Un bès

Teatro dell’Argine in collaborazione con Teatro Sociale di Gualtieri - Comune di Gualtieri - Associazione Olinda - DUEL

Un bèsAntonio Ligabue

«Perrotta si inventa una straordinaria maschera verbale,
un delirio ossessivo che getta una luce livida sullo sguardo che il mondo rivolge al "diverso",
al non-omologabile, seppure artista geniale»

Renato Palazzi, Il Sole24Ore

il Sole 24 Ore

Primavera dei Teatri

Credo che se dall’ampio e articolato programma di “Primavera dei Teatri”, il bel festival di Castrovillari, si cercasse di trarre una sintesi, un dato unificante – anche al fine di ottenerne qualche maggiore indicazione su certe tendenze della scena italiana di oggi – si arriverebbe probabilmente a questa constatazione: che esiste, e si va sempre più accentuando, una profonda divaricazione tra quelle proposte che, anche sul piano del linguaggio, vogliono mordere la realtà, vogliono cogliere dal vivo umori e smarrimenti del momento, e i puri esercizi teatrali più o meno fini a se stessi.
Tra gli esponenti di maggiore spicco della prima categoria c’è di sicuro la Compagnia […].

Lo stesso atteggiamento, pur di fronte a tutt’altra materia, si rileva nel nuovo spettacolo di Mario Perrotta, Un bès. Antonio Ligabue, prima tappa di un progetto sul pittore naïf: prendendo le mosse dall’infanzia in Svizzera, dall’abbandono da parte della madre naturale Perrotta evoca lo stato di straziante solitudine che segna Ligabue nel suo vagare fra gli argini del Po. L’attore si inventa una straordinaria maschera verbale, un delirio ossessivo – tanto più intenso in quanto lui, pugliese, lo scandisce in una febbrile parlata emiliana – che getta una luce livida sullo sguardo che il mondo rivolge al “diverso”, al non-omologabile, seppure artista geniale.

Rientra invece, a mio avviso, nella seconda categoria […]

La Repubblica

Alla rassegna teatrale di Castrovillari domina il racconto della rovina prodotta dalla marginalità

La cultura rischia d’essere sempre più marginale, nella nostra economia,coscienza ed esistenza, e la “coraggiosa” XIV edizione del festival “Primavera dei Teatri” di Castrovillari (Cosenza) diretto da Saverio La Ruina e Dario De Luca esplora, almeno nel caso dei tre spettacoli, alcune vicissitudini, certi fenomeni e qualche estremo cui condanna la marginalità sociale. Un’ottica che rende la manifestazione molto in sintonia coi nuovi mali del Paese, associandoli a linguaggi e a formule contemporanee.
Prendiamo l’esempio di Mario Perrotta, già narratore di odissee del lavoro, che qui ha proposto Un bès. Antonio Ligabue, il primo di tre movimenti dedicati all’infinita solitudine e diversità di un artista che nacque in Svizzera e poi produsse a Gualtieri tanti visionari paesaggi, pagando a lungo lo scotto d’una discriminazione per la fama alienante che colpì i suoi quadri, e la sua stessa natura irrazionale. Perrotta, con una barba incolta, un cappottaccio, chiede un bacio in bocca qua e là al pubblico, e parla della madre, della “mutter”, e con bell’istinto disegna dal vivo sagome femminili con essenzialità a volte alla Munch, e plasma bene tiritere stralunate e terragne con inflessioni emiliane che riferiscono dell’accusa di mancanza di comprendonio, e trasmettono la bellezza del disincanto, della felicità perduta, del confino cui lo ridusse il benpensantismo […]

l'Unità

La Primavera dei teatri è tornata

[…] In scena dunque nuova drammaturgia e nuove forme, il teatro degli uomini soli – fra i quali ricordiamo almeno il raffinato lavoro in progress di Noosfera Museum di Roberto Latini e l’intelligente, ironico Cucinarramingo di Giancarlo Bloise dove il cucinare è un modo per raccontare la storia del mondo – e quello dei gruppi, gli uni e gli altri ponte ideale fra il nostro presente e un futuro incerto.
Ecco allora che Mario Perrotta con il suo Un bès – Antonio Ligabue si conferma una delle punte di diamante del teatro di narrazione. Ma in questo spettacolo, prima cellula di un progetto in tre parti, a macchia di leopardo, che arriverà a conclusione nel 2015, Perrotta con grande bravura è sì l’attore solo che racconta, ma, allo stesso tempo «è» Ligabue, l’artista naïf dalla pennellata violenta e dal mondo immaginario. E quel «bès» che il pittore chiedeva a chiunque incontrasse nel suo bisogno di tenerezza, questa sua solitudine affollata, è un mondo che Perrotta ha saputo teatralmente cogliere per superare l’ostracismo, la derisione che circondava quest’uomo «sbagliato» convinto che fosse nato tredici giorni dopo, il 1 gennaio 1900, con il «vento nuovo» la sua vita sarebbe stata giusta. Un bambino nato in Svizzera, padre ignoto dato irregolarmente in affido dalla madre a una coppia di contadini svizzeri, che ha disceso tutti i gradini di quella follia, di quel disadattamento che lui riusciva a esorcizzare grazie al disegno, alla pittura. Mario Perrotta, solo in palcoscenico, di fronte a tre grandi cavalletti, con rara forza performativa, grazie a un ritmo che prende alla gola, ci restituisce la parlata tedesco-emiliana di Ligabue. E disegnando a carboncino su ampi fogli che via via si consumano, ne insegue il gesto febbrile: volti, animali in un crescendo creativo che va di pari passo con le parole del suo affascinante racconto. […]

Corriere della Sera

Un bès. Antonio Ligabue. Fantastiche visioni e incubi di un artista

«Dam un bès», «dammi un bacio» frase che risuona, ora richiesta triste, ora rapinosa, ora rabbiosa, ora timida, ora disperata ma sempre percorsa dal tono affranto della solitudine, in Un bès. Antonio Ligabue (il 25 giugno a Milano, Festival «Da vicino nessuno è normale»), spettacolo di Mario Perrotta, primo di tre movimenti intorno alla figura dell’artista svizzero tedesco dalla nascita e adottato dalle nebbie e dalle calure della Bassa Padana, dalla natura selvaggia che ha avvolto la sua indole. Un essere tormentato di cui Perrotta racconta i fatti salienti di una vita già segnata, come dice il personaggio, dalla data di nascita, il 18 dicembre 1899, 13 giorni e si apriva il nuovo millennio e chissà forse la vita di Antonio sarebbe stata un’altra. Il padre mai conosciuto, la madre morta improvvisamente, il bimbo dato in adozione e poi denunciato dalla madre adottiva stessa perché violento, difficile, i manicomi, l’espulsione dalla Svizzera, l’arrivo a Gualtieri. E qui l’incontro con l’arte, l’abbraccio furioso con la natura, la fama per questo artista solitario, commovente, inquietante, «Al matt» come veniva chiamato. Quinte mobili in vetro cemento, girate svelano grandi fogli di carta sui quali Perrotta disegna, accompagnando la narrazione, un paesaggio di montagna, delle vacche, un accenno di volto. Perrotta è anche Ligabue, ne usa la lingua dallo strano accento emilian-tedesco, compone discorsi, racconta fatti. In equilibrio tra essere e narrare, lo spettacolo offre un ritratto palpitante di un artista e di una vita solitaria, selvatica, percorsa da incubi che grazie ai pennelli si trasformavano in fantastiche visioni.

il Manifesto

Quei grandi e piccoli orrori quotidiani

Ritorna al suo periodo d’elezione, da cui prende anche il nome, Primavera dei Teatri, la rassegna teatrale che ogni anno a Castrovillari propone un’ampia scelta della giovane scena, con un occhio privilegiato a quella operante nelle regioni meridionali. L’anno scorso era slittata forzatamente a novembre, per i pasticci burocratici e l’insipienza dell’amministrazione regionale presieduta da Scopelliti. Tornata alla sua collocazione originaria, ha preparato un panorama tanto fitto quanto indicativo della nuova scena italiana, cui il pubblico calabrese ha risposto con entusiasmo (…)
(…) Lanera e Spagnulo, più che in altre occasioni, fanno teatro civile, restituendoci le istantanee dei nostri orrori quotidiani; esasperazioni e paradossi, oltre a una sana autoironia, ci costringono a misurarci con pochezza e pregiudizi che allignano in ognuno di noi. Non meno «civile» è il ritratto di un grande artista che ci propone uno dei campioni del teatro di narrazione, Mario Perrotta. Un bès – Antonio Ligabue è il primo stadio di una trilogia dedicata al grande artista visivo emiliano che si svilupperà ancora nei prossimi due anni. Perrotta è solo, ha conquistato un orecchiabile accento emiliano, e racconta l’arco della vita e dell’arte di Ligabue dalla nascita senza padre in Svizzera, ai raminghi vagabondaggi padani in cerca di relazioni e di scambi, forte solo, oltre ovviamente che di umanità straordinaria, della sua fulminante capacità pittorica. E’ il grido di dolore a coprire le altre parole, un grido che prende corpo negli eccessi e nelle ingenuità di quella mano felice. E’ solo l’inizio di un percorso per Perrotta (che dopo tanti racconti civili aveva ultimamente scelto il confronto con i classici) che fa attendere con curiosità i suoi prossimi sviluppi.

La Stampa

Un bacio per Ligabue

in questi tempi di vacche magre è un buon segnale che il Festival Primavera dei Teatri sia riuscito a rispettare l’appuntamento annuale: oltre a offrire una piccola rassegna di interessanti compagnie in quest’ultima settimana di maggio, l’evento richiama a Castrovillari (CZ) un pubblico fitto e motivato, con una percentuale di giovani molto maggiore della media di tali occasione. Tra i debutti nazionali io cronista ha scelto l’ultima fatica di Mario Perrotta, autore e interprete, che si intitola Un bès. Antonio Ligabue, prima tappa di un trittico annunciato sul pittore naif di Gualtieri, che ebbe una voga clamorosa appena dopo morto, una cinquantina di anni fa.
Qui Perrotta si concentra sui primi anni dell’artista, che prima di trasferirsi sulle rive del Po era nato in Svizzera da madre nubile e padre sconosciuto, e vi era rimasto fino a diciott’anni. L’interprete, che arriva dalla sala con un cappotto nero, mugugnando e chiedendo alle signore come un’elemosina, ma senza insistere, «un bés», un bacio, imposta da subito il doloroso personaggio del reietto, lo scemo del paese, chiuso in se stesso ma un po’ inquietante nei suoi sporadici tentativi di comunicazione.
Durante i circa 80’ del monologo di costui, emergono a tratti elementi del paesaggio interiore di Ligabue, che ogni tanto con la mano (sinistra) di Perrotta e sfoggiando una certa sicurezza traccia a carboncino, su grandi fogli bianchi montati su dei supporti, la linea delle montagne viste da bambino, la sagoma di una mucca, il viso severo della madre che lo ha respinto, frammenti di un passato del quale tenta ancora, confusamente, di capacitarsi.

Hystrio

Un bès – Antonio Ligabue (primo movimento)

Fattosi conoscere e apprezzare nello stile asciutto e diretto dei narratori (Italiani Cìncali e La turnàta), Mario Perrotta mostra di aver capito per tempo che certe strade possono infine rivelarsi vicoli ciechi. Così nelle recenti stagioni si è preso spazi e tempi per esplorare altre modalità di teatro (nella Trilogia sull’individuo sociale, per esempio) e anche il nuovo progetto – ambizioso, complesso, allargato – sembra segnare uno scarto ulteriore nella sua ricerca. Progetto Ligabue (sul sito www.progettoligabue.it tutte le articolazioni di un disegno almeno triennale) punta sulla figura del pittore Antonio Ligabue e nella previsione di tre “movimenti” geografici si concentra per ora sulla matrice biografica, psicologica, svizzera ed emiliana del personaggio. Il bès del titolo è infatti il bacio desiderato, il bacio elemosinato, il bacio negato che – secondo Perrotta – ha lasciato l’imprinting decisivo nella personalità dell’uomo Ligabue. Lo vedremo infatti, fin dall’inizio, mendicare tra il pubblico quel piccolo gesto d’amore e di intimità che suggellerà poi il finale. La nuova creazione di Perrotta è racchiusa tutta nell’arco di quei baci mancati, che gli permettono di disegnare (anche letteralmente, col carboncino, sulle lavagne-schermo che liberamente egli muove e utilizza sul palco) un ritratto vibrante del pittore matto. Colto dapprima nell’infanzia in Svizzera (e nella sofferta dualità del rapporto tra la madre naturale e quella adottiva) e poi sulle rive del Po nei pressi Gualtieri (RE), punto fermo nella sua ondivaga, ispirata e selvaggia esistenza. Condotto com’è, attraverso le forme del monologo, un approccio di questo tipo esige un impianto di profonda immedesimazione, oltre che un lavoro linguistico accurato, per il pugliese Perrotta che si ritrova a parlare emiliano, e ci sembra la novità più evidente della strada interpretativa su cui l’attore si è incamminato. Strada anche vincente in un mercato che chiede spettacoli di trasparente ed emotiva lettura.

