Milite Ignoto

Permàr - Archivio Diaristico Nazionale - DUEL - La Piccionaia

Milite Ignotoquindicidiciotto

«Un racconto moderno di cose antiche.
Quelle "cose antiche" Perrotta non le stava recitando: immerso, le stava rivivendo»
Franco Cordelli, Corriere della Sera

Corriere della Sera

Nei gesti dolenti di Perrotta rivivono i soldati dimenticati

Con Mario Perrotta è andata così. Lo scorso luglio Roberto Rinaldi, un collega affettuoso (non ce ne sono più di due o tre), mi disse d’aver visto in primavera uno spettacolo straordinario dedicato a Ligabue, il pittore: nasceva in vari punti della regione e tutto confluiva a Reggio Emilia. Descrisse lo spettacolo con accenti tali da provocarmi dispiacere di non averlo visto. Ma, dissi, non ne sapevo niente. Gli chiesi il cellulare di Perrotta e con lui mi lamentai della mia ignoranza. Con netta e chiara sincerità Perrotta mi rispose che non vi fu trascuratezza ma scelta: non avevo visto niente di suo, pensava non mi sarebbe interessato. Replicai che non vi era stato disinteresse bensì pura e semplice casualità. Appena se ne fosse data l’occasione avrei visto un suo spettacolo.
È accaduto con Milite ignoto – quindicidiciotto, ora in tournée a Lecce. Avevo da poco letto un’antologia dei racconti di Federico De Roberto dedicati alla Grande Guerra, ma quando si spensero le luci e seduto su un mucchio di sacchi da trincea Mario Perrotta cominciò a parlare misurai la distanza tra la sua voce e quella razionale del grande scrittore siciliano. In Mario Perrotta di razionale, di scongiurante, di allontanante non c’è nulla. Egli aveva tratto il suo materiale da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra. I diari raccontano dello stesso Maranesi e di Pier Vittorio Buffa, dunque, in buona sostanza, dagli archivi. Ma anche questa è un’indicazione che non mi sembra soddisfacente, è solo una notizia necessaria. Lo dico con energia perché se è vero che è il contenuto a dettare le condizioni, ossia a dettare la forma, è ancora più vero, e lo è di più in questo caso, che tale forma m’è subito apparsa dominante. Dominanti erano due fatti: la voce di Perrotta e la sua gestualità.
Ciò di cui parlava possiamo immaginarlo (fango, sudore, fetore, corpi, freddo, spari nel buio, gesti inconsulti, stragi, milioni di morti, la patria che per la prima volta unisce in una parola mille diversità, la diversità delle lingue, cioè dei dialetti, l’ignoranza dei poveri venuti da ogni dove e la stupidità di tanti tra quelli che hanno studiato, chi prima non voleva la guerra e poi la voleva). Ma il punto è, lo ripeto: come parlava di tutto ciò? A bassa voce, con pudore, con dolore, con l’anima (dico anima, non tecnica, bravura, mestiere, né immersione psicologica: in chi poi se il suo personaggio è un ignoto?). Si trattava di un racconto moderno di cose antiche, un racconto senza soggetto rivolto a un soggetto che potrebbe rispondere e anzi davvero rispondeva: ignoto? Ma se mi hanno bombardato e sono ignoto a me stesso!
L’altro cruciale capitolo era, di Perrotta, la gestualità. Nell’immobile corpo vi era una specie di pietrificazione, quella della stupefazione che precede e segue la parola; o un’austerità, una rinuncia. Ma vi erano anche le braccia. Il senso del loro movimento lo si coglieva negli ultimi minuti, quando esce infine una musica: era un movimento da direzione d’orchestra, ma ondeggiante, apprensivo, conclusivo. Quelle «cose antiche» Perrotta non le stava recitando: immerso, le stava rivivendo.

il Sole 24 Ore

Festival di teatro vero

Castrovillari è una cittadina calabrese piuttosto dimessa e abbandonata a se stessa. La sua principale attrattiva è un festival, Primavera dei Teatri, che vive grazie alla tenacia e alla dedizione di chi lo organizza. Eppure una schiera di artisti e critici vi torna fedelmente ogni anno. Perché tornano? Perché, al di là della bontà delle proposte, questo non è un festival come tanti altri: è l’approdo di una comunità che si riunisce, si riconosce, si dà sostegno. A Primavera dei Teatri si mangia insieme, si vedono insieme gli spettacoli, se ne discute. Si condividono pensieri e sentimenti. È forse per questo che Mario Perrotta, ad esempio, una settimana dopo la conclusione del suo faticoso progetto su Ligabue – di cui proprio a Castrovillari si era vista la prima tappa – ha debuttato qui con un altro spettacolo, Milite Ignoto, ispirato a un libro di Nicola Maranesi che raccoglie diari della Grande Guerra. Si poteva pensare che fosse una piccola cosa preparata in fretta, un puro contributo alla causa, invece ci siamo trovati di fronte a una delle più strepitose prove d’attore degli ultimi anni. Perrotta racconta l’esperienza del conflitto – esperienza umana e politica, prima ancora che militare – attraverso una doppia, straordinaria invenzione: da un lato crea una lingua, un particolare impasto di dialetti, veneto, lombardo, toscano, napoletano, sardo, eco della molteplicità, del convergere di un popolo che si incontra per la prima volta in trincea, ma anche metafora di una perdita di identità nell’immane massacro. Dall’altro la usa per evocare percezioni in primo luogo sensoriali, l’impatto uditivo, olfattivo, tattile con la guerra da parte di contadini analfabeti. L’effetto è sconvolgente.
Anche Fibre Parallele ritorna a Castrovillari […]

Repubblica

Primavera dei Teatri

[…] Altrove l’umanissima, delicatissima dedizione al narrare che è di Mario Perrotta, ha plasmato un ennesimo cammeo rendendo vocalmente poetici e premurosi, nel suo Milite ignoto-quindicidiciotto, vari corpo a corpo in uno scenario di fango, sangue, carne, bagliori e fetori di poar crist.

Delteatro.it

Bilancio di Primavera (dei Teatri)

Tira una buona aria a Castrovillari e in questa nuova edizione (la sedicesima) del Festival organizzato e creato da Scena Verticale: una presenza particolarmente significativa in una regione come la Calabria all’apparenza lontana e perfino disinteressata al teatro. Primavera dei teatri ancora una volta ha fatto piazza pulita di questa falsa credenza, con un’incisività perfino superiore alle passate edizioni: merito dell’esperienza acquisita, delle generazioni di teatranti che spesso sanno lasciare un segno, della fortuna di una manifestazione in grado di coniugare il passato con il presente, alla ricerca di un “lascito” possibile fra generazioni, un ideale passaggio di testimone, salvo restando l’assoluta indipendenza e originalità di stili e ricerche diversi. Così quest’anno accanto alla nuova drammaturgia di Enzo Moscato, Saverio La Ruina, Fibre Parallele, Sergio Pierattini, Quotidiana.com, ha trovato un suo spazio l’edizione della Bisbetica domata della Factory Compagnia Transadriatica purtroppo non troppo felice nel risultato e la straordinaria performance di Mario Perrotta dedicata sull’anniversario del centenario della Grande Guerra del 1915-1918 Milite ignoto – quindicidiciotto, tratto dall’attore-regista-drammaturgo dai saggi e da alcuni diari scritti dai soldati magari proprio prima della morte e nei momenti più cupi del conflitto.
[…]
Quanto La beatitudine è visceralmente drammatica tanto Milite ignoto di Mario Perrotta è “dolcemente brechtiano”. Dove l’avverbio mitiga l’aggettivo senza disconoscerlo in uno spettacolo in cui Perrotta è voce narrante e personaggio umanamente partecipe e, allo stesso tempo, narratore straniato.
Tutto questo è possibile perché l’interprete ama dare voce anche tragica ai piccoli uomini che hanno fatto l’impresa di vivere e sopravvivere in un ambiente ostile e, in questo caso, di unificare l’Italia. E li ricorda, con gesti minimi, quasi solo a sottolineare discretamente la presenza di un mondo quasi mai considerato con il suo quieto, laborioso eroismo vissuto non come dimensione eccezionale di una vita ma che ne è, al contrario, parte integrante come i colori, il variare delle stagioni, il lavoro nei campi, i baci, la voglia di vivere che rendono gli eroi quotidiani semplici esempi di un popolo, protagonisti di gesti e azioni che mai avevano pensato possibili. Ammirevole nella misura (e nella bravura), Perrotta ci regala uno spettacolo che, aldilà del suo indubbio valore artistico, dovrebbe essere presentato nelle scuole perché la sua visione “vale” un libro, scritto dalla voce, dalla presenza, dal gesto misurato di questo formidabile interprete che dà senso alle parole e alla vita degli altri.

Corriere della Sera

La Grande guerra nei dialetti dei soldati

Per mettere in scena la Prima guerra mondiale Mario Perrotta in Milite Ignoto – quindicidiciotto, ispirato a lavori di Nicola Maranesi (all’Elfo di Milano il 20), ha scelto le piccole storie di militi impantanati nell’orrore delle trincee, tra fame, pidocchi, malattie, in un «andare avanti» demenziale per conquistare un metro, con la morte che può arrivare anonima, come ignota è la vittima, da un cecchino, da una granata, dal gas, da una bomba, da un fuciliere alle tue spalle.
Piccole storie che raccontano appieno l’insensatezza di una delle più tragiche e sanguinose vicende della storia moderna, la Grande guerra, nella quale affondano anche la radici dei totalitarismi a venire.
Dal micro al macro. Scelta vincente quella di far parlare i soldati nei diversi dialetti, creando una Babele di suoni e accenti. Seduto su sacchi di sabbia, con schiettezza recitativa e una fisicità contenuta, quasi compressa dai muri della trincea, Perrotta è il soldato della Grande guerra che è convinto che la «Patria sia roba per la testa dei signori», che soffre perché devastato dai dolori per un’infezione, «il piede da trincea», che forse gli costerà la gamba, che è consapevole del disastro dei comandi di Cadorna. È il fantaccino che vive una vita senza vita.

il Fatto Quotidiano

In Calabria il dramma resta in casa

La nuova drammaturgia abita da una decina d’anni a Castrovillari: il calabrese “Primavera dei Teatri” apre la stagione delle rassegne estive con due prime nazionali, Fibre Parallele e Mario Perrotta, e l’ultimo lavoro di Saverio La Ruina, direttore del festival […]

In stato di grazia Mario Perrotta, tornato alla stile affabulatorio con Milite Ignoto, seduto su sacchi da trincea con una lingua meticciata di neologismi sgrammaticati attraverso i dialetti, una lingua gaddiana regionalista ricomposta a mosaico, le mani a direttore d’orchestra, ci fa sentire fango e miseria, fame e schifo della guerra, Grande o piccola che sia.

il Manifesto

Figure di donne, ritratti di gioventù

Tra i molti spettacoli ce ne sono stati poi un paio «d’occasione», ovvero legati al fatidico 24 maggio, nel centenario dell’entrata italiana nella prima guerra mondiale. Quello più rilevante è certo quello approntato da Mario Perrotta, che ha scritto un testo ricco e articolato nelle tante lingue degli «italiani» di allora. La forma monologante, seduto immobile per tutto il tempo in primo piano, non giova a sfoderare le mille ricche pieghe del testo. Che quasi fosse un omaggio a Dario Fo e alle sue lingue strampalate, viaggia tra nord e sud con bell’effetto drammaturgico. Vien voglia di leggerlo, alla fine, quel testo, grazie anche alle doti interpretative di Perrotta.

