altra cosa e solo da pochi giorni ha ripreso a farlo.
Caldi applausi, dal pubblico di Operaestate.