Speciale Primavera dei Teatri 2015 con Mario Perrotta
A Castrovillari arriva anche con Milite Ignoto – quindicidiciotto Mario Perrotta, più volte premiato con i prestigiosi Ubu e Hystrio, artefice di un teatro di testimonianza che guarda alla nostra Storia più recente attraverso i volti e le voci dei suoi protagonisti. In questi anni ha parlato di emigrazione, è entrato nelle pieghe della vita e della visione poetica di artisti come Billie Holiday e di Ligabue e raccontato la Grande Guerra muovendo dalle storie di chi ha combattuto, “carne da cannone” cui ridare dignità e voce, al posto di quanti, come il generale Luigi Cadorna, ne piegarono cinicamente e senza pietà le vite all’arroganza del potere. Storie di diseredati del mondo, che raccontano la solitudine, la mancanza di amore, la vita irregolare, le deviazioni dalla strada maestra […]
Milite Ignoto – quindicidiciotto (presente al festival in prima nazionale e prodotto da Permàr/Archivio Diaristico nazionale/dueL/La Piccionaia) è un lungo, emozionante monologo scritto ed intepretato da un Mario Perrotta in permanente stato di grazia (artistica). La scena è essenziale: campeggia al centro una trincea circondata da sacchi di sabbia, immersa in uno spazio “negro”, di tanto in tanto solcata da un proiettile vagante, interrotta dal boato di un’esplosione. Comincia così, su uno spoglio pezzo di terra, il lungo racconto di Perrotta e del suo milite ignoto (straordinario compendio umano di dolore, ironia e appassionata indignazione antibellica), autentica orazione civile sulla cosiddetta Grande Guerra. Comincia così, con un cenno alla Patria (madre in parto e nel voler matrigna?) «che andate a spiegarla voi, cos’è, a noialtri che stiamo nei campi, che zappiamo la terra», che è un concetto buono «per quelli là, per la gente studiata, la gente de’ libri, che pensa pensieri perché non deve pensare a come campare e non ha altro da fare». Studenti, intellettuali, avanguardisti e futuristi, generali e strateghi. Ma al fronte, loro non ci vanno. Ci vanno, invece, i poveracci, la “carne da cannone”, i sacrificabili nel nome dell’Ideale.
Ed ecco scaturire dalla storia non ufficiale una straordinaria, indimenticabile galleria di personaggi popolari, da ogni dove d’Italia, gettati in una babele di lingue e dialetti (che purtroppo costò la vita a tanti di loro, incapaci di comprendere gli ordini dei comandanti) ma uniti da un comune tragico destino: siciliani e piemontesi, napoletani e veneti, pugliesi, lombardi, calabresi, romani e toscani: tutti precettati per liberare Trento e Trieste e quindi gettati nella tragedia claustrofobica delle trincee sul Carso, con i piedi nel fango e nell’acqua, per ore, giorni, mesi – mentre il Piave, semplicemente, se ne frega di quella umanità mandata al macello. Soldati che piangono e che ridono, che scrivono alle mamme e alle fidanzate, che aspettano di poter assestare al nemico Austroungarico i promessi “tre colpi di spalle” della retorica cadorniana e tornare a casa. Soldati e uomini, stanchi, affamati, confusi, progressivamente deprivati della loro identità. Ora salvi dall’ultimo assalto alla baionetta, ora colpiti a morte, col sangue rappreso che si mescola al fango, ai rantoli, ai corpi. Fino all’ultimo assalto, e chissà per chi terrà il Signore Iddio, se ce n’è uno per gli italiani e uno per gli austriaci. L’ultimo assalto e la morte. Quindi la creazione artificiosa e irriguardosa della figura del Milite Ignoto, fra celebrazioni di facciata e retorica patriottarda. Ma – ed è l’estremo invito di uno spettacolo di eccezionale valore civile – nulla di tutto questo chiede chi ha perso la vita per soddisfare le fregole pseudo-nazionaliste di studenti, intellettuali, avanguardisti e futuristi, generali e strateghi.
Nulla di questo. Solo che quand’è possibile ci si fermi davanti ai monumenti e nelle piazze intitolate alle migliaia e migliaia di caduti di questa guerra. A pensare. A ricordare. E poi, in fondo, solo silenzio.