Mario Perrotta

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Milite Ignoto – quindicidiciotto – Teatro Argentina (Roma) Una serata unica non solo per la data, un’occasione nella quale il teatro dimostra tutta la sua vivacità dove l’attore diventa protagonista assoluto, superando il testo, peraltro credibile. Sono la voce più che la lingua, l’espressione più che il gesto, l’emozione più che il movimento a dominare […]

Milite Ignoto – quindicidiciotto – Teatro Argentina (Roma)

Una serata unica non solo per la data, un’occasione nella quale il teatro dimostra tutta la sua vivacità dove l’attore diventa protagonista assoluto, superando il testo, peraltro credibile. Sono la voce più che la lingua, l’espressione più che il gesto, l’emozione più che il movimento a dominare la scena, unica, fissa, tono su tono con una luce centrale che scende e sale di intensità. Poderosa l’interpretazione del solista con un testo difficile, una sorta di lingua inventata, che balbetta e torna sillabando per una prova inedita di integrazioni tra le genti diverse che appartengono ad una patria: nome vuoto per chi è milite ignoto, ovvero straniero a se stesso. Prospettiva inedita, non solo perché narra storie e non la storia, ma per l’angolatura. Un sottobosco di emozioni filtrate attraverso il corpo che con il suo dolore diventa protagonista, che guida quel che resta della mente straniata dall’orrore della guerra.

Il Teatro di Roma ha accolto nell’ambito del suo progetto Guerre/Conflitti/Terrorismi, lo spettacolo di Mario Perrotta ispirato alle testimonianze dei soldati della Grande Guerra, Milite Ignoto – quindicidiciotto, andato in scena giovedì 17 settembre al Teatro Argentina per una serata unica e commemorativa. L’evento, in collaborazione con la Struttura di Missione per gli anniversari di interesse nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha inaugurato il Premio Pieve Saverio Tutino organizzato dall’Archivio diaristico nazionale e riservato alla raccolta di memorie, diari epistolari e scritture autobiografiche inedite degli italiani.

Riannodando i fili della Storia con una lingua d’invenzione che impasta tutti i dialetti del nostro Paese, Mario Perrotta racconta il primo, vero momento di unità nazionale, esperienza umana e politica, prima ancora che militare. Una guerra assurda che i veri protagonisti, i soldati delle trincee, vivono come estranea, così come un nome vuoto resta la patria, concetto freddo catapultato dai generali sui povere militi, per lo più ignoti. Tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra, i diari raccontano a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, lo spettacolo riporta in teatro l’eco lontana delle voci e delle sofferenze dei soldati della Prima Guerra Mondiale che si incontrano in trincea, metafora della perdita di identità di un popolo disgregato nell’immane massacro. Il testo merita attenzione per la lingua che sembra formarsi in diretta sulla scena, dal balbettio iniziale a quel fluire con un fenomeno di dissolvenza sonora e un continuum di dialetti che mimano quella folla umana confusa e indistinta per i più, nella quale ogni uomo ha il suo timbro inconfondibile, l’unica nota identitaria che resta annegata nella melma, spesso nella nebbia e in mezzo a quel freddo così intenso che il nostro eroe continua a sentire a distanza di tempo.

L’attore è poderoso nella sua interpretazione, riempiendo da solo la scena con un esercizio che è a sua volta una prova di valore e di volontà: un ritmo incessante di parole per un’ora e un quarto. Il corpo resta ancorato al palcoscenico come prigioniero di quel fango che racconta mentre le sue braccia anelano a un volo, il petto si apre e la voce trionfa. Nulla di celebrativo, solo il grido di dolore di chi non ha magari nemmeno una lapide. Uno spettacolo sulla memoria di coloro che nessuno piange, che non hanno magari neppure una tomba alla quale portare un fiore.

Proprio nelle trincee di sangue e fango del primo conflitto mondiale veneti e sardi, piemontesi e siciliani, pugliesi e lombardi si conoscono e si ritrovano vicini per la prima volta, accomunati dalla paura e dallo spaesamento. Una condizione che diventa una vero e proprio straniamento: come quel silenzio interiore che il protagonista sente forte, un vuoto di memoria – non ricorda più neppure se ha una famiglia e in quale paese sia: sa solo di essere al nord e della presenza di un fiume – ché il botto è stato troppo forte. Eppure è questo l’ultimo evento bellico in cui il milite ebbe un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi il milite divenne “ignoto”, dimenticato in quanto essere umano con un nome e un cognome, un volto e una voce. E’ ignoto perché un numero dimenticato, ma è ignoto come racconta anche a se stesso, straniero, alienato.

Nella prima guerra mondiale, gradatamente, anche il nemico diventa “ignoto”, perché non ci sono più campi di battaglia per i “corpo a corpo” dove guardare negli occhi chi sta per colpire a morte, ma ci sono trincee dalle quali partono proiettili e bombe anonime, senza un volto da maledire prima dell’ultimo respiro. Un conflitto spersonalizzato in cui gli esseri umani coinvolti diventano semplici ingranaggi del meccanismo e non più protagonisti eroici della vittoria o della sconfitta. Così, seduto su sacchi da trincea, tra il fetore del sangue e della carne, Perrotta racconta le piccole storie, gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto quei tragici eventi per gettare altra luce sulla grande Storia. Suggestivo il ritmo ossessivo che coinvolge lo spettatore e lo costringe a inchiodarsi con lo sguardo al centro del palcoscenico in una prospettiva fissa e di fissità per rivivere e non semplicemente ascoltare quello che vissero – non che seppero – i nostri soldati.

All’inizio si viene disorientati dal fluire delle lingue che testimonia grande sottigliezza interpretativa non finendo mai in caricatura, sebbene l’ironia graffiante, il bisogno di prendersi in giro, consenta anche al pubblico qualche risata a mezza bocca, amara. Nei racconti c’è quello che la storia non ha raccontato: i cinque sensi vissuti dalla trincea, dove il naso ad esempio è lo schifo del fetore, la bocca l’asciuttezza di una saliva e di un gusto prosciugati e, ancora, le mani vanno a toccare quel residuo di virilità come a sincerarsi di essere ancora uomini. In questo passaggio c’è tutto lo strazio di una generazione di giovani sacrificati sull’altare della patria in nome dell’essere maschi, veri uomini, coraggiosi e valorosi per i quali perfino le donne si riscattavano in quanto generatrici di possibili eroi e patrioti. Una grande lezione di umanità e di polverizzazione dell’io generato dalla virulenza bellica, dove c’è posto anche per la consolazione religiosa promossa da preti che cercano di incoraggiare i propri connazionali assicurando che il Signore li proteggerà contro il nemico. Peccato che ogni paese abbia i propri preti, il proprio nemico e, verrebbe da dire, anche il proprio Padre Eterno. Un lavoro sincero e di grande energia che non urla ma sommessamente racconta e commuove lasciando sconcerto e amarezza, senza un posto per le lacrime, che nessuno asciugherà.