Hystrio

L’esperanto di guerra del milite ignoto

Le vicende riguardanti il primo conflitto mondiale sembrano suscitare nuovi interesse e sollecitare i nostri più sensibili artisti. Così Mario Perrotta, si immerge, dopo il trittico dedicato al pittore Antonio Ligabue, in una nuova avventura dedicata al “milite ignoto” della Grande Guerra. Due i momenti programmati: il primo, Prima Guerra – quattordicidiciotto e questo Milite Ignoto – quindicidiciotto visto al festival di Castrovillari, ha avuto esito incantatore e avvincente. Nel film Torneranno i prati il grandissimo Ermanno Olmi narra di un manipolo di disorientati soldati immersi in una natura di ammaliante crudeltà che è assoluta protagonista e testimone immoto di atrocità e speranza per l’avvenire. Perrotta ci sembra percorrere il cammino inverso riportando al centro del racconto l’uomo, con le sue paure e debolezze, un soldato perso in qualcosa di più grande che spesso non riesce a comprendere ma che affronta con suprema dignità. Per farlo lavora sui linguaggi, su di una babele di dialetti che sembrano rincorrersi, fagocitarsi e poi acquietarsi cercando il senso delle parole come se solo quelle potessero sorreggere i corpi fatti carne da macello. I primi venti minuti dello spettacolo sono pura emozione. Una tenue luce azzurra colpisce l’interprete che sembra medium, tramite di fantasmatiche visioni create, più che dall’affastellarsi spesso indecifrabile delle frasi, dal puro suono cadenzato su di un ritmo destinato a infrangersi sul fragore dello scoppio dei mortai. Poi sembra che l’autore voglia dirottare dall’emotività alla razionalità il suo racconto e allora ecco farsi avanti i molti personaggi, i tanti militi con le loro “piccole storie”. Ed è fango e sangue, speranza e paura, amicizia e sconfitte, mentre l’Italia degli ultimi è fotografata nei ricordi e nelle memorie. “Piccole storie” di ragazzi, di giovani sbattuti al fronte nel nome di una patria che stentano a riconoscere, di un nemico invisibile tanto simile a loro, vicende capaci – come sottolinea lo strepitoso protagonista – di «gettare altra luce sulla grande storia».

Sipario.it

Milite Ignoto – quindicidiciotto

Spettacoli come Milite ignoto – quindicidiciotto sono l’essenza stessa del teatro e dell’esperienza sensibile ed emotiva della parola. Il merito va in pieno a Mario Perrotta, attore salentino di sicura esperienza e capace anche in questo caso di una eccezionale prova d’artista. Sullo sfondo storico delle vicende della prima guerra mondiale l’autore e attore dello spettacolo inscena quello che la critica teatrale anche sbrigativamente incasella nell’insieme del teatro di narrazione, ma che offre non solo un esempio di affabulazione, ma l’evocazione di un mondo di ricordi rielaborato in un flusso di dinamismo e sentimento. Perrotta si presenta solo in una scena priva di elementi se non una seduta fatta di sacchi di sabbia, unico elemento visibile che rimanda ai ricordi del campo di battaglia, e sullo sfondo dell’immaginario del pubblico è proiettata la contro storia delle vicende della Grande Guerra. Nel corso di questa proiezione Perrotta dà dimostrazione di una capacità e di un talento che si scopre sempre più ammirevole. La vicenda narrata da Milite ignoto – quindicidiciotto è la sommatoria di tutte vicende dei soldati che hanno sacrificato la vita sull’altare di un bene troppo spesso idealizzato dagli alti comandi di patria e onore. Le voci di questi militi ignoti, di coloro che hanno perso la vita senza assurgere all’onore della retorica nazionale, sono rappresentate dal mosaico di accenti e di timbri vocali così abilmente portate in scena da Perrotta, con la meravigliosa invenzione di un glissato tra le voci provenienti da tutta Italia, quasi a ricordare come nelle trincee della prima guerra mondiale si sia realizzata la prima vera unità nazionale. Splendido è il ritmo del racconto che non diminuisce mai la propria forza e vitalità fatta di sentimenti di nostalgia e paura. Il corpo di Perrotta si muove in scena con ampi gesti quasi a dirigere il coro dei sensi corporei e del pathos vissuto in comunione tra attore e pubblico. Il testo dello spettacolo ripercorre il dato storico, la catena di alleanze e il ricordo dei dati del conflitto, ma tutto presto lascia il posto alla presenza dell’individuo senza un luogo e senza un nome, perché in fondo incarna l’esistenza spaesata di tutti e di nessuno di coloro i quali la guerra ha sottratta ogni identità. Milite ignoto – quindicidiciotto non si risolve solo in una celebrazione del contributo di sangue dei fanti della Grande Guerra, ma vuole essere un’esperienza che trascende il dato storico per mostrare come la qualità incorporea della parola possa diventare un dato fisico di palpito e trepidazione. Mario Perrotta si dimostra sempre di più il perfetto celebrante del teatro quale rito in scena.

Messaggero Veneto

Teatro Club supera il test Castrovillari

Perché il festival di Castrovillari, capitanato da Dario De Luca e Saverio La Ruina, che il pubblico regionale ha avuto modo di conoscere in questi anni grazie alla presenza dei loro spettacoli nella rassegna Akropolis, non è di tendenza, ma vetrina variegata: presenta prove di solisti come Mario Perrotta, autore e interprete di un emozionante e polifonico Milite ignoto sui tanti poveri cristi della prima guerra mondiale o della napoletanissima Imma Villa, , con un bellissimo monologo di Enzo Moscato […]

Che teatro fa - Repubblica.it

Nuovi critici/Castrovillari II

Andare via da Castrovillari è difficile quasi quanto arrivarci, con tutte le strettoie e le deviazioni di quel cantiere a cielo aperto che continua ad essere la Salerno-Reggio Calabria. Si ha voglia di restare, a Primavera dei Teatri, il festival che ormai da anni la compagnia Scena Verticale, all’anagrafe Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, porta avanti con determinazione e tenacia in questo bacino posizionato ai piedi del Pollino, con una programmazione sempre attenta ai nuovi linguaggi del contemporaneo […]

Milite Ignoto – quindicidiciotto, in prima nazionale, di e con Mario Perrotta riannoda i fili della Grande Guerra con una lingua inventata che impasta i dialetti italiani, il lombardo, il siciliano, il napoletano, il sardo, il tutto concentrato in un testo che ribolle per ricchezza espressiva e per spessore drammaturgico. La fame, la miseria, il fetore del sangue e della carne: seduto su sacchi da trincea, Perrotta riunisce in un flusso monologante che toglie il fiato l’identità di un’Italia disgregata dal conflitto e da un’estraneità che è ancora dei giorni nostri.

Corriere dello Spettacolo

Milite ignoto – quindicidiciotto. Nel bene o nel male, davanti alla guerra siamo tutti uguali

“Fermati, pensa e ricorda”; con queste parole, che sciolgono una tensione emotiva cresciuta battuta dopo battuta, si chiude lo spettacolo Milite ignoto – quindicidiciotto  andato in scena venerdì 23 marzo al Centro Culture Contemporanee Zo di Catania, all’interno della rassegna Altrescene. E’ un lungo e inesorabile excursus fra le vite dei soldati vissute in trincea, di quei giovani chiamati alle armi in un’Italia dove l’unità era esclusivamente sulla carta e la fratellanza si rafforzava nel sacrificio per una Patria di cui non si conoscevano neppure i confini. Non c’era né nord né tanto meno sud, tutti erano uguali di fronte alla guerra, seppure diversi. Una dimensione narrativa che trascina con sé lo spettatore nel buio persistente dell’inizio, disturbandolo, indisponendolo in quella discesa agl’inferi che vedrà la fine solo in quell’ultima battuta. In questo magistrale monologo Mario Perrotta scava nella memoria dei sensi fin dentro le viscere del dolore, per esplodere nella liberazione, come sotto i colpi delle mitragliatrici durante l’assalto. Una vita sospesa, quella del protagonista, il quale a causa di un’esplosione ha perso la memoria. Tenta di ricostruirne i tasselli ma la testa è affollata dalle vite e dal dialetto di ognuno dei compagni, ciononostante è proteso verso il futuro. Ha un barlume di speranza mentre scrive le sue lettere dai molteplici destinatari, che qualcuno gli risponda e gli possa dire chi è. Così, la guerra è questo, ti spoglia della tua identità per trasformarti in un numero; eppure la più grande lezione è la vicinanza all’altro, anche se è il nemico; perché in quella desolazione, fra la neve e il fango, tra le malattie, la paura e l’angoscia di non arrivare al mattino successivo, anche una parola può essere consolatoria. Il dialetto si fa portavoce dell’insieme attraverso l’escamotage del trauma e dà ritmo alla situazione, Perrotta a un certo punto scioglie l’inquietudine della trincea dando voce alla gente comune ed elencando i fatti storici che si susseguirono dall’ingresso in guerra dell’Italia. Eppure è il finale che più di ogni altra cosa lascia sbalorditi e arriva con grande impatto allo spettatore, quando muovendo elegantemente le braccia come un danzatore della morte, ricorda uno ad uno i caduti. Un’interpretazione di altissimo livello dove ogni gesto ed espressione erano perfettamente in linea con il racconto; un attore composto al centro della scena, che seduto sui sacchi da trincea dà voce a chi su quelle montagne ci è rimasto per sempre. Una bella prova di teatro sociale e impegnato che smuove le coscienze e che in maniera catartica si risolve in una standing ovation finale.

