Mario Perrotta

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Ombre inchiodate alla trincea Raccontare la Grande Guerra lontano dalla grancassa delle celebrazioni, ma non per questo sottovoce e in sordina. Lo spettacolo di Mario Perrotta è un urlo straziante, un’osservazione della Storia attraverso le storie dei piccoli, i ragazzi che quella guerra l’hanno fatta per davvero. Un respiro di grande teatro, che si regge […]

Ombre inchiodate alla trincea

Raccontare la Grande Guerra lontano dalla grancassa delle celebrazioni, ma non per questo sottovoce e in sordina. Lo spettacolo di Mario Perrotta è un urlo straziante, un’osservazione della Storia attraverso le storie dei piccoli, i ragazzi che quella guerra l’hanno fatta per davvero. Un respiro di grande teatro, che si regge su un testo potente (opera dello stesso Perrotta) e una recitazione straordinaria, che merita pienamente la fama e i riconoscimenti di critica e pubblico nei due anni di vita dello spettacolo (nel novembre scorso al Piccolo Teatro di Milano e per una sera al “Manzoni” di Monza, interessante polo culturale attrattivo e coinvolgente per la cittadina).

Sfrondata ogni retorica e orpello, la narrazione si raggruma attorno a un polo centrale: il confine immaginario della trincea è un mucchio di sacchi di sabbia, che troneggia in mezzo alla scena; lì sopra viene a sedersi Perrotta: per tutto il monologo la parte inferiore del corpo resterà immobile (omaggio al Beckett di Giorni Felici), mentre la voce e le braccia disegneranno nell’aria il racconto.

L’incipit dal sapore epico e dai colori di un viaggio dantesco agli Inferi è di grande impatto. Attraverso l’immediatezza del “tu” Perrotta ci accompagna dentro la guerra, che è anzitutto esperienza del corpo. Arrivi a destinazione con il treno, di notte. Sei completamente disorientato. Ti affidi allora all’unica certezza, quella dei sensi. Avanzi nel buio e cominci a “sentire” la guerra: lampi dei segnalatori, colpi di mortaio che forano i timpani, lamenti dei feriti, fetore acre dei corpi vivi e dei cadaveri lasciati a marcire, mentre i tuoi stivali affondano in una melma vischiosa e indistinta, il «dio fango» che condizionerà i tuoi passi, ti mangerà i piedi nella cancrena, ti darà la febbre e coprirà i tuoi compagni uccisi.

Ecco l’ouverture, un “benvenuti all’inferno” cadenzato sul ritmo della lenta camminata sensoriale della recluta, un vortice ritmato in crescendo che cattura subito il pubblico, avvolto da uno strano senso di spiazzamento. La trincea infatti fu voragine in cui si sgretolarono i sogni di un’intera generazione, botola che spalancò l’abisso, ma anche spazio ristretto di confronto e condivisione. I ragazzi italiani di un secolo fa, che conoscevano a malapena il recinto geografico del paesello, catapultati a centinaia di chilometri da casa, si trovano a convivere gomito a gomito con altri fratelli italiani, che parlano una lingua diversa dalla loro. La lingua allora necessariamente si piega e la grammatica dei sentimenti espressa dai dialetti si contamina, in un groviglio emotivo scandito dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza.

Questo personaggio che ci parla è un’ombra, un fantasma ancorato al suo posto di guardia sui monti. Racconta di essere l’unico sopravvissuto della compagnia, decimata da un micidiale colpo di granata, ma ha perso la memoria della propria identità. Folle, vivo o morto? Non è chiaro, ma non importa: egli è corpo unico e spersonalizzato, un milite «ignoto perfino a se stesso», pretesto narrativo e delicata strategia simbolica per connotare la sua voce sola verso una vocalità corale.

Una coralità che è raggiunta soprattutto attraverso l’artificio linguistico. Egli infatti ha assorbito la lingua di ogni suo compagno e si esprime in un idioletto instabile e magmatico: una frase inizia con la cadenza siciliana e sfuma nelle tonalità musicali del veneto. E poi la pastosità del napoletano si apre alle rotondità emiliane, scivola verso il piemontese e termina con una bestemmia in toscano. Ogni periodo è una costellazione e sovrapposizione di ritmi e coloriture linguistiche, un mosaico di identità sgretolate, veicolate attraverso la lingua.

Egli è dunque il fiato di tutti e di nessuno, la voce di un’ombra, un genius loci della trincea e sentinella della memoria. «Te, tu, ti, te tu, tu veh’» è l’apostrofe iniziale, che chiede attenzione e invita a ricordare. Forse il personaggio si rivolge a se stesso, a quel guazzabuglio di identità che egli ha assorbito dai compagni morti. Ma lo stesso refrain plurivocale si ripete alla fine, e allora siamo noi i convocati al ricordo. Non quello magniloquente delle parate, delle corone di fiori e delle lapidi al macellaio Cadorna. La memoria che fa giustizia dei tanti uccisi si aggruma invece nelle targhe vuote, quelle delle storie singole e dimenticate. Non gli eroi ma i tantissimi ragazzi mandati allo sbaraglio, inerpicati su dirupi, divorati dal gelo, bruciati da una pallottola in un momento di distrazione o nella corsa folle dell’assalto.

Nelle parole semplici di questi «inalfabeti», il precipitare degli eventi che porta alla catena di dichiarazioni di guerra, pare un gioco incomprensibile di «gente coltivata» senza preoccupazioni, e allora pensa, litiga e alla fine «perde la crapa», mandando al massacro le masse dei contadini. E così i nomi di Trento, Trieste e l’ideale di Patria, sono tutte parole vuote per chi ogni giorno sperimenta l’Orrore.

Il Milite Ignoto di Perrotta ci chiede ricordo e silenzio. Il suo fantasma torna ad essere inghiottito nel buio, lasciando il pubblico stretto dall’emozione, che si scioglie in dieci minuti di applausi. Meritatissimi.