Corriere della Sera ed. Bologna

I colori di Ligabue

Doppio omaggio al grande pittore visionario: la mostra a Riccione e lo spettacolo a Bologna (…) prodotto dal Teatro dell’Argine, Un bès – Antonio Ligabue, in cui l’attore Mario Perrotta, si trasforma fisicamente nell’artista, ne indossa la cadenza reggiana e dipinge in scena a carboncino, rievocando il rapporto del pittore tra le cose e la loro raffigurazione, in velocità, con tratti secchi, dettagliatissimi.
Con i quadri e con l’azione scenica si rievoca la vicenda esistenziale di un grande irregolare, che seppe trasformare le sofferenze in forma artistica, senza riuscire mai a godere a fondo i frutti della propria abilità. Quasi una metafora per i nostri tempi di precarietà, di conformismo, di crisi. Perrotta punta tutto sull’esclusione dell’uomo Ligabue, sulla follia che lo attraversava, sull’amore tanto cercato e mai avuto. Risale all’infanzia di abbandono in Svizzera, alla solitudine tra boschi e argini nella Bassa. E lo spettacolo, con quel frenetico dipingere e strappare fogli per riempirne altri, con urla trattenute, con occhi sbarrati e un continuo elemosinare quel bacio, diventa un commovente affondo nella vicenda dell’uomo toccato dalla grazia ma come l’albatro di Baudelaire misconosciuto, deriso da uomini, donne e piccini.

Gazzetta di Parma

Lo straziante bisogno di affetto di Antonio Ligabue

Al termine dello spettacolo il pubblico, in piedi, ha applaudito a lungo insieme all’attore bravissimo Mario Perrotta, i propri ricordi, e la figura reale e leggendaria di quella terra, Antonio Ligabue. Una serata davvero speciale.
Nell’incanto del Teatro Gualtieri, uno spazio consegnato nuovamente alla comunità per merito di un gruppo che ha lavorato a lungo, aggregato energie, rendendolo agibile in forma sorprendente, il palcoscenico circondato dai palchi, gli spettatori seduti nello spazio un tempo dedicato alla recitazione, una commovente situazione di non-finito che ricorda, in piccolo ma ugualmente prezioso, lo spazio parigino di Peter Brook, con i segni del tempo ancora evidenti, un senso di decadimento, di antico abbandono, che si traduce però in casta, calda accoglienza. Teatro aperto, vivo, così disposto a riprendere la sua importante funzione di richiamo, di slancio e coinvolgimento culturale. In particolare ora proprio con il progetto triennale dedicato a Ligabue avviato con il Teatro dell’Argine di Bologna: così ha ricordato Mario Perrotta, dopo l’emozione condivisa dei lunghi applausi per Un bès – Antonio Ligabue, dove l’attore assorbe le esperienze, gli stati d’animo del grande pittore, una vita sofferta, emarginata, che va ricomponendo a frammenti, svelandola per assaggi e ritorni, smarrimenti e ossessioni, sospesa tra la vita e la morte, al termine una sorta di fantasma del luogo che rievoca, dolente e beffardo, il proprio funerale. Si vedono allora scorrere sul fondo delle ombre, mentre ancora ritorna quella richiesta che si fa straziante, «Un bès, un bès, un bès», tante diverse sfumature per dire del bisogno d’affetto, di tenerezza, di contatto vero, fisico, con una donna, sentire la vicinanza della pelle, delle labbra. Il teatro si riempie intanto di proiezioni del volto di Ligabue, frammenti dei tanti autoritratti, ma c’è anche il documento, una registrazione nota, che mostra quel bisogno di relazione reale, concreta, di dolcezza e sensualità, con la mano che si avvicina ad accarezzare le guance di una donna che subito si ritrae timorosa, infastidita. Un bès – Antonio Ligabue è una creazione complessa, con Mario Perrotta che disegna a carboncino grandi pannelli, ripercorre gli anni in Svizzera di Ligabue, i ricoveri, l’arrivo a Gualtieri, la sua solitudine, con passaggi di grande teatralità, ma al centro resta quella richiesta con cui si apre lo spettacolo tra il pubblico, «un bès, un bès, un bès…», un’esigenza che pare superare anche la soglia della morte…

Ateatro.it

La maschera della diversità: il Ligabue di Mario Perrotta attore e pittore

Parte dal teatro Gualtieri di Reggio Emilia, uno dei luoghi “resistenti” del teatro di ricerca, Un bès, spettacolo di Mario Perrotta ispirato alla vita del pittore Antonio “Toni” Ligabue; si tratta del primo atto di un progetto di ampio respiro che prevederà iniziative triennali e collaborazioni anche internazionali.
Lo spettacolo interpretato dallo stesso Perrotta solo in scena, è poetico e toccante, profondo e drammaticamente vero, bello da stringere il cuore. La storia è raccontata dalle parole di Ligabue in quel dialetto sporco tra l’emiliano e il tedesco che gli abitanti del paesino di Gualtieri, paese d’adozione del pittore naif nato in Svizzera, erano abituati a sentire dal “matt”. Ma il racconto teatrale scorre anche attraverso i segni che lo stesso attore traccia con rara maestria, su fogli da disegno dove punteggia per sommi capi, i luoghi dell’infanzia o i capitoli della sua vita, una vita disperata e umiliata, sempre in cammino o in fuga. Aspro cammino, malagevole e fatalmente senza sbocco. Cercando un affetto, o solo un bés, un bacio. Recitare e disegnare in un unico slancio: in questo contemporaneo e difficilissimo sforzo creativo Perrotta dà volto e parole alla follia, all’artista muto, agli incubi di solitudine. Come per il teatro antico l’interrogativo è ancora lo stesso: si può dar forma al dolore? Gli spettatori assistono alla scatenarsi di un destino umano nel breve succedersi di eventi e vengono così, fatalmente proiettati all’interno dell’infelice condizione del protagonista.
Come rapito in un viaggio visionario, Ligabue/Perrotta approda in paesi sconosciuti rimpiangendo terre perdute e forme familiari. Che dire del momento in cui, tracciato con il carboncino una montagna e un volto femminile, Ligabue/Perrotta accucciato come in un gesto di abbraccio totale, in una disperatissima richiesta d’affetto, si rivolge all’effige della madre e a quel paesaggio così a lui caro? Il dialogo in questo caso non è parola tra personaggi ma parola tra attore e luoghi intimi. Si sente in questo straordinario quadro di scena, l’urlo muto, le ferite, le lacerazioni interiori del personaggio. Così tra un dialogo mancato con la centralinista a cui rivela i suoi sogni e i suoi desideri e un disegno abbozzato, si avverte in pieno quel senso di immenso vuoto che contraddistinguerà la sua vita futura. E’ proprio la vicenda dei primi anni della sua esistenza che lo segnerà tragicamente, con la madre che lo ebbe fuori dal matrimonio , un uomo che lo riconobbe come padre ma con cui non ebbe rapporti, per continuare con la famiglia adottiva fino all’espulsione dalla Svizzera a Gualtieri, per peregrinare da un ospedale psichiatrico all’altro. Allontanato, cacciato, deriso, visse la sua esistenza sul fiume, visitato da fantasie pittoriche primitive a cui lui dava forma su tela con terre e materiali trovati sulla riva; il suo genio verrà riconosciuto tardi, pochi anni prima della sua morte. Questo dramma della solitudine, del rifuggire la comunità degli uomini per i loro abiti morali e per le loro cattiverie, sono incarnate a teatro da un senso di felice e determinato straniamento dall’ipocrisia con cui gli uomini cercano di difendere la vita sociale e privata.
Come non ci sono proiezioni a ricordare le pitture di Ligabue (gli animali ritratti con quei violenti cromatismi alla Van Gogh), non c’è alcun travestimento o trucco per l’attore a ricordare quel viso puntuto e quel naso adunco che ben conosciamo dai suoi autoritratti e soprattutto dal film interpretato da Flavio Bucci. Perrotta ha realizzato la maschera della diversità assoluta, costruita sull’inquietudine, sulla storia straziante di un uomo su cui il destino si è accanito più e più volte. E’ la maschera della sofferenza umana. Potere del teatro di incarnare una condizione universale dell’essere che ognuno di noi identifica in una figura biografica nota: Ligabue è ritratto in scena come l’essere solitario in un mondo mostruoso, l’uomo fragile spinto però, anche da un’irrefrenabile vitalità fatta di eccitazione e carnalità. Lo spettacolo prima che una biografia del pittore, è una straordinaria metafora della vita perduta, dell’assenza, della ricerca incessante di umanità e affetto. Di questo lo spettatore è sofferente testimone.
C’è nello spettacolo un sentimento della perdita, un senso dell’espropriazione della vita che non può essere ridotto alla patologia di un uomo, alla sua follia e alla sua insofferenza verso la gente. L’impotenza a comunicare e a liberare i propri sentimenti primari e innocenti viene tradotta da Perrotta quasi letteralmente in un impulso naturale e incontrollabile verso l’arte come energia vitale. La bellezza e l’innocenza della sua pittura si racchiude nei luoghi della libertà che si è concesso, un fiume e un bosco. E’ noto come Ligabue cercasse con atti violenti al proprio volto e con gesti bestiali di avere una sorta di somiglianza con gli uccelli e gli animali che ritraeva, con i loro suoni striduli per arrivare a comunicare come loro in una primitiva e totale potenzialità di scambio, per mettersi in relazione con ciò che gli stava intorno. La maschera che Perrotta indossa racconta la ferita dell’uomo che pur nel dramma, nell’isolamento autoindotto, nella follia, sfoga ciò che è imprigionato dentro di sé in un’espressione pura e cristallina di libertà, nel tentativo di una regressione metamorfica con la natura. Un’esistenza quella di Ligabue, che si beffa delle regole nel desiderio di essere ciò che non si può essere. Uno spettacolo indimenticabile che lascia, come il teatro dovrebbe, uno straordinario senso di rivelazione.

Corriere.it

Viaggi teatrali d’estate: a Volterra, quando nel carcere svaniscono le sbarre

Un palazzo incantato, ricco di specchi, di fregi, di stucchi, di fiori e di velluti. Una piazza scatenata di danze e felicità. Un luogo dove la parola rifulge e si fa anima. Tutto ciò è diventato in questi giorni il carcere della Fortezza, per il festival VolterraTeatro che celebra i 25 anni della Compagnia della Fortezza. Dopo un prologo nei paesi vicini, in attesa della conclusione con la ripresa di Mercuzio non vuole morire nel teatro Persio Flacco, tutto gli spettacoli si sono svolti in un carcere in cui gli ambienti aperti e chiusi prendevano nomi di artisti visionari, diventando spazio Brecht, spazio Artaud, spazio Genet, spazio Kafka, spazio Leopardi, spazio Rabelais…

Ha inaugurato quest’ultima settimana di festival tra le sbarre Santo Genet Commediante e Martire, il nuovo spettacolo firmato da Armando Punzo, sul quale tornerò più diffusamente in questa e in altra sede. […]

Ma tutto il festival proietta il teatro nello specchio deformante e rivelante del carcere: dalla presentazione del libro che ricorda spettacoli e pensieri di questo meraviglioso cammino della Fortezza, È ai vinti che va il suo amore (edizioni Clichy di Firenze), allo struggente concerto di canzoni d’amore di Danio Manfredini, indossate come un dolore personale lancinante, lanciate nell’aria come un grido di passione che sfida il mondo, meditate con versi di Mariangela Gualtieri. Ed è la prima delle ovazioni. Tocca il pomeriggio dopo, in un festival spesso senza fari e senza supporti di filmati e video, in piena luce, a Mario Perrotta entusiasmare fino alla commozione il pubblico accorso da tutta Italia e fatto anche di carcerati con il suo Un bès, la vita, i dolori, le esclusioni di Antonio Ligabue portate dentro di sé con passione, dolore, stralunata e emozionantissima identificazione, una via crucis “cum figuris”, illustrata da disegni a carboncino eseguiti dall’attore in scena. Nel finale, un finale di morte e di strazio, per una vita misconosciuta come quelle di molti che qui sono reclusi, scoppia un attimo di silenzio, e poi l’ovazione.