Controscena.net

Quel Milite Ignoto che grida contro l’inutile in tutti i dialetti

NAPOLI – «Sotto l’acqua che cadeva a rovescio / grandinavano le palle nemiche […] O vigliacchi che voi ve ne state / con le mogli sui letti di lana, / schernitori di noi carne umana, / questa guerra c’insegna a punir. […] Voi chiamate il campo d’onore / questa terra di là dei confini; / qui si muore gridando: assassini! […] Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta, / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù. […] O Gorizia, tu sei maledetta / per ogni cuore che sente coscienza; / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu».
Già, «O Gorizia, tu sei maledetta». È uno dei più alti e risentiti (e alto proprio perché risentito) canti anarchici. E mi meraviglio che Mario Perrotta – autore, regista e protagonista di Milite Ignoto – quindicidiciotto, in scena ancora oggi pomeriggio al Nest – non l’abbia utilizzato, come epigrafe, leitmotiv o sigla finale del suo spettacolo.
Perrotta cita, invece, La leggenda del Piave, con la tristemente nota retorica de «Il Piave mormorò: / “Non passa lo straniero!”». E certo, si tratta di un’amara e sacrosanta frecciata contro la propaganda patriottarda. Ma il fatto è che «O Gorizia, tu sei maledetta» costituisce un riassunto incredibilmente preciso, e profetico in maniera eclatante, di tutti i temi sviluppati nello spettacolo in questione: a partire dal concetto, dal dato concreto e dalla metafora della «carne umana».
Anzi, Mario Perrotta scrive: «carne di uomo», con un ulteriore abbassamento verso la fisicità e la fruibilità (nel nostro caso militaristica) di quella carne: come se si dicesse, insomma, carne di maiale o di pollo o di manzo. E basterebbe un simile rilievo a dimostrare l’acuta pregnanza del testo qui messo in scena, tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra, i diari raccontano, un progetto de L’Espresso e dell’Archivio Diaristico Nazionale.
Infatti, non un pensiero, non un’analisi in termini storici, non una presa di posizione ideologica presiedono a Milite Ignoto – quindicidiciotto: la Grande Guerra per Perrotta diventa – puramente e semplicemente – ciò che della Grande Guerra sentiva e pativa il Corpo determinato dall’insieme dei corpi di tutti quelli che vennero mandati allo sbaraglio, a morire per niente, senza sapere, senza poter darsene una ragione, nel nome, appunto, di una «patria» che avvertivano come qualcosa di sconosciuto.
Di conseguenza, i veri narratori di quell’immane tragedia sono adesso – ed ecco la grande invenzione drammaturgica di Perrotta – i cinque sensi (la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto) e i loro organi (gli occhi, l’orecchio, il naso, la bocca, la mano): «occhi uguale buio!», «orecchio uguale botti!», «naso uguale schifo!», «bocca uguale secco!», «mano uguale cojoni!». Sì, la mano. Mano a verificare che «il tuo posto è qui», giusto il grido («le palle le avete o no?») dei signori ufficiali all’addestramento, ma anche «mano uguale cercare nel buio a senter dove che stanno l’antri, compagni militari di sventura: mani su petto, mani su faccia, spalla con spalla, gumbeto a gumbeto, e di mano in mano, abbraccio in abbraccio, ognuno diventa corpo solo con gli altri, corpo militare, e tu pure». Questo passo, peraltro, è un esempio della non meno rilevante invenzione messa in campo da Perrotta sul piano specifico della scrittura: poiché il suo Milite Ignoto consiste nel Corpo indifferenziato che concorrono a determinare i corpi di tutti coloro che – per citare ancora «O Gorizia, tu sei maledetta» – pativano e morivano «su quei monti, colline e gran valli», gli viene attribuita una lingua che consiste nella fusione dell’italiano con un po’ tutti i nostri dialetti. È, però, un mélange che costantemente trasforma il realismo minuto in una terribile apocalisse dell’anima: «[…] e nni pol portare via i morti. E ti restano accanto. E si disfano nel fango, e s’inabissano per rispuntare chissà dove. E gridano ancora che son lì, presenti, spargendo umori di morte nelle viscere del fango. E tu resti più immobile che puoi sperando arriva presto l’inverno e copre di neve fango e fetore. E poi bestemmi con le lacrime all’occhi, per quella speranza, quella preghiera Sior fa che venga l’inverno!». In breve, Mario Perrotta si conferma come uno dei più ispirati fra i narratori civili del nostro teatro, accanto, per intenderci, ad Ascanio Celestini, Marco Baliani e Marco Paolini. Chissà perché, fra parentesi, non veniva a Napoli (e va a tutto merito del Nest l’avercelo fatto tornare) da qualcosa come dodici anni, dall’Italiani cìncali! presentato nel 2005 alla Galleria Toledo. E non sto a dire quanto sia bravo, ad esprimersi – seduto su un muretto fatto dei sacchetti di sabbia delle trincee – soprattutto con le espressioni del viso e i movimenti del tronco, delle braccia e, giusto, delle mani. Penso, piuttosto, alla sua osservazione circa il sentirsi «l’inutile addosso»: giacché incarna uno degli «archetipi» che tornano e tornano attraverso i decenni. Sul finale si ode, come un eco sottile e lontano, «Il silenzio fuori ordinanza» che un tempo i «nonni», al momento di andare in congedo, facevano ascoltare alle reclute schierate sull’attenti. Cinquantaquattro anni fa, nella Scuola d’Artiglieria di Bracciano, in mancanza della tromba lo feci suonare con il clarinetto, da un diplomato al Conservatorio di Parma. Ma prima, per certe parole di rivolta, ero stato rinchiuso tre giorni nella cella di rigore. Una bara con solo un tavolaccio fissato al muro. E sul muro trovai la scritta: «Naia, ozio senza riposo, in cui il facile diventa difficile, per il conseguimento, attraverso l’inutile, del nulla assoluto».

Sipario.it

XVI Edizione della Primavera dei Teatri. Nuovi linguaggi della Scena contemporanea

È il manifesto di John Lund e Stephanie Roeser che vogliono sintetizzare, forse, il nuovo che avanza con la bimba e il vecchio che è alle spalle con l’orango, e dare un senso a questa XVI Edizione del Festival Primavera dei Teatri resa possibile ancora una volta grazie al lavoro organizzativo di Saverio La Ruina, Settimio Pisano, Dario De Luca: una triade compatta e affiatata che ha messo insieme dal 29 maggio al 2 giugno un programma con tredici spettacoli rivolti ai nuovi linguaggi teatrali, andati in scena tutti nel Protoconvento francescano di Castrovillari […]

Mario Perrotta reduce dei successi riscossi in Emilia col suo Progetto Ligabue, si è presentato a Castrovillari con lo spettacolo Milite ignoto – quindicidiciotto, tratto da alcuni scritti e diari di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, in cui l’attore e regista di Lecce indossando alla grande i panni d’un soldato qualunque, ignoto appunto, sfoderando una serie di dialetti italici dalla Sicilia al Trentino, racconta per 70 minuti seduto su dei sacchi di juta la sua Grande Guerra, vista dai futuristi come “la grande festa della giovinezza”. Ma quale festa, solo uno sterminio di poveri contadini morti ammazzati all’interno di malsane trincee scavate nelle montagne del Friuli, piene di fango, di respiri affannosi misti a mugugni, lamenti, fetori e pidocchi in tutto il corpo e da bombe e strali che arrivavano sulle loro teste dal nemico austriaco. Una guerra, di cui quest’anno si celebra il centenario, che iniziò pretestuosamente per quell’attentato a Sarajevo ai danni dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando da parte d’un indipendentista slavo, che ha visto 4 milioni di soldati reclutati tra le fasce più povere della nostra popolazione, ignara di cosa volesse dire “patria” e che alla fine, tra civili e militari, si contarono nel nostro paese qualcosa come più d’un milione e duecentomila morti. Una carneficina finita con la disfatta di Caporetto, con le solite Francia, Germania e Inghilterra a farla da padroni.

Rumor(s)cena

Il silenzio dopo la voce di Milite Ignoto

Un soldato rimasto vivo in trincea, dopo quel gran botto, l’esplosione che l’ha lasciato vivo e smemorato di sé, eppure memore delle memorie dei suoi compagni, dei loro nomi, dei loro dialetti. Dialetti che fluiscono in un’unica lingua, che mescola parole e si fa voce unica, coro di tragedia greca che racconta la paura, la solitudine, i cinque sensi resi esasperati dalle privazioni e dall’orrore. La vista racconta il buio e i lampi, l’udito gli scoppi e le grida, l’odorato il fetore di morte di sangue e di corpi non lavati, il gusto la miseria del rancio, il tatto la costernazione delle mani. Ignoto di sé ma non degli altri, Mario Perrotta non interpreta il sopravvissuto, è il sopravvissuto, lo è nei gesti e nelle espressioni, nel racconto affannato di sprazzi dolorosi, nel ritmo di una narrazione che scivola fluida in un monologo senza respiro, che unisce amici e nemici nello stesso tragico destino di trincea. Seduto sui sacchi di sabbia, unico corpo rimasto vivo in mezzo al viscidume del fango e dei pidocchi, corpo che è tanti corpi, che ha i nomi di tutti ma non ha più il proprio, scrive lettere che possono essere di tutti e sono indirizzate a tutti, genitori e fratelli, figli, madri, sorelle, mogli, fidanzate, ed invoca il silenzio e il ricordo per sé e per i tanti morti, e l’oblio di una targa cancellata e resa bianca per coloro che quei morti li hanno provocati.

“Mi sento l’inutile addosso” è la sua unica consapevolezza, che non conosce ideali, non conosce Patria. I grandi personaggi della Storia, quelli delle dichiarazioni di guerra e dei proclami, dei titoli sui giornali che solo pochi sanno leggere, i pensatori e gli intellettuali, sono lontani per chi conosce solo la misura del proprio piccolo mondo; sfilano sullo sfondo della quotidianità e dello sperdimento della guerra nella lettura semplice che ne fa un soldato semplice, lontano dalla politica, dai fermenti della lotta di classe, dell’irredentismo e dell’interventismo che infiammarono quegli anni, e che fecero scrivere a Filippo Turati (in una lettera inviata ad Anna Kuliscioff) queste poche parole di buon senso:“ La guerra è come la malattia; può uccidere, indebolire e niente altro e non ci farà né più ricchi, né più saggi, né più produttivi, né più liberi, né più onesti né più felici di quello che siamo”. Di buon senso ed ancora molto attuali, spesso citate, e inascoltate. Alla fine dello spettacolo cala il buio. I grandi direttori d’orchestra misurano l’effetto dell’intensità della loro esecuzione dalla durata del silenzio sospeso che trascorre dall’ultima nota allo scrosciare dell’applauso; dopo l’ultima parola di Mario Perrotta così è stato, nel dilatarsi di un lungo momento di sospensione a riprova dell’atmosfera in sala, di coinvolgimento emotivo reale e profondo.

Krapp's Last Post

Il Sud di Primavera dei Teatri, tra scoperte e conferme

Cinque giorni intensi, tredici spettacoli fra anteprime, prime nazionali, ritorni e conferme. E’ stata questa la Primavera dei Teatri conclusasi pochi giorni fa. Un’edizione numero sedici ricca di spunti e visioni, difficili da condensare, tra spettacoli, sensazioni, incontri, riflessioni. Il festival dedicato ai nuovi linguaggi della drammaturgia contemporanea anche quest’anno si è caratterizzato per la capacità di pulsare e accogliere proposte e istanze diverse, portare in scena – soprattutto attraverso una centralità della parola drammaturgica, del gesto e della narrazione – i cortocircuiti della società contemporanea, tra solitudini, paure, ferite sanguinanti, riconosciute in molti degli spettacoli visti, e mostrando talvolta il doloroso e profondo contrasto fra realtà e finzione, svelando la potenza, le possibilità, le necessità del gioco teatrale […]

Mario Perrotta, a cento anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, ha presentato invece in prima nazionale Milite ignoto – quindici diciotto, omaggio agli ultimi, agli eroi senza onori che, nelle feroci trincee della Grande Guerra, hanno dato la vita per un Paese che non li conosceva neppure.
Attraverso un’interessante e particolare modalità linguistica Perrotta, da abile affabulatore, ha delineato atmosfere ed episodi, proponendo un percorso narrativo tra dialetti differenti: la parola si fa così nesso, unisce pensieri e storie e, seppur nella differenza, diventa occasione di unicità del racconto.

Stratagemmi

Milite Ignoto

Un uomo salta sul treno che lo porterà al fronte: forse lo ignora ma in quell’istante la sua identità si squarcia, scissa tra il piede dietro, ancorato alla terra, che appartiene al civile, e quello davanti, che monta in carrozza, proprietà del soldato. Il passaggio dalla civiltà alla guerra è un fermo-immagine di disappropriazione dinamica.
È pressappoco così che la vede Mario Perrotta mentre dà fuoco alle polveri del suo Milite ignoto – quindicidiciotto, spettacolo-racconto sulla prima guerra mondiale che ha debuttato sotto forma di studio-reading il settembre scorso e che viene ora proposto all’Elfo Puccini per un’unica data, in occasione dei premi Hystrio.

