Il Cargo chiude? Tutto esaurito per Mario Perrotta
La voglia di teatro nel ponente genovese tuttavia continua a farsi sentire forte e chiara. Dopo il pienone e i lunghi applausi per il primo appuntamento della nuova stagione con Antonella Questa in Svergognata, ieri sera (6 novembre) tutto esaurito per il monologo sulla prima guerra mondiale ideato, scritto e interpretato da Mario Perrotta, già acclamato lo scorso anno per il suo Un bès Antonio Ligabue, primo atto di una trilogia intorno al pittore.
Un acrobazia in punta di lingua. Una, cento, mille voci, Perrotta incarna seduto su un cumulo di sacchi a evocare la trincea. Tante identità, ma lui è uno. Tante: tutte quelle che quell’uno sopravvissuto si ricorda: come monumento o scultura parlante. Perrotta incarna tutte quelle che l’idea stessa di milite ignoto rappresenta, ché dopo il botto non sa più il chi fossi, il da dove venissi, il che dicessi. Tra filo spinato, malattie, paura e morsi di fame tante identità regionali, tante parlate per la prima volta nella storia del nostro paese si incontravano e mescolavano, come stranieri nati nello stesso territorio perciò chiamati a difendere un’unica patria.
Piemontese, veneto, lombardo, toscano, romanesco, calabrese, napoletano, siciliano e altri ne ha nella sua feretra di dialetti Mario Perrotta, che aggiusta a seconda della platea. Come frecce queste parlate appuntano frammenti di umanità del ’15-’18, modi di guardare al mondo e alle cose, punti di vista di uomini, spesso ancora ragazzi (tra i 18 e i 20 anni), che per patria avevano fino ad allora avuto solo il proprio paese, la propria vallata, la propria piana. Ma quale patria? Quella era roba da gente studiata non da poveri contadini abituati a usare il giornale per pararsi dal sole o pulirsi il sedere.
Perrotta fa vivere ogni dialetto per l’arco di una frase o poco meno, lasciando subito spazio all’altro, ricostruendo un dialogo serrato nel buio fangoso di una guerra mortale che ha sterminato un’intera generazione – 4milioni e mezzo – gli stessi che per la prima volta uscivano dai confini noti e si ritrovavano in territori spaventosamente ignoti per andare contro il nemico – che poi erano altri giovani uomini, altrettanto sacrificati, smarriti e spaventati.
La narrazione è sincopata, fitta di sfasature, cadute, riprese. Rapida anzi rapidissima è come una corsa dentro un tempo aggressivo che coglie i suoi protagonisti continuamente di sorpresa. Il ritmo è quello episodico di una mente colta da squarci di immagini che affollano la memoria filtrati dagli organi spalancati sulla realtà: la bocca, il naso, gli occhi, le orecchie, le mani. Attraverso i cinque sensi Perrotta tesse ricordi e inquadra scenari di solitudine, desolazione, smarrimento, senso di inutilità, in una parola: guerra. C’è il freddo, il puzzo, il sangue, i pidocchi, lo sporco, il fango, i botti, i cadaveri, la cancrena, le grida, gli ordini, i lampi di luce come per la festa del santo patrono, ma non c’è spazio per la pietà: gli uomini sono prede da trincea, sono carne da cannone. E quando c’è chi incredulo sfida la follia della guerra e con una risata salta fuori della trincea, il racconto si interrompe, la danza delle mani e delle braccia di Perrotta si ferma: quel sorriso è colpito a morte, le braccia si aprono, il volto si piega da un lato, il corpo va all’indietro al rallenty, gli occhi si chiudono, il sorriso sparisce. Un silenzio assordante invade la sala, tutto è immobile e la morte va in scena senza bisogno di effetti splatter.
Scegliendo di restare seduto sui sacchi della trincea per tutto il monologo, Perrotta non rinuncia al movimento, ma è con la lingua o meglio le lingue che l’azione va in scena: le parlate restituiscono umori, sapori, toni speciali sfruttando la carica evocativa, idiomatica e culturale dei dialetti. A questo esperimento linguistico Perrotta lavora con incessante attenzione e altrettanta ne chiede al pubblico. L’acrobazia è reciproca oppure si perde il senso e il filo, ma l’interprete è generoso e coinvolgente, gli spettatori si lasciano trascinare.
Una lettura originalissima, critica e poetica della guerra, che ricorda come la chi li chiamava eroi mentiva a uomini semplici usati come carne da macello da sacrificare in un folle disegno. Una drammaturgia potente come uno scoppio, ma densa come il fango, fatta di linguaggio popolare, di dettagli fisici, che ha tutta la potenza evocativa del verso ma è sempre anche intensamente descrittiva.
Lunghi applausi e commozione tra il pubblico.