La Guida

I baci non ricevuti di Ligabue

Davvero uno degli spettacoli più belli visti in Italia negli ultimi anni. Si sta parlando di Un bès di e con Mario Perrotta, vincitore (non a caso) del premio Ubu come miglior attore del 2013, andato in scena – causa mal tempo – nella suggestiva e raccolta chiesa di Santa Croce di Racconigi (e non nel consueto parco dell’ex Ospedale Psichiatrico) per “La fabbrica delle idee”. Dell’attore-regista-drammaturgo pugliese negli ultimi anni si sono già applauditi al Toselli di Cuneo due terzi della “Trilogia dell’individuo sociale” (altro Ubu): Il Misantropo e Aristofane Cabaret. Un bès è, invece, la prima parte di una nuova trilogia dedicata a Antonio Ligabue (1899-1965), ovvero, dice la Treccani, “il più noto dei naïf italiani”. Il pittore emiliano (ma nato a Zurigo) ebbe una vita a dir poco difficile e infelice: abbandonato dalla madre biologica e poi rifiutato da quella adottiva, alternò ricoveri in manicomio a periodi di vagabondaggio, schernito da tutti, fino alla conquista – a sorpresa – di una pur tormentata fama. I suoi quadri, visionari e inquieti, mostrano una natura esotica e selvaggia, onirica e ancestrale, aprendoci la porta della sua psiche sconnessa. Una figura ideale, secondo Perrotta, per indagare sul concetto di diversità. In un monologo teso ed emozionante, l’attore diventa davanti al pubblico lo stesso Ligabue, con il suo modo di parlare che mescolava il tedesco dell’infanzia, un italiano sconnesso e il dialetto emiliano. Evoca con forza i momenti più importanti della sua vita, aiutandosi con i bellissimi disegni al carboncino che traccia lui stesso con notevole bravura su grandi fogli, dove appaiono di volta in volta luoghi e persone, come la Mutter, la madre adottiva, amata e poi odiata, protagonista di uno dei momenti più toccanti, o gli ottusi compaesani di Gualtieri. Il tutto scandito da un minimo comune denominatore: la richiesta di affetto e di amore, di quel “bacio” del titolo mai ricevuto.

Giornale di Vicenza

Ligabue, pitùr che voleva l’amore

Mario Perrotta ama ripetere che in teatro il rapporto tra gli attori sul palcoscenico e gli spettatori in platea è come un rapporto erotico: vive grazie al respiro di entrambe le parti, si nutre di una sintonia o di una mancata sintonia che regolano il passo del cuore, richiede un corteggiamento, un annusarsi reciproco. Il teatro del regista salentino, premio Ubu 2013 come miglior attore, questa sintonia sa crearla davvero. Il suo spettacolo Un bès – Antonio Ligabue, andato in scena al Teatro Astra di Vicenza e dedicato al pittore emiliano, è una danza in equilibrio su due fili. Il primo è quello che lega inevitabilmente attore e spettatore ogni volta che si va in scena: è un filo sottile che dev’essere tirato come una corda di violino, deve fare trattenere il fiato, deve mantenere al massimo livello l’attenzione. Il secondo è il filo della diversità, della marginalità di cui tratta la storia: Ligabue (vero
nome Antonio Laccabue, Zurigo 1899-Gualtieri, Reggio Emilia 1965) il diverso per eccellenza, qui torna in vita e non lascia illeso lo spettatore, ma lo interpella continuamente, gli chiede di avvicinarsi o di avere paura, di rifiutarlo o accoglierlo. Perrotta è un funambolo elegante. Fin dall’inizio sa restare in equilibrio su questi due fili, spesso facendoli coincidere: così il rapporto tra lui, attore, e lo spettatore si traduce nel rapporto tra lo scemo del paese e la società, tra la follia e la normalità. Sin dalla sua entrata in scena, dall’alto, attraverso la platea, rivolgendo lo sguardo al pubblico, chiedendo “un bès”, un bacio. Perrotta è un Ligabue intenso, srotolato con potenza e dolcezza attraverso alcuni momenti importanti della sua esistenza: l’infanzia e il difficile rapporto con la madre, l’affidamento; la relazione burrascosa e dolorosa con gli altri, con gli abitanti di Gualtieri, paese in cui viene esiliato a causa della sua follia; l’isolamento nella natura, dove – dice – c’è tutto quello di cui si ha bisogno. «Basta sedersi in riva al fiume e aspettare. Prima o poi arriva». Alla violenza della pazzia sa unire la tenerezza di un uomo che per tutta la vita ricerca disperatamente “un bès”, un bacio, un contatto fisico, qualcuno che sappia amarlo. Il risultato è un’interpretazione straordinaria, impreziosita dal talento artistico di Perrotta che, come Ligabue, sa parlare attraverso i disegni. Così le lingue in scena si moltiplicano, amplificando l’effetto di coinvolgimento. Non solo il dialetto reggiano, non solo il tedesco, ma anche la voce, quella più importante, delle immagini che si delineano attraverso il carboncino e costruiscono la scenografia, le altre relazioni, gli affetti. Questo Perrotta-Ligabue parla con le immagini, parla dentro le immagini, urla contro le immagini. Con i tratti che prendono forma nei fogli, si scoprono le paure e i sogni, quelli che Ligabue non sapeva esprimere, ma sapeva solo disegnare. Il pubblico trattiene il fiato, sorride a volte, in un sorriso che è sorriso di tenerezza. Gli applausi sono lunghissimi. Meritatamente. Un percorso che sa rispettare l’anima più profonda di questo “pitùr” forestiero e selvatico. Uno spettacolo che restituisce molto e che, in un certo senso, restituisce anche quel “bès”, quel contatto umano, quella comprensione profonda che Ligabue ha ricevuto sempre troppo poco.

Corriere Nazionale

Perrotta è Antonio Ligabue, un disperato bisogno d’amore

Mario Perrotta cambia ancora. Non si adagia sugli allori, appena trova una formula riconoscibile, che può essere vincente, ma ripetitiva, anche nel futuro prossimo, la abbandona e si lancia in nuove sfide. La “ricerca” nel caso dell’attore leccese è totale non soltanto un abbellimento per intendere un certo tipo di teatro. Dopo i soliloqui sulla sediolina passando al corale approdando al musicale, stavolta è il disegno ad attrarlo, a trasformarlo, a tradire ciò che era stato per consegnarci, spiazzando nuovamente, un nuovo Perrotta che, dopo la trilogia sull’individuo sociale, sforna adesso il primo capitolo della triade su Antonio Ligabue, il pittore, “el mat” di Gualtieri (progettoligabue.it).

La prima fotografia si chiama Un bès e solo, in accento emiliano e mentre disegna forsennatamente la “mutter”, la madre che non ritrova, recitando, sta in scena, alternando la vita interiore-psicologica e passaggi di biografia necessaria per capirne il percorso. Nel secondo, l’anno prossimo, l’attore di “Italiani cincali” sarà attorniato dalla danza di Micha Von Hoecke, in “Svizzera e furore”, mentre nel 2015 un happening invaderà per una giornata, “Antonio sul Po”, soltanto la cittadina nelle vicinanze di Reggio Emilia, Gualtieri, seconda “casa”, a dir la verità non così accogliente, per lo svizzero Laccabue riconvertito in Ligabue.

L’idea è imponente. L’impegno grande. Mario Perrotta è stato anche calciatore nelle giovanili del Lecce, alla sinistra, assieme ad Antonio Conte e Francesco Moriero, attore fin dai cinque anni sul palco con il nonno che traduceva Eduardo De Filippo in dialetto salentino, artista a tutto tondo con una grande manualità per il tratto, il disegno, la pittura. Mille vite, come i gatti. Quest’ultima caratteristica è la spirale e la soluzione con la quale riesce, con il suo pestare il carboncino pece sui grandi fogli bianchi, a dare volti e lampi, squarci ed a delineare tutto il mondo interiore del pittore.

Sarebbe stato inutile riprodurre i galli nell’atto del combattimento o le tigri pronte all’aggressione, gli autoritratti con il cane. Quello era Ligabue, qui invece Perrotta (che deve però risolvere la grana del disegnare con le spalle al pubblico per una buona comprensione del testo) rimette in circolo un mondo rimasto celato, emerso da documenti, estratti, interviste, video. Ed è proprio da un filmato in bianco e nero, lancinante e straziante, che ha origine il tutto, nel titolo ma anche nel fil rouge di fondo che esprime la grande solitudine, il grande gorgo di dolore e mancanza di affetto ed amore, patito quando fu strappato alla sua Svizzera tedesca ed immerso in questo mondo italiano che lo sbeffeggiava, lo dileggiava fino all’autoemarginazione, per cinque lunghi anni, sulle rive del Po, a vivere come un uomo primitivo, come un animale che, per non sentirsi solo, imitava i versi degli altri intorno.
“Dame un bes” dice un Ligabue già anziano, e famoso, ad una cameriera sì giovane quanto non così avvenente che con quella promessa-minaccia si fa fare un disegno sul retro della tovaglietta dell’osteria. Quasi da circonvenzione d’incapace, il pittore disegna sperando nell’ambito bacio (neanche le prostitute andavano a letto con lui sostenendo che puzzava), lui chiede informazioni, delucidazioni, è palpitante, fremente, si ferma e chiede nuovamente “Me lo dai un bes?” sognante, lei lo rincuora, lo tranquillizza mentre gli continua a dire che sì, glielo darà questo benedetto bacio ma solo e soltanto dopo che avrà terminato il suo disegno che lei non riesce a comprendere ma che ha capito in giro che potrebbe valere molti soldi.
Alla fine di quei tratti veloci il bacio, leggero, fuggevole, arriverà ma solo sulla guancia e di sfuggita mentre l’artista lo avrebbe voluto in bocca. E’ questo (il video viene proiettato nel finale) il sunto di una vita, di promesse non mantenute, di attese vane, di rincorse mai soddisfatte. La smania, la violenza della tigre che abbaia ma non morde, che rimane lontana, in disparte, come ferita, cacciata soltanto per la sua pelliccia, alla quale nessuno ha mai chiesto come stava. O se era felice.

PAC Magazine di Arte & Culture

Un bés: il Ligabue di Perrotta, povero titano dell’umanità

Il Mario Perrotta del primo atto della trilogia su Ligabue, che arriva a Milano al teatro dell’Elfo forte del premio Ubu aggiudicato allo spettacolo l’anno scorso, è probabilmente per forza creativa e capacità’ scenica il miglior narr-attore italiano oggi.
Gia’ siamo stati in argomento della trilogia per il secondo atto a luglio scorso ospite al Teatro La Cucina, e molte cose di quello spettacolo sono evidentemente più chiare a chi ne aveva fruito precedentemente il primo. La logica duale e dialogica dei due elementi e’ infatti piuttosto evidente a partire dagli elementi scenici per continuare con l’evoluzione degli argomenti e lo sviluppo delle solitudini in un dialogo fra singolare e plurale che forse è più interessante con i due elementi fruiti vicini. La distanza rafforza per così dire l’assoluta e forte compiutezza del primo, che trova spiegazione e completezza in se stesso, mentre il secondo rimane quasi emotivamente dipendente dal primo.
Qui la drammaturgia è incalzante, le pause icastiche, la parola e il gesto come in matematica necessari e sufficienti.
In Un bes, Perrotta sa tornare sui temi a lui più’ cari, dall’emigrazione all’abbandono della terra natia, della famiglia di origine, della solitudine, per un affresco di grande potenza in cui la vicenda di Ligabue uomo prima ancora che pittore diventa sineddoche di quella fitta rete di sconnessioni che la società contemporanea conosce. Sa farlo con pochi elementi e una capacità di illustrazione delle tematiche che è al contempo oggettiva e metaforica.
Davanti al Ligabue minorato ai piedi del ritratto della madre adottiva che gli parla, non possiamo non scorgere la parte di ognuno di noi che chiede pietà per la propria debolezza, incompletezza, incompiutezza. Nella società superominica che mette l’uomo e la macchina in corsa fra loro, quest’uomo di cui pare sentire il puzzo e’ la fragilità di chi osserva che si vede riflessa. La nostra incapacità di far di conto e’ uguale alla sua. La solitudine social dove elemosiniamo i like la stessa sua che elemosina un bes; con l’infinita maggior tristezza che si ha nel considerare che Ligabue appare, in questo confronto a distanza fra lui e noi di cui Perrotta è medium, molto più umano nelle sue richieste di quanto noi finiamo per apparire noi a noi stessi.