Seduto su alcuni sacchetti di sabbia, sineddoche scenografica del paesaggio di trincea, Perrotta presta il suo corpo alla moltitudine di voci dei coscritti che, quella guerra, l’hanno vissuta in prima persona. Soldati semplici, è bene specificarlo, uomini “non studiati” che mai hanno avvertito particolare esigenza della Patria – il cui perimetro, nelle loro menti, corrisponde più ai limiti geografici del paese d’origine che ai confini nazionali – e che vivono la chiamata alle armi con un misto di stupore per l’avventura, estraneità alle logiche militari, alienazione per le condizioni disumane a cui sono costretti. Già perché la guerra sembra destrutturare l’essere umano quasi meccanicamente: non lo interpreta più nella sua pienezza, ma nel suo essere pezzo, componente di un apparato complesso, articolato. Gli uomini non sono altro che braccia, gambe, arti pronti a cedere o a contrarsi nello sforzo bellico e le bombe, le mitragliatrici, il gelo e le baionette lo rammentano con efficacia ai soldati nelle frequenti amputazioni. È così che anche la rappresentazione della guerra messa in campo da Perrotta non può rinunciare alla frammentarietà: il punto di vista diventa intermittente, prospettiva “a bagliore”, direbbe uno dei combattenti, simile a quella provocata dagli ordigni a grappolo che illuminano il cielo con il loro scoppio e poi lasciano nuovamente spazio al buio. La narrazione non è da meno e, benché analitica, diventa particellare, talvolta ellittica, si fa procedere magmatico, dove un’esattezza limpida, quasi matematico-formulare (naso=schifo; bocca=secco; mani=coglioni) si coniuga con un linguaggio poetico ricco di sinestesie (botti metallo, respira largo, rumori di umido sotto gli stivali). L’effetto espressivo che ne consegue è notevole e, incrementato dal colore linguistico dei dialetti dei soldati (Perrotta ne interpreta con abilità quasi una decina), sembra rievocare la spietata vivacità lessicale di alcune pagine di Celine in Viaggio al termine della notte incrociata con la multiforme “vox populi” dei Malavoglia.

Insomma, quello di Perrotta è un spettacolo di narrazione che sa essere poeticamente ricercato e al contempo estremamente accessibile ad un pubblico ampio. Ma è forse in questa seconda ambizione che la performance registra qualche sbavatura. La volontà didattica che accompagna alcuni passaggi (l’enumerazione di date, di fatti, di personaggi-chiave del conflitto: da Cadorna alla personificazione del Piave) unita all’esplicitazione del pretesto narrativo (il milite ignoto non è semplice collettore simbolico delle testimonianze dei soldati, ma si rivela identità concreta, resa folle da un trauma di guerra) smorzano un poco il fascino allucinato dell’aneddotica di trincea, lasciando spazio a qualche nota retorica. A Perrotta si perdona questo e altro: la sua esposizione ha una grazia così rara, il suo carisma è tale che ci si lascia trascinare nella narrazione e, come i soldati abbracciati nel fango dei terrapieni, si diventa un unico corpo, il cui calore umano rende irrilevante il resto e permette di percepire, prospettiva curiosa, un barlume di fratellanza.

Quarta Parete

Diario da un festival: Primavera dei Teatri

Affonda invece a piene mani nella Storia, quella della Prima Guerra Mondiale, per celebrarne l’anniversario dallo scoppio, e provare a restituire un nome, una voce, una identità a chi in quel conflitto l’ha persa per sempre, il monologo di Mario Perrotta, Milite ignoto – quindicidiciotto, magistrale esempio di scrittura drammaturgica che partendo da uno studio accuratissimo degli avvenimenti, si traduce in una preziosa sintassi dei sentimenti dai molteplici dialetti. Se è vero infatti che l’“italiano” come essere umano rappresentante di una unica nazione e come lingua nasce durante proprio quella guerra, è dalla frammentazione della lingua parlata dai piemontesi e i pugliesi, dai lombardi e i siciliani, dai veneti e i sardi, che Perrotta parte per raccontare coloro che sul campo persero la vita anche solo perché incapaci di comprendere gli ordini impartiti da chi non era un loro corregionale e parlava alla stessa maniera, e per questo ancora di più isolati, abbandonati a se stessi, “ignoti” ai propri stessi commilitoni ma anche al nemico, che non si vede, non ha un volto, ma si combatte da lontano, chiusi ciascuno nelle proprie trincee. Per 70’, come una partitura musicale, ecco che frangenti di vita si affastellano, acquistano drammatica visibilità per poi cadere nuovamente nell’anonimato, ed ecco Perrotta ridare con trasporto ed encomiabile compassione, a ciascuno di essi, dignità, valore, importanza, senza che il racconto di cui si fa testimone e tramite si mai interrompa ma risulti un unico sommesso grido in cui parole dal suono comune diventano il giusto ponte da una regione all’altra, da un pezzo d’Italia all’altro. Così percorrendo lo stivale intero e raccontando la distruzione, la morte, le bombe e gli spari attraverso le paure e le angosce non dei militari bensì degli uomini che si nascondono dietro quelle divise. Così restituendo con la forza delle sole parole e dell’intensa interpretazione, senza alcun elemento accessorio a spettacolarizzare il dolore, umanità a un tragico evento, nel patrimonio di tutti. E che per questo deve necessariamente essere presente nel ricordo di tutti.

Saltinaria

Milite Ignoto – quindicidiciotto – Primavera dei Teatri 2015

Straordinaria prima nazionale per l’ultimo, affascinante lavoro di Mario Perrotta. Dopo il successo dell’appena concluso Progetto Ligabue, torna in scena con un racconto di echi, voci di una storia vista dal basso, dalla trincea: perché il centenario della Grande Guerra sia ricordo delle persone comuni che non hanno spazio nei libri di storia e di un’Italia multiforme unita, per la prima volta, al fronte.
Milite ignoto – quindicidiciotto è un viaggio nella memoria storica spogliata degli ossequiosi e vacui doveri istituzionali. Nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, questi 70 minuti di teatro rappresentano una riflessione illuminante e affascinante sugli aspetti spesso dimenticati della nostra storia nazionale.

Mario Perrotta compone con sapienza una partitura verbale di suoni, colori, atmosfere che trascinano lo spettatore nella realtà scottante della trincea. Ma si va ben oltre: lontana dagli accademismi e dalle frasi fatte, la ricerca di Perrotta tenta la ricostruzione storica sulla via della riflessione linguistica. Non si propone (solo) di mostrare le tragiche condizioni di vita del soldato semplice in trincea, ma di tessere in un’armonia di voci il racconto di un’Italia disunita, frammentata, inconsapevole: un’Italia bassa, rurale, analfabeta che si incontra per la prima volta sul fronte per la conquista di Trento e Trieste.

E qui l’intuizione affascinante di Perrotta: far parlare al suo Milite Ignoto (ignoto agli altri ma anche a se stesso) una lingua multiforme, multicolore, fatta di dialetti concatenati che percorrono la penisola in lungo e in largo. E’ al fronte della prima Grande Guerra che l’Italiano incontra e scopre la molteplicità dei suoi connazionali, e la trincea diventa una Babele di dialetti i cui abitanti sono accomunati solo dallo stesso tragico e immeritato destino. La potenza della lingua dialettale sta nel suo farsi grammatica delle emozioni, ovvero lo strumento verbale più diretto di espressione dell’interiorità. La lingua di Perrotta, questa sorta di esperanto dialettale, vede perciò moltiplicarsi le possibilità espressive, assegnando ad ogni sentimento una diversa sonorità. Attingendo al prezioso fondo dell’Archivio Diaristico Nazionale, Perrotta racconta ingenuità, inconsapevolezze, disperazioni dell’Italia rurale dell’epoca, chiamata a passare da spettatrice a protagonista dell’ incomprensibile gioco di morte che è la guerra, con la straziante consapevolezza di restare fuori dalla “Grande Storia”, di rimanere “ignota”.

Solo su una scena nuda, forte di una consapevolezza notevole del palcoscenico, Perrotta parla ma pare cantare, la sua voce si declina in melodie perfettamente armonizzate; incanta il pubblico con i suoi gesti densi ed evocativi, pur mantenendo immobile il suo corpo dal busto in giù, vibrante di presenza, di reale. Si lascia la sala entusiasmati, commossi, colpiti da tanta perfetta bellezza e da tale emozionante intelligenza.

Gli Stati Generali

Chi ha qualcosa da dire, parli ora!

Il nodo, ancora, è la drammaturgia. Mai mi troverò ad abdicare all’idea che un teatro – il Teatro, ogni teatro – debba “parlare”, dunque comunicare. Parlare del e al tempo presente, che sia attraverso il passato o il futuro; parlare di noi per quel che siamo.[…] E il parlare, in scena, implica una riflessione sul segmento complesso e inafferrabile della drammaturgia. […]

Mi rendo conto di procedere per generalizzazioni, o addirittura per provocazioni, seguendo il filo di una riflessione ampia e dunque inevitabilmente confusa o contraddittoria. Ma insisito. […] Troppo spesso gli autori-registi-attori parlano a un pubblico già d’accordo, già consenziente, già addomesticato alle impervie vie della ricerca […] Ecco allora che la strada di questa “drammaturgia di ricerca” mi appare sempre più faticosa.A chi scrivono? Cosa scrivono? […]

Così, ad esempio, al bel Festival Primavera dei Teatri, di Castrovillari, a fronte di indiscutibili successi di pubblico e critica, alcune prove mi sono sembrate fragili proprio nella prospettiva drammaturgica. […]

Infine il bel lavoro di Mario Perrotta sulla prima guerra mondiale. Bravo, lui, bravissimo: lo sappiamo da anni. In Milite ignoto -quindicidiciotto allestisce il racconto del fronte e delle trincee: la novità consisterebbe nel fatto che il monologo fluttua da un dialetto all’altro, da nord a sud (ahimé, manca il sardo, eppure la brigata Sassari ebbe un ruolo non irrilevante). Però, passato lo scalpore gaddiano della babele linguistica, dopo cinque minuti la storia si svela l’ennesima vicenda dei fantaccini sinceri, degli ufficiali fanatici e dei generali ottusi. Un anno sull’altipiano di Lussu o La Grande Guerra di Mario Monicelli avevano già detto tutto. Come per La Ruina, come per Licia Lanera, anche per Perrotta il pubblico di Castrovillari regala grandi applausi, e le tante recensioni confermano il successo. Ne siamo felici e registriamo il fatto.

Ma intanto continuo a chiedermi come risolvere – se mai si risolve – il problema della drammaturgia del contemporaneo

Linking Calabria

Speciale Primavera dei Teatri 2015 con Mario Perrotta

A Castrovillari arriva anche con Milite Ignoto – quindicidiciotto Mario Perrotta, più volte premiato con i prestigiosi Ubu e Hystrio, artefice di un teatro di testimonianza che guarda alla nostra Storia più recente attraverso i volti e le voci dei suoi protagonisti. In questi anni ha parlato di emigrazione, è entrato nelle pieghe della vita e della visione poetica di artisti come Billie Holiday e di Ligabue e raccontato la Grande Guerra muovendo dalle storie di chi ha combattuto, “carne da cannone” cui ridare dignità e voce, al posto di quanti, come il generale Luigi Cadorna, ne piegarono cinicamente e senza pietà le vite all’arroganza del potere. Storie di diseredati del mondo, che raccontano la solitudine, la mancanza di amore, la vita irregolare, le deviazioni dalla strada maestra […]

Milite Ignoto – quindicidiciotto (presente al festival in prima nazionale e prodotto da Permàr/Archivio Diaristico nazionale/dueL/La Piccionaia) è un lungo, emozionante monologo scritto ed intepretato da un Mario Perrotta in permanente stato di grazia (artistica). La scena è essenziale: campeggia al centro una trincea circondata da sacchi di sabbia, immersa in uno spazio “negro”, di tanto in tanto solcata da un proiettile vagante, interrotta dal boato di un’esplosione. Comincia così, su uno spoglio pezzo di terra, il lungo racconto di Perrotta e del suo milite ignoto (straordinario compendio umano di dolore, ironia e appassionata indignazione antibellica), autentica orazione civile sulla cosiddetta Grande Guerra. Comincia così, con un cenno alla Patria (madre in parto e nel voler matrigna?) «che andate a spiegarla voi, cos’è, a noialtri che stiamo nei campi, che zappiamo la terra», che è un concetto buono «per quelli là, per la gente studiata, la gente de’ libri, che pensa pensieri perché non deve pensare a come campare e non ha altro da fare». Studenti, intellettuali, avanguardisti e futuristi, generali e strateghi. Ma al fronte, loro non ci vanno. Ci vanno, invece, i poveracci, la “carne da cannone”, i sacrificabili nel nome dell’Ideale.

Ed ecco scaturire dalla storia non ufficiale una straordinaria, indimenticabile galleria di personaggi popolari, da ogni dove d’Italia, gettati in una babele di lingue e dialetti (che purtroppo costò la vita a tanti di loro, incapaci di comprendere gli ordini dei comandanti) ma uniti da un comune tragico destino: siciliani e piemontesi, napoletani e veneti, pugliesi, lombardi, calabresi, romani e toscani: tutti precettati per liberare Trento e Trieste e quindi gettati nella tragedia claustrofobica delle trincee sul Carso, con i piedi nel fango e nell’acqua, per ore, giorni, mesi – mentre il Piave, semplicemente, se ne frega di quella umanità mandata al macello. Soldati che piangono e che ridono, che scrivono alle mamme e alle fidanzate, che aspettano di poter assestare al nemico Austroungarico i promessi “tre colpi di spalle” della retorica cadorniana e tornare a casa. Soldati e uomini, stanchi, affamati, confusi, progressivamente deprivati della loro identità. Ora salvi dall’ultimo assalto alla baionetta, ora colpiti a morte, col sangue rappreso che si mescola al fango, ai rantoli, ai corpi. Fino all’ultimo assalto, e chissà per chi terrà il Signore Iddio, se ce n’è uno per gli italiani e uno per gli austriaci. L’ultimo assalto e la morte. Quindi la creazione artificiosa e irriguardosa della figura del Milite Ignoto, fra celebrazioni di facciata e retorica patriottarda. Ma – ed è l’estremo invito di uno spettacolo di eccezionale valore civile – nulla di tutto questo chiede chi ha perso la vita per soddisfare le fregole pseudo-nazionaliste di studenti, intellettuali, avanguardisti e futuristi, generali e strateghi.

Nulla di questo. Solo che quand’è possibile ci si fermi davanti ai monumenti e nelle piazze intitolate alle migliaia e migliaia di caduti di questa guerra. A pensare. A ricordare. E poi, in fondo, solo silenzio.

Il Giornale di Vicenza

Perrotta brilla, il “Milite Ignoto” si innalza dal fango delle trincee

Un grande attore, un grande testo, una grande idea. Ecco che cosa è davvero necessario per ottenere un grande teatro. Mario Perrotta lo ha dimostrato l’altra sera al Castello di Romeo di Montecchio Maggiore, offrendo al pubblico di Operaestate uno degli spettacoli più intensi, intelligenti, tecnicamente riusciti e artisticamente completi visti nelle ultime stagioni.
Inserito nello sdrucciolevole sentiero del centenario della prima guerra mondiale, il suo Milite Ignoto – quindicidiciotto mostra di non cedere alle tentazioni degli eventi “da anniversario”, destinati a durare quanto un cerino: al contrario, brilla di luce propria, solido e potente, figlio di quella stessa seria ricerca che nel tempo ha portato l’attore leccese a lasciare il segno con opere come Italiani Cìncali! o la trilogia su Antonio Ligabue da poco conclusa.
Ispirato alla raccolta di diari curata da Nicola Maranesi, Milite ignoto è storia individuale e collettiva di uno tra i milioni di giovani strappati a una vita normale e umana e scaraventati in quella disumana e surreale di una guerra non voluta e non capita. Maglia e calzoni quasi dello stesso colore dei sacchi di sabbia sui quali è seduto, Perrotta è l’unico soldato rimasto vivo dopo lo scoppio improvviso di una bomba. In un attimo ha perduto tutti i compagni e la memoria di sé, assimilando però quella degli altri, i loro nomi, le loro voci, le loro parlate dialettali. Simbolo di un’Italia che proprio nelle trincee, per la prima volta dopo l’unità, si incontrò faccia a faccia e cominciò a fondersi, il Milite ignoto di Perrotta racconta con le parole e con i cinque sensi gli orrori della guerra, la sua tragica assurdità, tra echi della grande storia e affondi nelle piccole storie di chi quella guerra, lontano dalle stanze del potere, la combatté davvero: contro un nemico invisibile ma presente; ma anche contro nemici più vicini e maledetti, come il freddo, la fame, i pidocchi, il fango putrido, la cancrena, la paura, mortali tanto quanto una granata o una pallottola nel buio, che in una frazione di secondo cancella una vita non ancora vissuta.
La voce di Perrotta è strumento sensibile che lavora di chiaroscuri, agendo ora sul significato ora sul suono in sé della singola parola e, nel contempo, di un incrocio di dialetti che si fa lingua nuova, aliena eppure viva, oltre che racconto e musica, monologo e dialogo. La posizione seduta, mantenuta per tutto lo spettacolo, acuisce la claustrofobia della vita di trincea e l’impossibilità di fuga da un destino imposto da altri. Solo la parte superiore del corpo si muove, in armonia o in contrasto con un narrato che si appoggia a tratti, ed efficacemente, a suoni e melodie che sembrano giungere da un’altra dimensione.
Dante di un inferno in terra, Perrotta è cantore di una storia tragica perché tragicamente vera. Pubblico ridotto, ma applausi scroscianti. Spettacolo assolutamente da non perdere.

(s)punti di vista

Per la Grande Guerra Perrotta diventa uno, nessuno, centomila

Uno, nessuno, centomila. Ma stavolta Pirandello non c’entra. C’entra Mario Perrotta che con il suo Milite ignoto – quindicidiciotto, all’Elfo lo scorso 20 giugno in anteprima milanese, porta in scena le voci dei soldati che hanno partecipato alla prima guerra mondiale. E lo fa creando una lingua universale, una babele di dialetti, dal lombardo al pugliese, dal veneto al siciliano, dal sardo al piemontese, che dà voce a quell’uno che diventa centomila o nessuno. Come lui stesso, unico superstite dopo “il grande scoppio”, ignoto a se stesso e agli altri, senza più memoria né identità.

Perrotta è in scena seduto su alcuni sacchi che venivano usati intorno alle trincee per proteggerle e inizia lo splendido monologo mescolando perfettamente parole, suoni e emozioni.
Le parole sono i lamenti di quanti per la prima volta hanno lasciato il loro paese e le loro famiglie per andare a combattere.
I suoni sono quelli delle bombe, cadenzati come virgole nel travolgente racconto. E i gesti sono quelli delle braccia, delle mani e del viso di Perrotta che, pur rimanendo seduto per tutta la durata dello spettacolo, riesce a dar vita allo spazio intorno a sé.
Poi, le emozioni. Quelle che nascono dal “vedere”, dal “sentire”, dall’ “odorare” il fango calpestato, il sangue raffermo, i volti scarnificati, l’orrore della guerra. Uomini degradati a miserie, mandati al fronte per combattere in nome della Patria contro nemici che vivono la loro identica spersonalizzazione. Eppure, dietro ogni “nessuno” ci sono centomila militi, con le proprie storie, le proprie domande senza risposte e le proprie paure. E allora eccola la prima vera unità d’Italia, in cui i confini non contano più e quei milioni di soldati diventano un corpo unico.

Lo spettacolo, tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La grande guerra, i diari raccontano, progetto dello stesso Maranesi con Pier Vittorio Buffa, è un gioiello teatrale che mette al centro della scena il racconto e il suo narratore, un Mario Perrotta in gran forma. Che non si ferma qui. Perché  Milite ignoto – Quindicidiciotto fa parte dello “spettacolo per due fronti” che punta lo sguardo anche sull’altro punto di vista – quello del nemico – in Prima guerra quattordicidiciotto firmato dallo stesso Perrotta, stavolta in scena con Paola Roscioli, sulle musiche eseguite dal vivo da Mario Arcari all’oboe, al clarinetto e alla batteria, e da Enrico Mantovani alle chitarre.

Un progetto che punta sulle piccole storie per esaltare la Grande Storia. Quella fatta da uomini, semplici contadini di tutta Italia catapultati loro malgrado in un contesto troppo più grande di loro. A tutti Mario Perrotta offre la possibilità di vivere in un corpo solo. Uno, nessuno, centomila. Anzi, milioni. Assolutamente da vedere.

Paper Street

Milite Ignoto – quindicidiciotto

“Alla fine siamo tutti seduti su una grande galera, remiamo tutti da schiattare, puoi mica venirmi a dire il contrario!… Seduti su ‘ste trappole a sfangarcela tutta noialtri! E cos’è che ne abbiamo? Niente! Solo randellate, miserie, frottole e altre carognate […] Adesso li abbordiamo, ‘sti porcaccioni che stanno sulla patria n.º 2 e gli facciamo saltare la pignatta! Alé! Alé! C’è tutto quel che ci vuole a bordo! Tutti in coro! Spariamone una forte per cominciare, da far tremare i vetri: Viva la Patria n.º 1! Che vi sentano da lontano! Chi griderà più forte, avrà la medaglia e il confetto del buon Gesù! Porco dio!”

Nell’articolo di ieri abbiamo anticipato che all’interno dell’edizione pilota dei Teatri della Cupa, c’è stato uno spettacolo che più di altri ha lasciato il segno. Le parole qui sopra, tratte dal capolavoro di Louis-Ferdinand Céline Viaggio al termine della notte, introducono quello che sarà l’argomento della pièce in questione. Nelle prime pagine del suo romanzo, infatti, lo scrittore francese porta i propri lettori nella prima guerra mondiale e nelle sue usuranti trincee. Con il suo pessimismo misto a cinismo, Céline descrive un incubo partendo dal basso, dagli ultimi, dai soldati che ricevevano gli ordini, e questo molto ha in comune con la messinscena di Mario Perrotta, Milite Ignoto – quindicidiciotto.

Proprio dalle trincee si parte. Perrotta è seduto su dei sacchi, quelli che venivano utilizzati per proteggere quei fossati, e lì resta per tutta la durata del monologo. La parte bassa del corpo rimane immobile, a muoversi sono le braccia, che disegnano fucili, baionette, corpi sfiniti; il volto, pronto a esprimere paura, sconforto, afflizione; e la bocca, abile edificatrice di parole atte a descrivere quell’orrore, così lontano dal delirio d’onnipotenza della coppia Conrad-Coppola [Cuore di Tenebra Apocalypse Now NdR], così vicino, invece, alla delirante impotenza di Céline. Con la sola parola, l’attore ci fa mangiare il fango dei soldati, annusare la polvere da sparo, toccare le vittime, vedere il milite, che proprio la negativa abbondanza di questa guerra trasformerà in ignoto.

Ma quello di Perrotta non è solo un viaggio sensoriale nella Storia. No, è molto di più. C’è ancora una parte del titolo dell’opera da considerare, quel “quindicidiciotto” giunto al suo centesimo anniversario, c’è l’Italia, ci sono gli Italiani. Da qui l’intuizione più grande dell’opera: far procedere il racconto tramite la concatenazione di dialetti differenti, far parlare i suoi personaggi con gli accenti della propria terra; mostrare i Fratelli d’Italia in tutta la loro diversità linguistica e culturale, per la prima volta insieme a lottare per la conquista di terre sconosciute in nome di una Patria di cui se ne conosce solo il nome e poco altro. Già, perché essa è “roba per la testa dei signori”, per gente che studia, cosa ne potevano sapere loro, che non uscivano nemmeno dalla propria città d’origine.