L'Isola mai trovata

Un bès: Mario Perrotta racconta Ligabue a Nardò

“Étrange (straniero, diverso) è una parola scomponibile: être-ange (essere-angelo). Dall’essere angeli ci mette in guardia l’alternativa dell’essere stupidi.” (J. Lacan, Seminario XX, p. 9)
La citazione di Lancan la rubo dall’amico Mimmo che su FB commentava l’ episodio a cui ha assistito: un clochard costretto a consumare in una sala d’aspetto un piatto che non aveva, evidentemente, diritto di mangiare al tavolo della mensa accanto che glielo aveva fornito. Forse non poteva sedere a tavola in quanto clochard, senza casa, senza tetto. Senza dignità?
E quelle parole mi sono balzate in mente ieri sera, memorabile 10 dicembre 2014 in quel di Nardò. Il teatro Comunale non è grande, ed è stipato di spettatori, Mario Perrotta ci racconta Ligabue, Un bès.
L’attore (e autore) non recita il personaggio, lui è il personaggio. Solo in scena in questo crescendo carico di tensione emotiva, Ligabue che passa la vita dipingendo con rabbia la mancanza di “un bes”, un bacio, dell’affetto che nessuno ha mai saputo dargli. La Svizzera non sopporta i matti nel suo lindo territorio, allora approfitta del cognome e della nazionalità del suo padre acquisito per cacciarlo in Italia, il paese si chiama Gualtieri, in agro di Reggio Emilia. E come ogni paese sopporta “el mat” “el tudesc”, il matto, il tedesco. Quel bizzarro personaggio che girovaga per strade e boschi dipingendo e scambiando quadri con un piatto di minestra, che parla un misto di emiliano e tedesco, che guarda le donne e cerca solo, banalmente affetto. Ma l’è mat, neppure le puttane lo vogliono “sono sporco, mi ha detto”.
Avevo già incontrato Mario Perrotta quando presentava al pubblico per le prime volte il suo Un bes, in una lunga intervista si diceva fra l’altro:
“Nella presentazione dici che Ligabue artista sapeva di meritarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo”.
– Certamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé e del suo valore artistico. Amava ripetere: “quando sarò morto i miei quadri varranno un sacco di soldi”. Non era assolutamente lo scemo del paese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo faceva perché gli tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, avrebbe meritato attenzione e sperava che quell’attenzione si concretizzasse anche in affetto da parte di qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita. Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare dei quadri in anticipo e poi realizzando delle opere brutte (a suo stesso dire!). –
“Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo sito, parlando dello spettacolo, sono: “Voglio stare anch’io a guardare gli altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quale il fuori”.
Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò in una sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa dicendo: “Ciao da noi chiusi dentro a voi chiusi fuori”.
– Sicuramente lo “stare al margine” è una condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni ’50 e ’60. E’ una condizione limite, appunto, che trova rispondenza ancora una volta in un’esperienza profondamente mia legata all’infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre lottare per restare invece “all’interno della cerchia”, tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile il passaggio da un “palcoscenico” all’altro).
Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo mentre, per quanto concerne la condizione di “malato di mente”, è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di mente ti trovi oltre essi e quindi sei “fuori”. Fuori dal consesso umano che ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono “sani”, guardando le mura di un manicomio si definiscono “fuori”, mentre i malati sono “dentro”. E allora? Qual è il dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceraria e in qualunque condizione di diversità sancita da un confine: esso stesso determina un dentro e un fuori differente secondo il lato su cui ci si trova. Mi viene in mente una parola leccese – ‘ppoppeti – che i cittadini di Lecce usano per indicare in modo irriverente “quelli di provincia”. Il suo etimo è latino e cioè: post oppidum, oltre le mura della città.
Il guaio è che anche “quelli di provincia” usano la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza “quelli della città” perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo effettivamente ‘ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine ad essere sbagliato. –
E in altra intervista pubblicata recentemente sulla rivista della Fondazione Terra d’Otranto Il Delfino e la mezzaluna alle pagg. 216/223, racconta dell’impellenza di parlare della diversità, di viverla:
“Vorrei farti una domanda personale. Sei diventato padre, ne vuoi parlare?”
– il progetto Ligabue nasce per questo. sapevo che sarei diventato padre di un bimbo o una bimba che arrivava dal centro africa. Non sapevo da dove nè l’età, né il sesso, l’unica certezza era che sarebbe stato nero. Per qualcuno è un problema, per me una ricchezza. Gabriele è arrivato dall’Etiopia e un giorno vorrà riscoprire le sue tradizioni. So che qualcuno gli farà notare la sua differenza. Mi sono chiesto se saremo in grado di aiutarlo a superare questi scogli. Lo sapremo un tempo. Queste tensioni mi hanno fatto tirar fuori il progetto Ligabue. Un “diverso” era la figura che mi permetteva di parlare di me e delle mie tensioni. Come vedi non è una domanda personale, è artistica. i miei testi sono le mie urgenze. Privato e scena si intrecciano.

Parole nella quali la parte “razionale” ha il sopravvento, è la logica dell’offrire una visione della diversità al pubblico, del dare un senso a quella che chiamiamo pazzia giusto per togliercela di torno e tornare alla nostra “normalità” mentre “el mat” crea, vede il mondo con occhi diversi, rivendica un bes, un abbraccio, comprensione non per il suo stato ma per il suo essere “umano”. Il paese lo deride ma acquista i suoi quadri, i “normali” si fanno dipingere il furgoncino che poi rottameranno senza rendersi conto di quel che fanno, pur se legati a filo doppio al valore venale, al denaro, neppure sanno di aver rottamato un’opera d’arte, lo capiranno solo quando l’artista morirà e i suoi quadri avranno l’onore di essere “opere d’arte”.
Allora non avevo avuto l’occasione e il piacere di vedere lo spettacolo, ne avevo solo parlato con Mario. Arrivò in primavera a Lecce, è vero, ma per una sola sera e in un teatro piccolo per un artista così immenso, il Paisiello, non trovai il biglietto. Ora è tornato in un teatro altrettanto bello e altrettanto piccolo. Ancora una volta per una sola sera. L’ho visto ed ho capito di getto tutte le cose che Mario, in due interviste, non è stato capace di dirmi, non poteva farlo: l’impatto emotivo dello spettatore. Commuoversi di fronte ad una piéce teatrale non è usuale per me, lasciarsi andare e passare dalla storia narrata a “oltre la storia” non è facile. Questa volta è successo, ed ho visto altre lacrime fra gli spettatori. Mi sono commosso e sono riuscito a trapassare la storia narrata, a veder nascere quadri (Mario in scena disegna anche bene con tratti di carboncino su fogli grandi). Ho visto la grandezza del diverso e l’immensità dell’artista. Ho visto, per dirla con Lacan, un Étrange, un angelo rabbiosamente fiero e senza l’affetto che lo renderebbe una persona altra, diversa.
E tornando a Lecce, nella notte limpida e senza luna, pensavo a come sono grette le città di provincia, a volte, quando disdegnano i loro geni, li emarginano, li snobbano. Lecce austera potrebbe, dovrebbe riabbracciare con serena calma e pacatezza i suoi “mat”, i guitti, quelli che scommettono e creano. Dovrebbe riconoscere gli artisti quando ancora hanno molto da dare. Qui ed ora per favore!

L'Eco di Bergamo

Il bès di Ligabue un capolavoro di Mario Perrotta

“….Da mi basia mille/deinde centum,/Dein mille altera, dein seconda centum/Deinde usque altera mille, deinde centum./Dein, cum milia multa fecerimus…”: alzi la mano chi, da adolescente, non ha mai sognato con gli immortali versi del Carme numero 5 di Catullo: “…Baciami mille volte e ancora cento/poi nuovamente mille e ancora cento/e dopo ancora mille e ancora cento/e poi confonderemo le migliaia/ tutte insieme per non saperle mai…”.
Un bès, un bacio, lo ha cercato, implorato, chiesto, urlato, desiderato e detestato per tutta la vita Antonio Ligabue: senza mai riuscire a coronare il suo sogno. Non lo ha avuto dalla madre naturale che lo abbandona bambino, né dall’uomo che lo riconoscerà dandogli il suo cognome, Laccabue (che, da adulto, cambierà in Ligabue); né dalla madre adottiva, una svizzera tedesca che lo cresce fino a diciotto anni fino a quando, esasperato dalle sue stranezze, lo spedisce in Italia, né, ovviamente, da nessuna donna, non dalle lavandaie che lui spia al fiume, non dalle ragazze del paese che hanno tutte paura di lui: “al matt”, “al todesch”.
Un bès – Antonio Ligabue è il sorprendente, magnifico spettacolo di e con Mario Perrotta, che è andato in scena sabato sera ad Albano nell’ambito della rassegna Albanoarte Teatro in collaborazione con MolteFedi sotto lo stesso cielo, riscuotendo un grande successo di pubblico tributato al suo straordinario interprete.
“Ma sarà la prima che incontri per strada/che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato,/per un amore nuovo”, cantava Fabrizio De Andrè in “La canzone dell’amore perduto”: l’amore, Ligabue, lo cercherà per tutta la vita, elemosinandolo senza raggiungerlo mai: brutto, sporco, cattivo “Matto!”.
Perrotta non interpreta Ligabue, “è” Ligabue: nel corpo al corpo con il personaggio – in questo primo spettacolo di quella che diventerà una trilogia dedicata al pittore naïf – Mario Perrotta compie un percorso performativo che trascende “l’interpretazione” a favore di un’adesione totale con il soggetto.
Certo che resta una grandissima prova d’attore ma è come se Perrotta ci trasportasse, davvero, nel cervello malato del pittore, attraverso un’immediatezza interpretativa che oltrepassa il limite della “mimesis”, per arrivare a quella sorta di “transustanziazione teatrale”, che si favoleggiava venisse raggiunta negli spettacoli diretti da Jerzy Grotowski, dove il “verbo” si fa davvero “carne”. Una scrittura (lo spettacolo vanta una sfilza di premi lunga così) che ci ha ricordato, per la sua spietata bellezza, la prosa dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, soprattutto il romanzo “Gelo”, protagonista proprio un anziano pittore sull’orlo della follia, ossessionato, tra l’altro, dal latrato dei cani, così come Ligabue lo era, tra l’altro, dal suono delle campane. Uno spettacolo scorticato Un bès che squaderna, una sorta di tavola anatomica del sistema nervoso “malato” del protagonista; ma uno spettacolo che scortica anche lo spettatore, morbosamente attratto e attonito allo stesso tempo, di fronte alla messa a nudo di quest’anima tormentata in un corpo che viveva in un perenne sovraeccitamento sensoriale, in un’allucinata distorsione della realtà che gli permetteva di penetrarla fin nei minimi, infinitesimali dettagli, che si riverbereranno nella sua pittura. Uno spettacolo che non disdegna l’ironia, costruito con l’argilla dell’argine del grande fiume, che per anni, sarà la casa del pittore, e che ci culla sulle note dello struggente, delicato lieder di Schubert, che accompagna l’incipit della narrazione.