Nell’atrio del Palazzo Baronale di Novoli, dunque, l’attore leccese intreccia piccole storie di fratellanza per descrivere la grande storia, e lo fa annullando tutte le mie perplessità legate al luogo scelto per la messinscena. Assistere a uno spettacolo all’aperto, con i clacson delle autovetture, il chiacchiericcio della gente o i versi di animali vari come cornice, avrebbe potuto facilmente minare l’attenzione dello spettatore. Sin dalla prima battuta, però, i rumori esterni sono svaniti per lasciar spazio all’immersione totale nell’opera di Perrotta; e questo la dice lunga sulla anche sua maiuscola performance attoriale. A fine spettacolo il pubblico applaude in piedi questo Milite Ignoto. Tutto meritato.

Dramma.it

Primavera dei Teatri 2015

Con Mario Perrotta torniamo alla Storia, quella con la S maiuscola, parlando della Grande Guerra. Il centenario della Prima Guerra Mondiale, vede, quest’anno, numerosi convegni, studi, pubblicazioni, dedicati alla figura del soldato. Per la prima volta l’attenzione sulla Guerra del ’15- ’18 viene affrontata dal punto di vista del singolo, del privato, attraverso la lettura di carteggi, diari ed appunti personali che aiutano a comprendere il discorso dal punto di vista dell’individuo. La ricerca linguistica e storica di Perrotta presenta sulla scena il Milite Ignoto. Anche in questo spettacolo il discorso sull’individuo e sull’analisi dell’umanità attraverso il singolo, – filo comune in tutti gli spettacoli osservati tra il 30 e il 31 maggio, all’interno del Festival- porta alla luce un punto di vista completamente diverso. L’osservazione del microcosmo conduce ad una maggiore ed approfondita conoscenza e consapevolezza anche dell’evento storico che, al di là di date ed eventi, è costituito da migliaia di uomini. La tendenza all’analisi del privato e dell’individuo emerge costantemente anche all’interno della ricerca accademica, così come l’analisi del multilinguismo diventa elemento storico e culturale di enorme importanza. Il progetto di Perrotta è duplice, così come gli spettacoli: uno intitolato Prima Guerra Mondiale – Quattordicidiciotto, ed il secondo, osservato a Castrovillari, dal titolo Milite Ignoto – Quindicidiciotto. Come tutti ricordano, l’Italia entra in guerra nel 1915, ma dal 1914 la guerra è già in corso. Perrotta ricorda, dunque, anche gli Italiani del Trentino e del Friuli, austro-ungarici, che combattono sin dall’inizio, ma che poi verranno deportati e trucidati dalgi stessi Austriaci. A Castrovillari il milite ignoto italiano racchiude in sé l’unità linguistica di tutti gli Italiani coinvolti nella guerra, ma contiene anche il senso di un’unità mai realmente sviluppatasi in Italia, neanche dopo quella decretata ufficialmente nel 1861. Perrotta descrive migliaia di soldati, parlando in prima persona, facendo confluire tutti nella sua corporeità, quella del contenitore-milite ignoto che testimonia ciò che hanno visto centinaia di soldati. Lo spettacolo – reading in realtà appare come una corsa contro il tempo, attraverso parole semplici, diari e lettere che diventano un discorso unico puntellato da scoppi ed esplosioni in sottofondo, momenti di pause sonore che echeggiano angosciosamente nell’aria. L’osservazione e l’approfondimento, storico, letterario e linguistico, riportato in scena da Perrotta, rivela un lavoro a priori di grande difficoltà e soprattutto di grande attenzione scientifica. L’attore e autore ha ricreato una lingua unica, inventata, che è cucita insieme attraverso i dialetti di tutta Italia, interpretati e pronunciati dall’attore con estrema precisione. Inflessioni, pronunce ( basti pensare al gruppo consonantico “tr” della lingua siciliana, di difficilissima pronuncia, o alla lingua pugliese), e le cadenze, sono state studiate a tavolino con estrema attenzione. Lo stesso Perrotta afferma, durante la conferenza svoltasi a Castrovillari, che la difficoltà di questo lavoro è costituita anche dalla “sutura” effettuata tra i suoni finali delle frasi pronunciate in un dialetto, e quelli iniziali di una frase in un altro dialetto: lavoro linguistico e sonoro di enorme precisione e difficoltà. L’interpretazione di Perrotta catapulta lo spettatore nel fango delle trincee, ascoltandone i rumori, sentendo gli odori della putrefazione, osservando con gli occhi del Milite Ignoto, simbolo dell’umanità in guerra. Immagini cinematografiche prodotte nella mente degli spettatori, unicamente attraverso le parole, poiché l’attore rimane costantemente seduto in scena. Il progetto di Perrotta si lega anche al lavoro intrapreso dalla Fondazione dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve che dal 1984 accoglie i diari e i documenti donati da famiglie e privati, materiali di inestimabile valore, anche all’interno del discorso inedito sul Teatro del Soldato di cui mi sto occupando personalmente.

Saltinaria.it

Milite Ignoto – quindicidiciotto – Teatro Argentina (Roma)

Una serata unica non solo per la data, un’occasione nella quale il teatro dimostra tutta la sua vivacità dove l’attore diventa protagonista assoluto, superando il testo, peraltro credibile. Sono la voce più che la lingua, l’espressione più che il gesto, l’emozione più che il movimento a dominare la scena, unica, fissa, tono su tono con una luce centrale che scende e sale di intensità. Poderosa l’interpretazione del solista con un testo difficile, una sorta di lingua inventata, che balbetta e torna sillabando per una prova inedita di integrazioni tra le genti diverse che appartengono ad una patria: nome vuoto per chi è milite ignoto, ovvero straniero a se stesso. Prospettiva inedita, non solo perché narra storie e non la storia, ma per l’angolatura. Un sottobosco di emozioni filtrate attraverso il corpo che con il suo dolore diventa protagonista, che guida quel che resta della mente straniata dall’orrore della guerra.

Il Teatro di Roma ha accolto nell’ambito del suo progetto Guerre/Conflitti/Terrorismi, lo spettacolo di Mario Perrotta ispirato alle testimonianze dei soldati della Grande Guerra, Milite Ignoto – quindicidiciotto, andato in scena giovedì 17 settembre al Teatro Argentina per una serata unica e commemorativa. L’evento, in collaborazione con la Struttura di Missione per gli anniversari di interesse nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha inaugurato il Premio Pieve Saverio Tutino organizzato dall’Archivio diaristico nazionale e riservato alla raccolta di memorie, diari epistolari e scritture autobiografiche inedite degli italiani.

Riannodando i fili della Storia con una lingua d’invenzione che impasta tutti i dialetti del nostro Paese, Mario Perrotta racconta il primo, vero momento di unità nazionale, esperienza umana e politica, prima ancora che militare. Una guerra assurda che i veri protagonisti, i soldati delle trincee, vivono come estranea, così come un nome vuoto resta la patria, concetto freddo catapultato dai generali sui povere militi, per lo più ignoti. Tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La Grande Guerra, i diari raccontano a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, lo spettacolo riporta in teatro l’eco lontana delle voci e delle sofferenze dei soldati della Prima Guerra Mondiale che si incontrano in trincea, metafora della perdita di identità di un popolo disgregato nell’immane massacro. Il testo merita attenzione per la lingua che sembra formarsi in diretta sulla scena, dal balbettio iniziale a quel fluire con un fenomeno di dissolvenza sonora e un continuum di dialetti che mimano quella folla umana confusa e indistinta per i più, nella quale ogni uomo ha il suo timbro inconfondibile, l’unica nota identitaria che resta annegata nella melma, spesso nella nebbia e in mezzo a quel freddo così intenso che il nostro eroe continua a sentire a distanza di tempo.

L’attore è poderoso nella sua interpretazione, riempiendo da solo la scena con un esercizio che è a sua volta una prova di valore e di volontà: un ritmo incessante di parole per un’ora e un quarto. Il corpo resta ancorato al palcoscenico come prigioniero di quel fango che racconta mentre le sue braccia anelano a un volo, il petto si apre e la voce trionfa. Nulla di celebrativo, solo il grido di dolore di chi non ha magari nemmeno una lapide. Uno spettacolo sulla memoria di coloro che nessuno piange, che non hanno magari neppure una tomba alla quale portare un fiore.

Proprio nelle trincee di sangue e fango del primo conflitto mondiale veneti e sardi, piemontesi e siciliani, pugliesi e lombardi si conoscono e si ritrovano vicini per la prima volta, accomunati dalla paura e dallo spaesamento. Una condizione che diventa una vero e proprio straniamento: come quel silenzio interiore che il protagonista sente forte, un vuoto di memoria – non ricorda più neppure se ha una famiglia e in quale paese sia: sa solo di essere al nord e della presenza di un fiume – ché il botto è stato troppo forte. Eppure è questo l’ultimo evento bellico in cui il milite ebbe un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi il milite divenne “ignoto”, dimenticato in quanto essere umano con un nome e un cognome, un volto e una voce. E’ ignoto perché un numero dimenticato, ma è ignoto come racconta anche a se stesso, straniero, alienato.

Nella prima guerra mondiale, gradatamente, anche il nemico diventa “ignoto”, perché non ci sono più campi di battaglia per i “corpo a corpo” dove guardare negli occhi chi sta per colpire a morte, ma ci sono trincee dalle quali partono proiettili e bombe anonime, senza un volto da maledire prima dell’ultimo respiro. Un conflitto spersonalizzato in cui gli esseri umani coinvolti diventano semplici ingranaggi del meccanismo e non più protagonisti eroici della vittoria o della sconfitta. Così, seduto su sacchi da trincea, tra il fetore del sangue e della carne, Perrotta racconta le piccole storie, gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto quei tragici eventi per gettare altra luce sulla grande Storia. Suggestivo il ritmo ossessivo che coinvolge lo spettatore e lo costringe a inchiodarsi con lo sguardo al centro del palcoscenico in una prospettiva fissa e di fissità per rivivere e non semplicemente ascoltare quello che vissero – non che seppero – i nostri soldati.

All’inizio si viene disorientati dal fluire delle lingue che testimonia grande sottigliezza interpretativa non finendo mai in caricatura, sebbene l’ironia graffiante, il bisogno di prendersi in giro, consenta anche al pubblico qualche risata a mezza bocca, amara. Nei racconti c’è quello che la storia non ha raccontato: i cinque sensi vissuti dalla trincea, dove il naso ad esempio è lo schifo del fetore, la bocca l’asciuttezza di una saliva e di un gusto prosciugati e, ancora, le mani vanno a toccare quel residuo di virilità come a sincerarsi di essere ancora uomini. In questo passaggio c’è tutto lo strazio di una generazione di giovani sacrificati sull’altare della patria in nome dell’essere maschi, veri uomini, coraggiosi e valorosi per i quali perfino le donne si riscattavano in quanto generatrici di possibili eroi e patrioti. Una grande lezione di umanità e di polverizzazione dell’io generato dalla virulenza bellica, dove c’è posto anche per la consolazione religiosa promossa da preti che cercano di incoraggiare i propri connazionali assicurando che il Signore li proteggerà contro il nemico. Peccato che ogni paese abbia i propri preti, il proprio nemico e, verrebbe da dire, anche il proprio Padre Eterno. Un lavoro sincero e di grande energia che non urla ma sommessamente racconta e commuove lasciando sconcerto e amarezza, senza un posto per le lacrime, che nessuno asciugherà.