Rumor(s)cena

Un solo bès per tutta la vita. Mario Perrotta “disegna” la vita al confine di Ligabue

Emerge da un passato che sembra celare un’evanescente ricordo, come se la storia di un uomo divenuto poi artista famoso e celebrato per la sua arte, trovasse il giusto riconoscimento non solo attraverso il talento di pittore di cui era dotato, ma anche nella rievocazione sulla scena ad opera di un attore capace di assimilarne le sue gesta e le movenze, il suo incedere tipico di un uomo solitario e scomodo per la società del suo tempo. Mai il nome dato ad un festival teatrale come quello: “Da vicino nessuno è normale”, organizzato dall’Associazione Olinda di Milano, risulta più congeniale per ospitare il progetto Un bès _Antonio Ligabue, primo movimento del Progetto Ligabue, scritto e interpretato da Mario Perrotta. Un’indagine sulla controversa figura del pittore Antonio Ligabue, raccontato attraverso lo scorrere della sua vita, che vedrà il suo compimento con il secondo capitolo Svizzera e furore (il paesaggio interiore), dove è prevista anche la partecipazione di Micha Von Hoecke, nel 2014, e Antonio sul Po (il paese e il fiume) nel 2015 con la partecipazione collettiva di ben 80 artisti provenienti da molte nazioni che animeranno il paese di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, luogo dove il pittore visse e morì, dopo essere stato espulso dalla Svizzera, dove egli era nato.

“Un bès… Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi”, dice Ligabue per bocca dell’attore che ha debuttato in prima nazionale al festival Primavera dei Teatri a Castrovillari (Cosenza) e dopo averlo portato in scena anche all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini (uno spazio in cui il teatro di impegno civile trova la sua più idonea collocazione) si appresta ad una lunga tournée che lo condurrà in tutta Italia. Un bès… Dam un bès, uno solo!… supplica Ligabue attraverso le parole sussurrate in un idioma che assomiglia al dialetto emiliano di cui Perrotta ne trae una sua versione originale e carica di valenze sonore sconosciute. Solo in scena si interroga su come ci si senta chiudendo gli occhi e immaginandosi: 40 anni trascorsi e vissuti senza aver mai ricevuto un bacio. Un solo bacio in cambio di tutta la sua arte e il suo talento. Parte da questa mancanza affettiva il lavoro di Perrotta, felice risultato dopo lunghe ricerche per documentarsi sulla vita privata e artistica del pittore.
La sua solitudine, l’emarginazione che lo ha fatto soffrire, l’essere considerato come un alieno dai suoi compaesani. Lo scemo o il matto del paese: così era visto Ligabue, lui che viveva questa sua condizione di sdoppiamento; da una parte un corpo estraneo rifiutato, dall’altra l’essere artista e di conseguenza personaggio pubblico noto per le sue opere che facevano scalpore. Scrive Perrotta nella scheda di presentazione: “…Mi interessa la sua solitudine, il suo stare al margine, oltre il margine – là dove un bacio è un sogno, un implorare senza risposte che dura da tutta una vita. Voglio stare anch’io sul confine e guardare gli altri. E, sempre sul confine, chiedermi qual’è dentro e qual è fuori”. Perrotta esce allo scoperto vestito dimesso e infagottato dentro un cappotto consunto, ha l’aria stralunata e chiede ai primi spettatori che vede seduti di dargli un bès, un solo bacio. Lo chiede farfugliando con la voce, segno di una richiesta che intimorisce lui stesso per primo. È nel crescendo progressivo che la figura di Ligabue (ma il suo nome all’anagrafe era Antonio Laccabue,) viene resa mirabilmnete dall’attore, immedesimandosi senza però farne una sorta di personaggio caricaturale, bensì riesce ad entrare in contatto con la parte più oscura e recondita dell’uomo.

A partire dal rapporto con la madre adottiva dopo la morte di Elisabetta Costa, che era la madre naturale. La chiama mutter Elise, raffigurata attraverso il tratto a carboncino sulla carta che Perrotta con mano sicura, esegue a complemento delle parole recitate con un livello emotivo capace di commuovere il pubblico. Ligabue viene raccontato senza falsi stereotipi restituendo a noi un ritratto vero in cui emerge come sia stata difficile la vita di quest’uomo. La sua infanzia vissuta in mezzo alla natura viene descritta dall’incessante bisogno di disegnare come un tentativo di dare forma all’inquietudine del pittore, costretto a separarsi ancora una volta da una donna amata per essere ricoverato in manicomio. La sua libertà imprigionata dentro le mura di un luogo a lui ostile. Dovrà abbandonare anche la sua patria per andare a vivere a Gualtieri in Emilia, il paese originario del padre che lo riconosce come atto formale senza mai considerarlo come un vero figlio. Ligabue ha 19 anni e la sua vita subirà un’ulteriore disorientamento che lo segnerà per sempre. Perrotta fa suo Ligabue e ce lo restituisce in forma di narrazione biografica e drammaturgica, cogliendo a pieno l’anima tormentata di un’esistenza fragile di uno strano uomo, capace di mescolare due lingue così profondamente diverse tra di loro, dal tedesco all’emiliano, facendosi dire dietro che è un “mat todesch”. Lo supporta con il gesto grafico rivelatore di una padronanza artistica eccellente ma soprattutto capace di esaltare il vissuto esistenziale dell’uomo.

Il rapporto con la gente è sempre più lontano da essere considerato normale e anche la sua pittura verrà considerata segno della follia che lo possedeva. A Ligabue mancano le sue montagne svizzere e la pianura padana non è la sua terra ma grazie alla pittura saprà creare dei quadri che sanno ricreare paesaggi ispirati dal fiume Po dove Ligabue amava rifugiarsi. Lontano dal paese immerso nella natura poteva fantasticare ed entrare in contatto con la sua parte più selvaggia, libera da ogni condizionamento sociale. Il viaggio inizia così e sarà un lungo tragitto che vedrà impegnato Mario Perrotta per tre anni, passo dopo passo attraverserà l’intera esistenza dell’artista a cui egli ha saputo restituire, con precisione e realismo interpretativo, tutta la sua potenza immaginifica, l’originalità del suo essere in relazione con l’altro, il diverso da noi, la genesi ancestrale che riconduce a qualcosa di sconosciuto per la civiltà progredita e la verità di uomo a cui mancherà sempre un bès. Un solo bès.

KLP - Krapp's Last Post

Un bès. Perrotta nel genio e nella pazzia di Ligabue

“Un bès… Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi”.

Dopo il debutto a Castrovillari per Primavera dei Teatri, e prima di arrivare ad Asti Teatro la prossima settimana, il nuovo spettacolo di Mario Perrotta è approdato a Milano nell’ambito della rassegna Da vicino nessuno è normale che, per merito dell’associazione Olinda, propone una ricca e interessante rassegna teatrale estiva nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, quest’anno fino al 14 luglio.
L’attore, regista e narratore leccese, ormai trapiantato nella periferia bolognese dal Teatro dell’Argine, dopo la trilogia sull’individuo sociale, dedica ora il suo interesse alla tormentata figura del pittore Antonio Ligabue.
Un bès rappresenta, anche stavolta, la prima parte di una trilogia che continuerà il prossimo anno con Svizzera e furore, cui si affiancherà la danza di Micha Von Hoecke, mentre nel 2015 si concluderà con l’happening Antonio sul Po, con più di 80 artisti provenienti da tutto il mondo per invadere, per una giornata, un vasto territorio intorno a Gualtieri, la cittadina nelle vicinanze di Reggio Emilia dove il pittore (all’anagrafe Antonio Laccabue) soggiornò e morì, espulso dalla natia Svizzera.
Anche stavolta un progetto a lungo respiro, dunque, che è iniziato già da tempo con un lavoro capzioso di preparazione che Perrotta ha composto attraverso studi, incontri, interviste, analisi e visite sul campo.
Nello spettacolo, Perrotta non racconta Ligabue ma è Ligabue, in un’immedesimazione totale di commovente fragilità. E lo fa sin dall’inizio, quando timido, esitante, si presenta tra il pubblico a mendicare un bacio.
Non è un racconto interpretativo lineare, il suo, come accade realmente nella “pazzia”; l’attore esce ed entra continuamente dalla parte, conferendo in questo modo un fortissimo risalto umano al personaggio.
E sarà appunto questo “Dam un bès” ad accompagnarci per tutta la performance, a sottolineare l’estenuato ed estenuante bisogno di amare ed essere amato, come al pittore accadde forse solo nella prima infanzia.
Nato in Svizzera, tredici giorni prima dell’inizio del Novecento, figlio di padre ignoto ma poi riconosciuto dal marito della madre, l’emigrante italiano Bonfiglio Laccabue, sarà affidato a Elise Hanselmann e al marito dopo la morte prematura della madre naturale, Elisabetta Costa.
Il primo omaggio è quindi a lei, a Mutter Elise. E’ uno dei momenti più toccanti dello spettacolo, quando sotto il suo viso, che ha appena finito di disegnare (Perrotta per tutto lo spettacolo dipingerà col carboncino), inizia a raccontare, anzi a vivere e a dipingere, l’infanzia di Ligabue tra le montagne svizzere, in mezzo alle bestie, amando quella madre che non gli è madre, ma che lo è immensamente di più, a soffrire per il distacco da lei per essere condotto al manicomio, ed ancora una volta da lei.
Ma Antonio Ligabue solo per poco ritornerà dalla sua “mutter” perché sarà costretto a 19 anni a lasciare la sua terra per Gualtieri, paese d’origine di quel genitore che lo ha riconosciuto per burocrazia, ma non per amore.
Strappato a quelle montagne, dovrà vivere in un mondo che gli sarà sempre ostile, che lo vedrà sempre come lo scemo del paese (“al mat, al todesch”), un uomo selvatico che si esprime metà in tedesco e metà in emiliano, che parla con le piante, che disegna donne nude sui tronchi degli alberi e che chi gli è vicino, schernendolo ogni volta, costringerà a vivere isolato per molti anni.
Qui, solo nel bosco, vicino al fiume, disegna con impasti che si costruisce da solo ciò che osserva: la natura, gli animali innanzitutto, finchè Renato Marino Mazzacurati gli farà conoscere colori a lui sconosciuti, facendolo diventare pittore a tutti gli effetti, e famoso con la sua prima mostra.
Perrotta scandisce tutti questi avvenimenti con un’immedesimazione totale, mai esteriore al personaggio, dipingendo in modo efficace le sue visioni su grandi fogli.
Lo accompagnano pochissime immagini proiettate, che fanno da fondale e, alla fine, un commovente filmato d’epoca, in cui forse quel bacio, a fronte di un piccolo mirabile disegno, verrà finalmente dato.

TeatroeCritica.net

Un bès di Mario Perrotta. La “vita di dietro” di Antonio Ligabue

«Se vi do un quadro, dopo voi mi volete bene?». Inizia poco prima, dalla platea contenuta del Teatro Valle Occupato all’apertura di stagione, il passo incerto del pittore Antonio Ligabue, detto Toni. Offre in cambio l’arte per una briciola d’amore, il pittore nato in Svizzera e tradotto nella provincia di Reggio Emilia, in quella Gualtieri dove oggi – guarda un po’ – è tornato vivo un antico teatro cinquecentesco, chiuso nel 1979 per problemi strutturali mai risolti e letteralmente “dischiuso” al pubblico da un gruppo di giovani pochi anni fa, convinti della folle idea di poterlo trasformare in un palcoscenico contemporaneo. La loro battaglia è ancora attiva, viva. In dialogo con le istituzioni dal 2005 stanno salvaguardando un piccolo gioiello in cui è conservata la cultura del Novecento (si invita a vedere qui alcune foto). O almeno ci stanno provando. Al fianco del Teatro Sociale Gualtieri s’è posto allora Mario Perrotta, attore e autore teatrale leccese che in Emilia con il Teatro dell’Argine ha costruito la sua fortuna e che con il Progetto Ligabue sta indagando la figura del pittore vivendoci dentro, non solo interpretando ma sviluppando in un percorso intimo la propria figura d’artista. Un bès, chiede Ligabue alla platea. In “un bès” è quel che serve – o appunto manca – a ché si sperimenti la mancanza, l’assenza dell’amore che fa l’uomo disumano e, quindi, artista. Ligabue è autore di opere coloratissime e altre graffiate, un istinto naïf governò il suo tratto arrabbiato a comporre quella privazione in sagome di bestie disperate come uomini e autoritratti bestiali, dentro paesaggi tinteggiati in forma di desiderio, in cui mescolate sono l’Emilia e la Svizzera, i suoi luoghi, la sua vita. Perrotta penetra la scena risalendo dalla platea, in un lungo coprente cappotto scuro che è tutto di lui, l’immagine nota, il corpo occluso da quel viso ispido, ossuto, quegli occhi in cui si vede compressa la sua necessità. «È permesso, do fastidio…», dice quasi fra sé appena sul palco, cerca attenzione ma insieme ha il timore di essere invadente, indesiderato. Ma ecco allora che tre anonimi pannelli sulle assi, appena voltati di fronte, quella necessità la svelano e la rivolgono verso lo sguardo altrui: spazio bianco, spazio per disegnare e misurare il contorno ai desideri. Prende un carbone Perrotta/Ligabue, di spalle inizia a segnare, graffiare il foglio. Inizia cioè a raccontare di sé. La narrazione in prima persona ha un forte connotato biografico e riporta il pittore fra le dolci colline verdeggianti dell’origine che sempre rimarranno anche nelle sue opere più aggressive come un paesaggio d’infanzia impresso in una memoria cellulare, avvolgente. Ligabue «nato con la vita di dietro», mai davvero capace a mostrarsi di fronte, meno ancora nei suoi autoritratti impauriti e tesi che nell’espressionismo violento della sua fauna contadina. Perrotta entra nei suoi abiti con umiltà e dedizione, disegna di spalle, dal vivo, quella “vita di dietro” in cui s’impresse il segno del pittore, quindi lo riproduce degnamente sviluppando quel tratto intimo come ne fosse tramite (e disegna oltretutto benissimo!). Il monologo che ne trae è soffiato via, affannato da un dolore inguaribile e rabbioso, la scena invece è composta di pochissimi elementi e forse, più che essenziale, si ha la sensazione che sia un po’ semplificata. Di una buona materia Perrotta fa racconto appassionato e probabilmente, suo unico e non grave peccato, si priva di un carico poetico e onirico più estremo, come non si fidasse di affondare l’incanto e così rivelare più dolcemente alcuni difficili snodi drammaturgici del testo. Ma la sua voce – esperimento riuscito in un dialetto acquisito – è ospite di voci del popolo, il paesaggio–paese tutto attorno a Ligabue per le sue parole prende forma, come fosse un suo quadro furente, come fosse il quadro del suo funerale durante cui gli invitati, giunti a dire il vero senza invito, vedono in una bara chiusa tutto ciò che è perduto e che hanno allontanato per l’intera vita, ciò che potevano essere e non sono stati, misurando così la brevità del loro sguardo che vedeva un matto, negli abiti sporchi di un genio.

Altrevelocità.it

Teatri d’oggi/Baci dalla provincia

La prima cosa che si nota, dopo le le ciminiere dell’Ilva, entrando nei dedali di viuzze del centro storico, osservando i palazzi fatiscienti di una “Taranto vecchia” che volendo restaurarla diverrebbe un gioiello, la prima cosa che si nota dopo queste e altre cose è il mare. Mare tutt’attorno però “impraticabile”, circondato com’è dal porto industriale e dalle acciaierie.
Startup Teatro è un coraggioso progetto che nasce e si sviluppa a Taranto, nella Puglia cha ha saputo far tesoro come pochi in Italia dei fondi europei di sviluppo regionale. Nasce grazie alla volontà del Crest, storica realtà teatrale della città, con la direzione artistica di Gaetano Colella e la collaborazione della rete di residenze “Una net”. Il sottotitolo recita “Generazioni tra le macerie”: spettacoli che spaziano con disinvoltura fra teatro, danza e performance, ma anche incontri per fare il punto sul mercato teatrale e sulle residenze. Sarebbe bello poterle riconoscere, le macerie. Vorrebbe dire che il crollo è avvenuto, significherebbe che non resta che provare a ricostruire. Invece di macerie se ne vedono, paradossalmente, “troppo poche”, convinti come siamo di navigare fra difficoltà che supereremo, chi stringendo ancora di più una cinghia sull’orlo di spezzarsi, chi sgomitando per preservare i propri privilegiati contratti foraggiati da soldi pubblici.
“In questo luogo desideriamo raccontare un teatro in grado di dialogare col pubblico”, diceva venerdì sera Colella aprendo il festival. E in quel “desiderio” potrebbe stare la chiave con cui guardare ai luoghi e alle loro evoluzioni. Siamo nel quartiere Tamburi, a ridosso dell’Ilva, quartiere esposto alle polveri del piu’ grande centro siderurgico d’Europa, nella città più inquinata d’Italia. Cosa cerca un teatro che nasce qui? Cosa chiede ai cittadini, e cosa si chiede? Per prima cosa, e ci sembra già molto, non è un teatro che festeggia: non ci sono aperitivi in foyer luccicanti, non ci sono dj set. Sembra invece esserci appunto il desiderio, la fame di vedere, forse di capire. Allora vale la pena, per una volta, provare a raccontare le opere con la lente del luogo che le ospita, in cerca di risonanze in grado di parlarci dell’oggi. Appunti di un diario in vista di discorsi più complessivi.
La danza di Virgilio Sieni sembra il giusto prologo per un festival siffatto, (…)
Rock Rose Wow di Daniele Ninarello è una partitura per tre corpi su un fondo elettronico ritmico (…)
Mario Perrotta entra quando il pubblico è già assiepato nella seconda sala del TaTÀ, chiedendo un bacio, Un bès, ai presenti. La voce si trascina in un impastato dialetto emiliano, la postura si disarticola per seguire le accensioni del protagonista, il suo destino di genio del disegno e di scemo del villaggio. Fogli verticali si riempiono di filiformi sagome disegnate dal vivo: una figura femminile, i contorni di un paesaggio. Così Mario Perrotta diviene il pittore Antonio Ligabue: senza interpretarlo, ma facendo in modo che il teatro sappia farsi carico di una storia. Perrotta riesce a manifestare di fronte a chi guarda un personaggio, come se Ligabue fosse lì di persona, come se il pittore si potesse presentare al pubblico. Una sospensione dell’incredulità che appartiene ormai a un teatro “classico”, e per questo oggi così difficile da fare accadere.
Tornando nella sala grande (…)

Il Tamburo di Kattrin

A Primavera dei Teatri: tra dialettica collettiva, Perrotta e Latini

C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. […]
A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. […]
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. […]
Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere… Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto. […]

Quarta parete

Di ritorno da Castrovillari: diario di giorni di teatro

Cinque giorni di festival, tredici spettacoli e tanti incontri, conversazioni, piatti di imperdibili pietanze, allegria e occasioni per conoscere e conoscersi. I più vecchi con i più giovani. Scambio di saperi e nuove idee. A “Primavera dei teatri” lo spazio si dilata e le ansie di un tempo difficile si rispecchiano in spettacoli rapidi che a volte colpiscono al cuore. Non tutti. Non per tutti. Non a tutti. E va bene così. Gli spettacoli che nascono a Castrovillari a volte sono ancora imperfetti. Poi si rimane a parlare e discutere, per capire il perché, il se, il ma, il si, il no. Un Festival è anche questo […]

Dirò ancora del complesso percorso che Mario Perrotta per il Teatro dell’Argine compie nel suo Un bès. Antonio Ligabue, bel racconto pieno di emozione, per dire di un dolore infinito e un desiderio inesausto d’amore e tenerezza. E forse troppo evidente sovrapposizione, o identificazione dell’attore con il pittore che per tutta la vita chiede un bacio e non lo riceve. Primo movimento di un più lungo percorso a venire in tre spettacoli, gioca con memorie vere e lontane. Ma Perrotta è bravo e ci crede in quel suo pittore ostinato, solitario e triste, come per un regalo d’attore che quasi ci convince. […]

Teatro di tendenza, corpo, parole, emozioni rimescolate per un probabile linguaggio del presente. Quanto è in crisi il teatro? A “Primavera dei teatri” ci si illude, per qualche giorno, che non ci sia poi davvero una crisi.

Bassanonet

L’umanità ferita di Ligabue

Il quinto appuntamento con Operaestate Festival ha portato in scena al Teatro al Castello Un bès – Antonio Ligabue. Sul palco Mario Perrotta, artefice di un progetto suddiviso in tre parti intitolato Progetto Ligabue, dedicato all’artista e all’uomo, alla sofferenza di Toni e al genio di Ligabue. Lo spettacolo, prodotto da Teatro dell’Argine — realizzato in collaborazione con Paola Roscioli per la regia e con Riccardo Paterlini per la ricerca — attore e progetto sono stati premiati in più occasioni, la prima al debutto nel 2013 con il Premio Ubu a Perrotta, come migliore attore.
Qualche timore per le nuvole scure che hanno portato un po’ di pioggia attorno all’orario dell’appuntamento, ma asciugate le sedie il pubblico ha potuto assistere senza disagi allo spettacolo, il disagio vero di un uomo speciale tutto rappresentato sul palcoscenico.
Perrotta-Ligabue entra in scena dalla platea, dal basso, e chiede implorando un bès, un bacio, negli occhi e nei gesti oltre che nelle parole i marchi a fuoco di una sofferenza di quelle che non guariscono certo con un bacio, ma che una qualsiasi dimostrazione d’affetto potrebbe almeno lenire. Il monologo prosegue in una scena nera, dove si distinguono tre pannelli/tele muniti di rotelle che li faranno anche danzare in un valzer e che aiuteranno a raccontare la parabola di Ligabue dalla nascita alla morte, nel mezzo un’esistenza minata dal rifiuto e dalla frustrazione.
La drammaturgia dà voce soprattutto all’ossessione, ai tratti stranianti, al dolore e al desiderio di amore di Antonio, la sua genialità è incarnata dai disegni che Perrotta esegue con maestria col carboncino sui fogli bianchi. Per prima si anima la giovane madre che l’ha abbandonato, in Svizzera dove Ligabue nacque tredici giorni prima dell’inizio del ‘900, con una manciata di ore che lo tirano per i capelli in un secolo ormai raffermo, invece di accoglierlo sulle ali del vento nuovo, nel nuovo secolo. Neanche un bacio, già da lì. Tra le montagne appuntite, è custodito da una mutter, Elisa, che non dà baci per non affezionarsi troppo ma vuole bene al bambino difficile, che la adora. È il momento anche dei primi segnali di comportamenti che deviano dalla norma e che da subito lo porteranno a conoscere la solitudine e il dileggio. Perrotta parla d’amore alla Elisa tratteggiata alle sue spalle accasciato a terra, un Cristo sdraiato tra le braccia della Pietà, ma non c’è pietà nella comunità di finzione che si vede minata dall’approdo di un diverso.
L’interprete cerca di restituire lo strazio di una mente vacillante e di un corpo sradicato con un periodare ossessivo, ripetitivo, con un andamento a tratti inceppato a tratti impetuoso, fluviale. Il fiume, il Po, Antonio ribattezzato Laccabue lo conoscerà quando sarà trasferito a Gualtieri paese d’origine del padre che decide di riconoscerlo formalmente, non per amore. Dovrà lasciare le sue montagne, picchi e abissi torneranno vividi anche sulle rive piane del Po e tra i suoi pioppeti, soli testimoni per tanto tempo della produzione di gran parte dell’opera per cui Ligabue sarà celebrato. Italiano, Tedesco e dialetto raccontano come in un caleidoscopio rotto Toni, lo scemo del paese (“al matt, al todesch”), oggetto di scherno e cattiverie ma così bravo a disegnare. Perrotta lo fa agitare senza tregua in una gabbia di sofferenza e di solitudine, dove il solo conforto sembra essere l’idea delle donne che potrebbero lenire tanto dolore — magari Ines — sono le uniche che potrebbero donarlo, quel bacio che non sarà dato. Ma l’isolamento gli consentirà di dare forma alla sua arte, che Ligabue si rende conto essere speciale, seppure solo quando avrà sessant’anni sarà conosciuta e riconosciuta e lo eleverà da quel sistema che l’aveva confinato ai margini, che aveva stigmatizzato la sua estraneità — nessuna immagine a evocare come un marchio i suoi dipinti nello spettacolo bassanese.
Perrotta si spende senza riserve, il suo monologo assillante dove il dolore e l’instabilità sono un basso continuo riesce a farlo sentire, quel fastidio che non si vorrebbe/dovrebbe sentire. A fine spettacolo ringrazia il pubblico, perché recitare dal vivo è un’altra cosa e solo da pochi giorni ha ripreso a farlo.
Caldi applausi, dal pubblico di Operaestate.