Teatrionline.com

Milite Ignoto, Mario Perrotta regala una serata indimenticabile

Quello scritto ed interpretato da Mario Perrotta all’ITC Teatro di San Lazzaro è uno spettacolo al quale si dovrebbe dare la massima diffusione. Milite Ignoto andrebbe proposto nelle scuole perché i giovani si possano calare nella ferocia e nella crudezza della guerra; dovrebbe andare in scena nei laboratori di teatro perché è la dimostrazione del vero talento autoriale ed attoriale che trasmette conoscenza, emozione e trasporto con il semplice uso della voce, muovendo solo le braccia mentre le gambe restano ferme e la posizione immutata per circa un’ora e mezza. E dovrebbe essere trasmesso in TV in prima serata da una rete nazionale, al posto di quella robaccia che ci propinano, tra programmi spazzatura e fiction scandalose in cui “compaiono” “personaggetti” che, pur diventando delle ricche celebrità, dell’attore non hanno niente e ne usurpano l’arte, disconoscendone qualsiasi significato.

Va dato atto che Milite Ignoto di Mario Perrotta è stato scelto da Radio 3 Rai per il centenario della Grande Guerra ed ha ricevuto il riconoscimento della struttura di missione per il Centenario della Prima Guerra Mondiale – Presidenza del Consiglio dei Ministri. A mio parere non è abbastanza.

In questo testo bellissimo e ricco di contenuti, l’attore, regista e autore di origini pugliesi non solo racconta la storia della Grande guerra, ricostruendo eventi e circostanze politiche, ma lo fa dal punto di vista degli ultimi, dei più deboli e dei racconti dei sopravvissuti, trasportando la platea nell’atmosfera cupa e disperata dei combattimenti. Da solo, si fa interprete di tanti personaggi e delle loro storie. A suo parere, la Prima Guerra Mondiale “è stato l’ultimo conflitto in cui al milite veniva riconosciuto un valore anche nel suo agire solitario; già alla fine del conflitto e poi in quelli successivi il milite divenne “ignoto”, nel senso di dimenticato, e privato anche di un nome e cognome che ne ricordasse il valore”.

La scena si apre, si svolge e si conclude con Perrotta seduto su un ammasso di sacchi, come quelli che si usavano per proteggere le trincee e per nascondersi dal nemico. Poca luce, qualche sporadico suono, nessun coprotagonista, solo lui, il suo volto poliedrico e la voce che si trasforma in tante voci e in tanti dialetti di giovani, spesso minorenni, che venivano mandati allo sbaraglio in nome di un’idea di Stato e di giustizia che non ha niente di giusto. La voce riproduce anche i rumori e le esplosioni, le braccia mimano gli scoppi e le baionette puntate per uccidere. Tutto è straordinariamente credibile.

L’artista rimane seduto su quei sacchi per tutta la durata dello spettacolo, muove solo la parte superiore del corpo e recita un testo ricchissimo di dettagli, di pathos e di lucida disperazione. Sembra stia recitando un’intera compagnia, come in un vero e proprio film pieno di protagonisti. Ogni dialetto traccia la personalità, la cultura e l’universo interiore di un milite proveniente dalle varie parti d’Italia: Veneto, Puglia, Trentino, Campania, Sicilia e ne rivela le fragilità, le paure, la rabbia per dover adempiere ad ordini insensati impartiti da ufficiali che non rischiano niente in prima persona.

Nella frase “Sono tutti e nessuno, sono il milite ignoto” si riassume il significato dell’opera. Per “tutti” si intende, probabilmente, il combattere per la causa nazionale e la solidarietà che si instaura nelle trincee alla base delle quali c’erano cadaveri putrefatti, escrementi e odore di morte. Ma si è anche “nessuno” perché il conflitto ammazza anche le individualità fino a trasformare questi figli, fratelli, mariti e padri in “ignoti”.

Pur avendo perso qualche ricostruzione storica del racconto perché bisogna avere una conoscenza anche didattica della storia mi è arrivato, fortissimo, il messaggio sulla guerra che non serve a nessuno e, soprattutto, non serve ai deboli che, come dice l’Autore, diventano “semplici ingranaggi del meccanismo e non più protagonisti eroici della vittoria o della sconfitta”. E credo che sia proprio il messaggio la cosa importante perché il teatro deve fare questo: raccontare storie e indurre alla riflessione. Per dirlo con le parole di Perrotta “questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia”.

“Fermati, pensa e ricorda…e poi silenzio” sono le ultime parole con cui si conclude lo spettacolo ma che hanno attivato un turbine emozionale che non abbandona e lo spettatore fa fatica ad alzarsi dal proprio posto per riprendere la propria guerra quotidiana che appare insignificante rispetto all’orrore autentico delle guerra vera.

Mentelocale.it

Il Cargo chiude? Tutto esaurito per Mario Perrotta

La voglia di teatro nel ponente genovese tuttavia continua a farsi sentire forte e chiara. Dopo il pienone e i lunghi applausi per il primo appuntamento della nuova stagione con Antonella Questa in Svergognata, ieri sera (6 novembre) tutto esaurito per il monologo sulla prima guerra mondiale ideato, scritto e interpretato da Mario Perrotta, già acclamato lo scorso anno per il suo Un bès Antonio Ligabue, primo atto di una trilogia intorno al pittore.
Un acrobazia in punta di lingua. Una, cento, mille voci, Perrotta incarna seduto su un cumulo di sacchi a evocare la trincea. Tante identità, ma lui è uno. Tante: tutte quelle che quell’uno sopravvissuto si ricorda: come monumento o scultura parlante. Perrotta incarna tutte quelle che l’idea stessa di milite ignoto rappresenta, ché dopo il botto non sa più il chi fossi, il da dove venissi, il che dicessi. Tra filo spinato, malattie, paura e morsi di fame tante identità regionali, tante parlate per la prima volta nella storia del nostro paese si incontravano e mescolavano, come stranieri nati nello stesso territorio perciò chiamati a difendere un’unica patria.
Piemontese, veneto, lombardo, toscano, romanesco, calabrese, napoletano, siciliano e altri ne ha nella sua feretra di dialetti Mario Perrotta, che aggiusta a seconda della platea. Come frecce queste parlate appuntano frammenti di umanità del ’15-’18, modi di guardare al mondo e alle cose, punti di vista di uomini, spesso ancora ragazzi (tra i 18 e i 20 anni), che per patria avevano fino ad allora avuto solo il proprio paese, la propria vallata, la propria piana. Ma quale patria? Quella era roba da gente studiata non da poveri contadini abituati a usare il giornale per pararsi dal sole o pulirsi il sedere.
Perrotta fa vivere ogni dialetto per l’arco di una frase o poco meno, lasciando subito spazio all’altro, ricostruendo un dialogo serrato nel buio fangoso di una guerra mortale che ha sterminato un’intera generazione – 4milioni e mezzo – gli stessi che per la prima volta uscivano dai confini noti e si ritrovavano in territori spaventosamente ignoti per andare contro il nemico – che poi erano altri giovani uomini, altrettanto sacrificati, smarriti e spaventati.
La narrazione è sincopata, fitta di sfasature, cadute, riprese. Rapida anzi rapidissima è come una corsa dentro un tempo aggressivo che coglie i suoi protagonisti continuamente di sorpresa. Il ritmo è quello episodico di una mente colta da squarci di immagini che affollano la memoria filtrati dagli organi spalancati sulla realtà: la bocca, il naso, gli occhi, le orecchie, le mani. Attraverso i cinque sensi Perrotta tesse ricordi e inquadra scenari di solitudine, desolazione, smarrimento, senso di inutilità, in una parola: guerra. C’è il freddo, il puzzo, il sangue, i pidocchi, lo sporco, il fango, i botti, i cadaveri, la cancrena, le grida, gli ordini, i lampi di luce come per la festa del santo patrono, ma non c’è spazio per la pietà: gli uomini sono prede da trincea, sono carne da cannone. E quando c’è chi incredulo sfida la follia della guerra e con una risata salta fuori della trincea, il racconto si interrompe, la danza delle mani e delle braccia di Perrotta si ferma: quel sorriso è colpito a morte, le braccia si aprono, il volto si piega da un lato, il corpo va all’indietro al rallenty, gli occhi si chiudono, il sorriso sparisce. Un silenzio assordante invade la sala, tutto è immobile e la morte va in scena senza bisogno di effetti splatter.
Scegliendo di restare seduto sui sacchi della trincea per tutto il monologo, Perrotta non rinuncia al movimento, ma è con la lingua o meglio le lingue che l’azione va in scena: le parlate restituiscono umori, sapori, toni speciali sfruttando la carica evocativa, idiomatica e culturale dei dialetti. A questo esperimento linguistico Perrotta lavora con incessante attenzione e altrettanta ne chiede al pubblico. L’acrobazia è reciproca oppure si perde il senso e il filo, ma l’interprete è generoso e coinvolgente, gli spettatori si lasciano trascinare.
Una lettura originalissima, critica e poetica della guerra, che ricorda come la chi li chiamava eroi mentiva a uomini semplici usati come carne da macello da sacrificare in un folle disegno. Una drammaturgia potente come uno scoppio, ma densa come il fango, fatta di linguaggio popolare, di dettagli fisici, che ha tutta la potenza evocativa del verso ma è sempre anche intensamente descrittiva.
Lunghi applausi e commozione tra il pubblico.