L'Unione Sarda

Ligabue, il matto che disegnava la voglia d’amore

Un bès magistrale lavoro allestito nei giorni scorsi al Ridotto del Massimo per il cartellone del Teatro Stabile di Sardegna. Dove l’attore recita di spalle. Davanti a una tela.

Lo chiamavano Al Matt, strano, era strano, il Toni, con quella faccia storta e i modi bruschi. Colpa di una vita grama fin dalla nascita, a Zurigo nel 1899, figlio di padre ignoto e di una madre morta presto. Antonio Ligabue di suo non aveva neanche il cognome. Quello anagrafico, Laccabue, glielo aveva dato il patrigno. Uomo odiato quanto amata fu dal ragazzino difficile la madre adottiva Elise Hanselmann. Ebbe la sua prima crisi nervosa e il primo ricovero nel 1917. Espulso dalla Svizzera, fu mandato a Gualtieri, paese della bassa reggiana, nel 1920. Non parlava italiano, si esprimeva in Schweizerdeutsch, dialetto alemanno. Dormiva nei boschi, imitando i versi degli animali. Irriso da tutti per la sua testa deforme, la sua corporatura rachitica. Sugli argini cominciò a modellare con l’argilla forme di scimmie e di mucche.
Fu Renato Mazzacurati, della Scuola Romana, a fargli conoscere i colori a olio coi quali dipinse il suo famoso bestiario, aquile, leoni, serpenti, giraffe, creature mai viste tra i pioppi della pianura. La fauna esotica la scoprì sulle figurine Liebig, sull’unico libro che possedeva – un trattato di Scienze Naturali – e nei film di Tarzan, che seguiva disturbando gli astanti con grugniti e ruggiti. “Era infilato in un pastrano da carabiniere rigonfio di fieno e legato con le corde”, raccontò Mazzacurati.
“Lessava un gatto su un fornello di mattoni”.
Con un simile pastrano addosso si presenta Mario Perrotta, protagonista di Un bès magistrale lavoro allestito nei giorni scorsi al Ridotto del Massimo per il cartellone del Teatro Stabile di Sardegna. Prende il pubblico alle spalle, questo autore che ha vinto il Premio Ubu 2013 come migliore attore e il Premio Hystrio 2014 per uno spettacolo prodotto dal Teatro dell’Argine con i contributi di Paola Roscioli, Riccardo Paterlini, Luigi Burroni e Stefano Salerno.
“Lo faccio con la precisa intenzione di chiamare in causa le persone e far capire che quel che succede agli altri ci riguarda”, dice Perrotta. Fatto sì è che gli spettatori hanno seguito con totale adesione la ricostruzione di una vicenda umana di un artista a torto definito naif. Era altro Ligabue, era un solitario appartenente alla schiera degli indefinibili, un essere che riversava sui quadri il suo desiderio d’amore. Perrotta disegna incessantemente col carboncino, mentre recita con alto dispiego di energia fisica.
Mette su un monologo che in realtà è una serie di dialoghi con Mutter Elise, i compaesani, i medici che gli spiegano il suo caso, una centralista cui subito propone di sposarlo. Ein, zwei, drei….Perrotta/Ligabue conta le facce che stanno a guardarlo e ognuno si sente interpellato.
L’atto unico si chiude su un fotogramma del documentario di Andreassi girato nel 1962. Il pittore che ormai, dopo una mostra alla Barcaccia di Roma, era famoso e aveva i soldi per comprarsi le Guzzi rosse è ancora lì, al punto di partenza, a elemosinare un bacio da una donna che si schermisce. Nelle immagini precedenti lo si vede davanti a un autoritratto che non riesce a finire. Mugola, piange, fa smorfie.
Perrotta ammette di provare tenerezza, per quest’uomo brutto e selvaggio che aveva nelle tasche le caramelle per i bambini.

Parmaonline

“Un bès” per l’artista Antonio Ligabue

A Gualtieri gli spettacoli nel Teatro Sociale hanno aperto una serie di iniziative per le celebrazioni dei 50 anni dalla morte del grande artista

GUALTIERI (Reggio Emilia) – “Mi dai un bacio? Dam un bès?” E’ così che Mario Perrotta, nei panni di Antonio Ligabue, entra quasi sottovoce in platea, nella cornice suggestiva del teatro sociale di Gualtieri dove è andato in scena: Un bès – Antonio Ligabue, (collaborazione alla regia Paola Roscioli, collaborazione alla ricerca Riccardo Paterlini). Un dialogo che è anche monologo alla ricerca dell’affetto, del contatto umano che mancò al pittore naif delle rive del Po. “Dam un bès” diventa un refrain ripetuto fino all’esaurimento: la ricerca spasmodica di umanità e di contatto con l’altro. Un aspetto che ci aiuta a inquadrare l’uomo Ligabue, nelle vicissitudini che hanno contraddistinto la sua vita: dalla nascita in Svizzera, all’abbandono della madre, attraverso le persecuzioni personali, per arrivare alle campane che rimbombano nella sua immaginazione fino a farlo diventare quasi pazzo in manicomio. E poi, l’approdo a Gualtieri, dove Ligabue si ritrova dopo che le autorità elvetiche lo hanno espulso. Una rappresentazione sul filo della memoria e del coinvolgimento emotivo che Mario Perrotta riesce a trasmettere ad un pubblico che a poco a poco vorrebbe darglielo davvero un bacio, per porre fine alle sofferenze di un uomo, Ligabue, che è prima di tutto un artista emarginato. E Perrotta alla parola, al movimento ed all’espressione aggiunge anche l’arte, un’arte ridotta a un gessetto nero con cui traccia su grandi fogli bianchi i momenti salienti della vita di Toni, votata alla solitudine al dialogo che si riduce a quello con la natura, gli animali, il fiume, ma non con gli uomini. E’ un grande affresco quello che si ha al termine dello spettacolo: la parabola di un uomo attraverso un’indagine che trae spunto dalla realtà vissuta di Gualtieri, dalla sua gente, dal mondo che è stato quello di Liguabue. La lingua, con l’uso del dialetto, ne è una testimonianza. Un bès – Antonio Ligabue rientra nel Progetto Ligabue in vista del cinquantesimo anniversario della morte che si celebrerà nel 2015, per saperne di più ecco il sito del Progetto Ligabue: www.progettoligabue.it

Quotidiano di Puglia

Perrotta, commozione e applausi

Un Paisiello strapieno ha tributato lunghi applausi, sabato sera a Lecce, a Mario Perrotta, l’artista leccese vincitore del Premio Unu come miglior attore dell’anno, ospite della stagione di prosa del Comune con lo spettacolo Un bès – Antonio Ligabue. Con un’interpretazione intensa e commovente, ha fatto rivivere il pittore emiliano, lo scemo del villaggio a cui nessuno diede mai un bacio, né la madre adottiva, né le donne di vita dei bordelli, che lo scacciavano perché era sporco. L’attore leccese, bolognese d’adozione, ha disegnato (anche sorprendentemente bene) quasi per tutto il tempo del monologo recitato nella lingua del “Toni”, un idioma misto di dialetto reggiano e tedesco: questo è, infatti, il primo spettacolo del repertorio di Perrotta non in salentino. Ugualmente tutto esaurito e tanti applausi, infine, anche ieri sera al Nuovo Cinema Paradiso di Melendugno, dove Perrotta ha riproposto La Turnata.

Il Pickwick

Le voci di Anton

Sul fondo tre pannelli che simulano muri con mattoni di vetro. A destra un tavolino basso. A luci ancora accese l’attore, con indosso un cappotto, entra in mezzo al pubblico e chiede un bacio, un bès. “Mi date un bacio e un momento di bene”, chiede insistentemente in dialetto emiliano e in tedesco. L’effetto spiazzante dura poco ma fa il suo effetto: sembra un vero emarginato che osa entrare là dove ogni brava coscienza civile accetterebbe qualsiasi diversità solo se sta buona in silenzio. Poi lo smarrimento passa, e si rientra nella codificata pratica della fruizione teatrale. “El matt” parla tra sé e sé e si rivolge al pubblico, lo conta: “uno, due, tre… tredici, trèdes!” e ricomincia fermandosi al fatidico numero.
Dopo un po’ sale sul palco e calano le luci.
Gira il pannello (su rotelle come gli altri due) di sinistra: dietro vi è un grande foglio di carta, e comincia a disegnarvi con il carboncino.
Poi gira il pannello centrale e lo affianca al primo: su di essi disegna un paesaggio ed anche un grande volto femminile.
Nato il 18 dicembre 1899, recrimina alla madre di non averlo fatto nascere il 1° gennaio 1900, e per questo continua a ripetere quel tredès ossessionante.
La metamorfosi di Mario in Antonio, o Anton (alla tedesca) comincia bene e prosegue meglio. Spettacolo ormai ben rodato questo Un bès. Antonio Ligabue, che ha visto la luce due anni fa, apprezzato da critica e pubblico, tanto da assicurargli il prestigioso Premio Ubu come migliore attore quello stesso anno, e l’altrettanto importante Premio Hystrio-Twister come miglior spettacolo a giudizio del pubblico l’anno successivo.
Un progetto che ha coinvolto tantissimo l’autore e attore salentino, il quale ha perseverato nell’idea di rappresentare e far rivivere l’affascinante figura del pittore – svizzero di nascita ed emiliano d’adozione – che il grosso pubblico conobbe e apprezzò grazie all’indimenticato sceneggiato televisivo della Rai (nel 1978, una delle prime trasmissioni a colori che ricordi) e che rese popolare l’intenso Flavio Bucci nei panni del protagonista. Da allora la cultura nazionalpopolare italiana ha cominciato a valorizzare la pittura naïf (termine quantomai fuorviante in generale e specialmente nel caso del Nostro, dato che la sua pratica pittorica, il suo segno distintivo, scaturiscono da un’istintualità e da un dramma profondi, urgenti, compulsavi, vitali, che non hanno nulla della pittura che diletta, come sensibile passatempo, gli artisti della domenica).
Nel 2014 Perrotta ha dato vita ad un ideale seguito, o meglio ad una ripresa dell’argomento nella pièce intitolata Pitùr, dove è affiancato da altri attori che fanno da coro e visioni alle sue riflessioni. Nel 2015 è la volta dell’atto finale del Progetto Ligabue. Nel maggio di quest’anno l’autore-attore ha organizzato un vero e proprio happening collettivo, coinvolgendo centinaia di persone, tra attori, musicisti, danzatori, performer, tecnici e assistenti vari, utilizzando tre percorsi-set (ognuno curato da un regista diverso) che rappresentano tre luoghi emblematici per il pittore: l’itinerario da Guastalla (paese del padre adottivo, da lui ingiustamente accusato di aver provocato l’avvelenamento della madre e di tre fratelli – tanto da spingerlo a cambiarsi il cognome da Laccabue a Ligabue) a Gualtieri, comune dove poi visse; il padiglione Lombroso dell’ex manicomio di Reggio; un percorso lungo l’area golenale di Guastalla. Tutto racchiuso nel nome Bassa continua: Toni sul Po. Manifestazione che ha interessato più luoghi, più tempi, che ha richiesto all’ideatore uno sforzo organizzativo notevole, degna conclusione di un progetto multimediale e polimorfo, tale da spingere i giurati del Premio Ubu 2015 ad assegnargli la vittoria nella categoria del “miglior progetto artistico/organizzativo”. E con quest’ultimo riconoscimento (di pochi giorni fa) i Premi Ubu collezionati da Perrotta sono ben tre (il primo nel 2011, premio speciale per la “Trilogia sull’individuo sociale, del quale coglie la disgregazione nel mondo contemporaneo”).
Dicevamo di questi disegni tracciati con tratto sicuro e fermo: Perrotta si dimostra capace di emulare el todesch anche nei gesti creativi (il pubblico apprezza gli schizzi lasciati sul palco e se li porta via). Anche se è il delirio di parole, lingue, intercalari, ripetizioni che lo identifica maggiormente con l’incompreso maestro. Più che una ricerca della perfezione mimetica, Perrotta mette in scena i tormenti di una voce, di una consapevolezza, di un pensiero. Di una mente che è abitata dagli umori e dalle voci degli altri, di chi interagisce con lui. La voce della madre che lo abbandonò a un anno, della donna svizzera a cui fu affidato, degli insegnanti che lo classificarono, dei concittadini che lo schernirono. Azioni che scandiscono le tappe di una vita, di un resoconto straziante e lucido interrotto dalle continue richieste di baci, di calore, di considerazione. Per cui allontana il pannello con sopra il volto della madre e spiega che viene affidato ad una famiglia svizzera. Nel frattempo la madre sposa un emigrato italiano, Bonfiglio Laccabue, e l’uomo lo legittima, dandogli il suo cognome. Inveisce contro il patrigno e viene riaffidato alla coppia elvetica. Ama la madre adottiva, Elise Göbel, confessando al pubblico che “Io ce l’ho uno che mi vuole il ben del mondo…” e poiché non si riferisce alla madre naturale, cancella una lacrima che prima le aveva dipinto sul ritratto.
“Laccabue, schif!”, a segnare il rifiuto di chi lo ha abbandonato per tornare in Italia. Dipinge il volto della mütter, della donna che lo ha in affido e alla quale si rivolge rievocando la sua storia: a due anni Antonio va a giocare con le bestie, e ciò spiega in parte la ragione della sua fascinazione per gli animali. Chiede alla mütter di dargli un bès, ma costei rifiuta, e subito dopo le dice che a scuola è stato giudicato debole di mente e che è stato messo nella classe dei ripetenti, dei bambini “speciali”.
Anton ora ha tredici anni e sa di dover andare in istituto (la silhouette della madre adottiva compare sul fondo in alto a destra).
Torna in famiglia e chiede se deve andare via. A diciassette anni è costretto ad andar via davvero, in manicomio: sente le campane in testa. Qui, in cella, riconoscono la sua abilità pittorica.
Completa il ritratto della mütter: è tornato dal manicomio, e si accascia ai piedi dell’opera. Implora un bacio alla matrigna e inveisce contro di lei, minacciando di fuggire di casa.
Viene espulso dalla Svizzera: “Niente più Svizzera, niente più tedesco”. Strappa il foglio con sopra il ritratto della mütter e lo getta via.
È in Italia. Viene condotto a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, paese di origine del patrigno Bonfiglio Laccabue (in sottofondo musica con la fisarmonica).
Dipinge contemporaneamente su i tre pannelli e dà voce ai paesani. Dipinge tre facce grottesche.
Gli altri lo prendono in giro perché parla poco, perché è strambo, perché è el matt.
Ha trent’anni e sul tronco di un albero disegna una donna nuda simile ad una certa Ines, la quale si adira con lui. Per questo decide di non dipingere più nudi di donna.
Poi una notte disegna maiali nella piazza del paese, un gesto intollerabile per i suoi aguzzini che lo fanno oggetto di scherzi crudeli.
Sullo sfondo viene proiettata l’immagine di una foresta: Ligabue è nella foresta di pioppi, in riva al Po, dove vive lontano da quell’umanità che detesta. Gli anni passano e il progresso avanza: arriva il telefono nella Bassa, così, dopo che si è accostato ad un apparecchio telefonico appeso a un palo, definito “la pioppa parlante”, comincia un dialogo con una centralinista. È lei la nuova interlocutrice, l’oggetto del desiderio che ascolta la sua storia, a cui descrive le bestie che osserva (e l’aquila che ghermisce la preda). Le racconta che l’artista Marino (Renato Marino Mazzacurati) lo ha invitato al suo studio e che gli ha dato i colori per dipingere: così ha scoperto il bianco, il blu, il giallo, ma questa inaspettata amicizia non lo ha salvato da un nuovo ricovero in manicomio.
Strappa un ultimo telo: dietro c’è uno specchio in cui si guarda per non perdersi, per rassicurarsi di essere sempre Toni, nonostante le voci che lo tormentano, e il rumore della vita che non smette mai di rimbombargli in testa.
Perrotta costruisce sapientemente la progressione drammatica dei dialoghi con i fantasmi che abitano la mente di Ligabue, esasperando la tensione fino ad una parola urlata che prelude alla pausa, al silenzio, prima di innescare un nuovo disperato cortocircuito. La capacità di affascinare, di catturare l’attenzione, le tecniche affabulatorie non danno mai l’impressione di servire all’attore per fare sfoggio delle sue capacità, per strappare l’ammirazione e l’applauso, rischio cui vanno incontro i lavori costruiti su performance soliste. La sua è un’adesione partecipata, sentita, funzionale all’urgenza alla base della rappresentazione. Nei suoi sguardi non c’è spazio per il sottile sarcasmo di tanti moralisti. C’è solo un implorare sincero, diretto, una richiesta indifferibile, un grido incontenibile: “I dam un bès!”.

Teatrionline.com

Un bès. Antonio Ligabue” di Mario Perrotta

Un bés. Antonio Ligabue, spettacolo pluripremiato che ha debuttato nel 2013, costituisce la prima parte di una trilogia dedicata da Mario Perrotta alla figura ormai leggendaria di Antonio Ligabue, la cui scoperta e rivalutazione, dagli anni ’60 in poi, è andata oltre l’aspetto della sua produzione artistica per una considerazione più ampia della sua vicenda esistenziale ed umana.

Ed è proprio quest’ultimo il punto di vista adottato dall’attore salentino che ripercorre le tappe principali della travagliata vita del pittore-scultore naif dando la priorità al suo disperato bisogno di amore che si ripropone come una costante dello spettacolo sin dall’inizio quando il protagonista chiede inutilmente ad alcune signore del pubblico un bès, un bacio,”ma sulla bocca”. Dagli esordi dell’infanzia e adolescenza in Svizzera col traumatico passaggio dalla madre naturale (italiana) a quella adottiva (svizzera di lingua tedesca); al soggiorno a Gualtieri alternando permanenze in case contadine o di amici artisti, manicomi, capanne nel bosco o in riva al Po, fino all’ultima fase del riconoscimento artistico e della malattia, si rinnova la tragedia esistenziale di Ligabue da cui scaturisce l’ispirazione e la produzione artistica che Perrotta, con felice intuizione, riproduce direttamente sul palco, con l’ausilio di tre lavagne mobili sui cui fogli bianchi disegna col carboncino le figure e i paesaggi fondamentali della vicenda del nostro: la madre naturale accusata di averlo messo al mondo nel momento sbagliato (negli ultimi giorni cioè del XIX° secolo) e di averlo poi abbandonato; la madre adottiva, intensamente amata e dolorosamente lasciata per il forzato trasferimento in Italia; la gente di Gualtieri che lo prende in giro anche crudelmente per la sua diversità e compromette il suo corteggiamento a Ines; una lavandaia che, sensibile alle sue richieste d’attenzione e di affetto, inizialmente non fugge da lui. Rimangono interlocutori solo verbali la centralinista, a cui Ligabue racconta della sua vita nel bosco, il pittore Marino (Mazzacurati) che sostiene la sua attività e affermazione artistica; e anche gli animali, così importanti nell’immaginario di Ligabue, sono solo citati all’interno del racconto delle proprie vicissitudini. Perrotta preferisce far interagire il suo personaggio con le figure umane che viene ricreando sul grande foglio-tela con tratti decisi e sicuri; e sono molti i momenti toccanti in cui i disegni diventano interlocutori muti ma espressivi del rapporto di odio-amore (con la madre e con le figure femminili) o di dialogo-esclusione con la gente del paese; rapporto che si conclude sempre con la distruzione del disegno stesso, ennesima traumatica ferita di un percorso esistenziale fallimentare. Il possibile riscatto artistico rimane in ombra, sempre compensatorio, insufficiente e parziale, lasciando il posto all’affascinante rappresentazione in fieri del cortocircuito Arte-Vita, in cui il Bello nasce e si brucia in un vortice di Follia che appartiene più al Mondo che al soggetto disturbato e disadattato.

Perrotta si colloca così nel solco della tradizione interpretativa del personaggio segnata dalla memorabile prova attoriale di Flavio Bucci, nello sceneggiato televisivo del 1977 con la sceneggiatura di Cesare Zavattini e la regia di Salvatore Nocita. Di Bucci Perrotta riprende, nella raffigurazione del disagio del malato-diverso in rapporto conflittuale con gli altri, la corrispondenza della partitura gestuale e di quella verbale entrambe contraddistinte, nelle loro specificità espressive, da rigidità, concitazione ossessiva, brusche interruzioni, repentine riprese, pause meditative o di accumulo-scarico della tensione, a seguire il complesso svolgimento delle dinamiche interiori e di pensiero del protagonista. Un apporto originale Perrotta lo dà nelle fasi in cui il “matto” si rapporta alle figure affettivamente più significative: la Mutter, come chiama la mamma d’adozione, la lavandaia, o la gnorina, appellativo confidenziale della centralinista. Qui l’eloquio e la fisicità si fanno più distesi, spontanei, naturali e la dolcezza della creatura alla ricerca di affetto è semplicemente disarmante, come nella elegiaca scena in cui Ligabue bambino sorridente e ingenuo chiede più volte un bacio all’amata Mutter. Il pubblico, inizialmente sorpreso e disorientato dalla ferma e sentita richiesta del bacio con cui Perrotta-Ligabue ha inaugurato la serata partendo dalla platea, ha tributato alla fine all’attore un lungo meritato applauso, accompagnato da acclamazioni di elogio, dando libero sfogo alla commozione e testimoniando la propria immedesimazione nel triste ma umanissimo destino del protagonista.

Teatro.it

Antonio Ligabue rivive in scena, tra arte e follia

Antonio Ligabue entra in scena dalla platea a luci accese e chiede un bacio “Un bes…” alle donne presenti, occhi da bestia ferita, atteggiamento dimesso, passo incerto. Mario Perrotta inizia lo spettacolo mettendo subito in contatto il pubblico con la dolorosa interiorità dell’artista, dell’uomo Antonio Leccabue, un’umanità minata fin dalle fondamenta per il rifiuto della madre di tenerlo con sé fin dalla nascita. Tutto il monologo è la parabola diretta e totale della vita dell’artista, dalla tenera età fino alla sua dipartita, passando per l’istituto, il manicomio, la vita a Gualtieri, la decisione di vivere nel bosco isolato dal mondo, alla notorietà, sempre con quel desiderio frustrato di essere amato.

Perrotta in scena incarna nel corpo, nello sguardo, nei gesti, nella parola la figura mirabile del disagio di Ligabue, le sue ossessioni, il periodare monologante ripetitivo, i silenzi siderali, trasmettendo con una naturalezza impressionante il segno folle del carattere del pittore autodidatta, le sue sofferenze, il suo andamento tempestoso. Una drammaturgia cruda e intensa, un parlare diretto con le frasi, le idee, le modalità distorte del genio sregolato, fra italiano e tedesco nella parte infantile fino al dialetto nell’età adulta, un percorso narrativo che trova soluzioni mirabili per connettere lo sviluppo dei fatti e far comprendere il grande bisogno di amore e di affetto di Ligabue, straziante metafora artistica e umana.

La scena è vuota e accoglie solo tre strutture a rotelle su cui sono installate fogli di carta di due metri per un metro e mezzo su cui l’attore a carboncino disegna gli ambienti, i personaggi, i volti dei protagonisti della biografia dell’artista: la madre biologica e la mamma adottiva, gli abitanti crudeli di Gualtieri, i paesaggi della sua infanzia. Perrotta recita, racconta, disegna, si muove sulla scena portando nel tempo e nello spazio la vicenda umana di Ligabue, vivendola in totalità con profondo sentire, trasmettendo la sofferenza straziante dell’artista: un incontro profondo che tocca ogni spettatore.

Spettacolo preciso, ottimamente scritto e realizzato fra disegni, luci, videoproiezioni e la parola e l’essenza dell’attore che trascende la scena per portarci qui e ora la parabola dilaniante di un uomo sofferente che voleva solo essere amato.

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