Recensito.net

Fratelli d’Italia, l’Italia s’è persa

Che vigliaccheria la guerra, quando a farla scoppiare sono “gli uomini studiati” e a subirla sono gli uomini comuni, i contadini, gli analfabeti, gente semplice per la quale il lavoro è sinonimo di fatica, il ragionamento di sopravvivenza quotidiana e la Patria – quella con la maiuscola, che avvicina i pugni ai petti – finisce con l’ultima casa del paese e non un metro oltre. Che sofferenza la guerra, quando a casa, lontana e neanche facilmente riconoscibile su una cartina geografica, restano madri, mogli, fidanzate, innamorate in attesa, appese a un tempo indefinito e illusorio. Che controsenso la guerra, quando quattro milioni e mezzo di soldati mandati al fronte, venuti dalle campagne, non riescono a capire un dialetto diverso dal proprio ma devono obbedire a una nazione di cui non conoscono i confini.
Mario Perrotta ha il dono di fare del teatro di parola narrazione della memoria. La memoria collettiva, sociale, storica ma anche intima e individuale, a colori o in bianco e nero, capace di penetrare il tessuto esperienziale di chi ascolta e rimanere, appunto, incollata. Lo ha dimostrato con il Progetto Ligabue, Premio Ubu 2015, lo rafforza con questo Progetto Grande Guerra dove la sua personale e sensibile visione sul primo conflitto mondiale si fa duplice e complementare. Se con Prima Guerra –  Quattordicidiciotto ha messo in scena una storia sconosciuta ai più e mai insegnata, quella delle vicende subite da tutte le popolazioni austriache di lingua italiana (trentini e giuliani), con Milite Ignoto – Quindicidiciotto (tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi) entra nelle viscere dello scontro bellico, ponendosi direttamente in trincea, dalla parte di chi resiste, di chi è mandato al massacro.
L’attore salentino, seduto su alcuni sacchi di sabbia, è un corpo lucente di rara potenza drammaturgica; completamente immobile con la parte inferiore del corpo, costruisce un’ora e mezzo di monologo fatto di braccia, mani, spalle, testa, occhi, bocca, parole e voci. Le voci di fanti lombardi, piemontesi, liguri, emiliani, toscani, laziali, campani, pugliesi, calabresi, siciliani, sardi, che Perrotta fa vibrare ed emergere attraverso dialoghi veloci ed efficaci, tanto da far apparire la scena calcata da più interpreti.
“Una vera unità democratica. Non c’è più Nord o Sud, la merda è merda per tutti”. E sembra quasi di sentirlo, l’odore dello sterco, così come quello del fango, che punge, penetra e infetta il corpo dei soldati disperati, del sangue raffermo e dell’urina che scalda ma imbratta. Perrotta agisce su un cortocircuito temporale che rende la Grande Guerra ancora viva e attuale, dopo più di cento anni, e sembra quasi risvegliare una memoria fisica tangibile, tanto da trasformare la sua narrazione in un racconto di sensi: occhi spalancati nel buio pesto tanto cercato, desiderato, che Perrotta fa paura ma anche protezione, e a riflettere i bagliori delle esplosioni delle bombe sganciate dal cielo, luminose come i fuochi nelle feste patronali; orecchie che si perdono tra botti “come tuoni di tempesta che non portano pioggia ma metallo” e “respiri di ansia”; naso bruciato dallo schifo dei fetori che arrivano dal basso come fossero “avvisi infernali”; bocca secca, con la lingua attaccata al palato; mani che impastano il sangue con la terra, a toccare i petti dei compagni che son lì gomito a gomito, corpo a corpo.
“Di civile non hai più niente. Ti aggrappi al primo cristiano che trovi nel buio”. E l’attore e drammaturgo procede in questa sua scalata sulla trincea, dove il “dio fango” miete vittime quanto i proiettili dei nemici, aggrappandosi alla propria forza interpretativa, plasmando la Storia in un flusso drammatico che spinge il climax sul finale, in quella corsa contro l’artiglieria nemica che condanna i soldati mandati allo sbaraglio a una morte al buio, una morte ignota.
Mario Perrotta ci offre con umanità e delicatezza un taglio crudo e viscerale della Prima Guerra, un racconto attento, commovente e folgorante di milioni di uomini chiamati ad affrontare il mondo per la prima e ultima volta, dimenticati dalla storia e dalla patria, e la possibilità di assistere al prezioso rito collettivo della trasmissione della memoria.
Nella babele di lingue “sono tutti e nessuno, sono il milite ignoto”.

Cronaca Oggi Quotidiano

Nelle trincee con i soldati dimenticati, al Centro Zo di Catania “Milite Ignoto – Quindicidiciotto” di Mario Perrotta

Il Centro Zo di Catania ha ospitato, per la rassegna “Altrescene”, uno spettacolo forte, immediato, di intensa affabulazione che evoca sentimenti, rabbia e ricordi di un mondo che attiene ai dimenticati della Grande guerra, quella del ’15-’18, dove tanti soldati (quattro milioni di analfabeti in divisa) dimenticati – tanti nessuno, uniti dallo stesso tragico destino – morirono tra fango, disperazione, indifferenza. Lo spettacolo in questione è il monologo dell’attore leccese Mario Perrotta, Milite Ignoto – quindicidiciotto, già finalista al premio Ubu 2015 come migliore novità italiana, inserito tra gli eventi del programma ufficiale per le commemorazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri e scelto da Radio 3 Rai per il centenario della Grande Guerra.

Lo spettacolo, di puro teatro di narrazione, è tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e dal progetto La Grande Guerra, i diari raccontano a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi per Gruppo editoriale L’Espresso e Archivio Diaristico Nazionale.

La pièce, in 70 minuti, non cala mai di ritmo, anzi si fa sempre più incalzante e vede protagonista – su una scena vuota, solamente con dei sacchi di sabbia nel buio di una trincea – un convincente ed incisivo Mario Perrotta che agitando le braccia, con gesti evocativi, pur mantenendo immobile il suo corpo dal busto in giù, racconta microstorie, stati d’animo, piccole verità, sguardi e parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione: soldati nell’inferno, nel mare magnum di morte e di indifferenza della Grande guerra, dove si moriva senza un perché. Soldati che continuavano a chiedersi sempre le stesse domande (“per chi? per cosa, sono morto?”) e che dovevano sacrificare la vita per la patria e l’onore, beni spesso idealizzati dagli alti comandi.

Solo sulla scena uno straordinario Mario Perrotta racconta le storie del “milite ignoto” (essere umano con nome, faccia e voce) con un linguaggio nuovo, frutto di un mix di dialetti, nato dall’incontro al fronte, in trincea, tra il soldato bresciano e quello calabrese, tra il siciliano ed il bolognese, tra il pugliese ed il marchigiano, tra il sardo ed il veneto, tutti accomunati dalla paura e dallo spaesamento per quell’evento più grande di loro. Ecco venir fuori, quindi, da una moltitudine di dialetti, una lingua d’invenzione magica, quasi musicale, che finisce per sottolineare le tragedie ignorate di tanti soldati e che consente al protagonista di narrare episodi drammatici, di solitudine e smarrimento e contemporaneamente di condanna per chi stava al potere, al comando – come il generale Cadorna – e che usava e considerava quei soldati come “carne da cannone”.

Lavoro davvero eccellente per la sua dirompente forza narrativa e che, grazie alla straordinaria e veemente interpretazione di Mario Perrotta, con quella lingua nuova ed intrigante, regala al pubblico una serata davvero preziosa per ripensare, per riflettere, delle brutture, delle assurdità di tutte le guerre, sempre inutili ed incomprensibili e per dare la giusta collocazione, una identità definita, a tanti militi ignoti spariti nel fango, tra il sangue e la paura di quelle trincee, mentre ancora oggi si celebrano inutili anniversari e si dedicano, si intitolano piazze, strade, Monumenti ai Caduti, mentre servirebbe solo restare in religioso silenzio e coltivare il ricordo, ascoltare la voce, la storia, il sacrificio dei tanti “Militi ignoti”. Proposta assolutamente di alto valore, da vedere e che il pubblico ha molto gradito ed applaudito tributando notevoli consensi ad un esemplare Mario Perrotta.

Teatrionline.com

Milite Ignoto – quindicidiciotto

Al Piccolo Teatro di Milano un altro grande esempio di cosa sia il Teatro, quello vero in cui pulsano vita, intelligenza, arte, idee, sentimenti… e non, come purtroppo troppe volte accade, un insieme di attori che paiono essere per caso sul palcoscenico a recitare testi che di certo non li aiutano per la loro superficialità, carenza di idee e mancanza di passioni profonde.

Milite Ignoto (come il precedente Ma’ per la regia di Latella) mostra che per fare Teatro in modo da coinvolgere il pubblico e lasciare un segno non occorrono tanti orpelli, dispendiose scenografie e cast magniloquenti, ma può essere sufficiente un unico attore purché bravo e supportato da un testo intelligente e capace di far riflettere.

Mario Perrotta (Lecce 1970) attore, regista e drammaturgo più volte vincitore del premio Ubu (il più importante del Teatro italiano) ha ricordato il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale (che per l’Italia è il 1915) con un’opera intensa, originale che parla alla mente e al cuore degli spettatori per la molteplicità dei temi trattati e lo fa con toni sommessi e non urlati, e forse per questo ancor più incisivi. Un esempio raro in un’epoca in cui dalla televisione al web si ha poco rispetto dell’intelligenza degli ascoltatori ritenendo l’urlo, l’insulto e l’invettiva gli strumenti più adatti a raccogliere consensi, ma che in realtà servono a nascondere la carenza di argomentazioni, la scarsa preparazione, la presunzione e la pochezza delle proposte.

Seduto su sacchi di terra o di sabbia (simili a quelli con cui si proteggevano le trincee) con la parte inferiore del corpo immobile, affidando ai movimenti di mani, braccia, viso e occhi il compito di sottolineare le parole, Perrotta ha scelto di parlare della guerra vista non dalle alte sfere (della politica o dell’esercito, che predicano molto, elaborano strategie (spesso perdenti) comodamente seduti nei loro confortevoli uffici (che esistono sempre anche quando sono nelle vicinanze del fronte) e che non subiscono nessuna privazione, ma dagli ultimi della gerarchia militare: i soldati che la guerra la patiscono quotidianamente sulla propria pelle messa a rischio per motivi spesso incomprensibili e lontani dalle loro aspirazioni e dai loro interessi.

Il conflitto che ha dilaniato l’Europa dal 1914 al 1918 rappresenta il passaggio da una guerra ‘umana’ nella sua disumanità a una in cui si perde ogni contatto tra i contendenti: i combattenti divengono sempre più ‘ignoti’ (nelle contrapposte trincee i soldati si parlavano, s’insultavano e a volte si vedevano) e il fronte sempre più teorico rischiando la vita spesso di più chi vive lontano dalla cosiddetta ‘prima linea’. La guerra diviene quasi un tragico gioco, anzi videogame, in cui armi sempre più sofisticate e telecomandate portano morte e distruzione ovunque e le vittime sono numeri statistici senza un volto, senza un nome, per l’appunto ‘ignote’.

Il lavoro di Perrotta ha, quindi, una valenza che partendo dalla Grande Guerra si proietta su tutti i conflitti successivi e futuri.

Per il nostro Paese – sottolinea l’autore/regista – la Guerra 1915-1918 (probabilmente quella con il maggior numero di soldati morti) ha rappresentato il primo momento di vera unità nazionale, in cui tutti (non solo le classi colte) hanno percepito di far parte della stessa comunità nazionale e si sono conosciuti facendo cadere pregiudizi dovuti alla non conoscenza. Lombardi e Siciliani, Toscani e Calabresi, Pugliesi e Piemontesi… si sono trovati fianco a fianco nel fango delle trincee o a scavare la montagna realizzando un’incredibile rete di camminamenti e piazzuole per i cannoni e hanno iniziato a ‘scoprirsi’ e rendersi reciprocamente conto che ‘gli altri’ erano simili e avevano problemi analoghi.

Perrotta per rappresentare le difficoltà di comprensione dovuta alla babele dei dialetti ha creato una lingua formata da parole dei singoli idiomi (straordinaria l’armonia fonetica ottenuta), strumento fondamentale per rendere da un lato palpabile la confusione linguistica delle trincee e dall’altro esprimere in modo incisivo e originale lo spaesamento e lo sgomento di uomini strappati da affetti, abitudini e paesaggi consolidati per divenire ‘numeri ignoti’ in ambienti sconosciuti. Essere umani obbligati a combattere e morire in un evento di cui in gran parte ignoravano i motivi (salvo gli slogan) e da cui avrebbero ricavato solo fatica e dolore, una guerra che – così come i soldati ‘nemici’ – combattevano per permettere ai ricchi e ai potenti (che stavano al riparo, lontani dal fronte) di accrescere potere e ricchezza.

La guerra 1914-1918 fu, come giustamente sostiene Perrotta in un bellissimo e commovente passaggio della performance, la prima in cui milioni di esseri umani sono divenuti ‘ignoti’ essendo stati privati della loro identità.

Quelle raccontate sono piccole storie di uomini che hanno vissuto e subito quegli eventi e li hanno descritti con parole semplici e piene di dolore nelle lettere che inviavano ai familiari, documenti raccolti ne La Grande Guerra, i diari raccontano realizzato da Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi per il Gruppo Editoriale L’Espresso e l’Archivio Diaristico Nazionale ed elaborati nell’opera Avanti sempre di Nicola Manaresi.

Poco più di un’ora d’intense emozioni che restituiscono una pagina di storia alla sua dimensione reale ripulendola dagli orpelli della retorica e riconsegnandola a centinaia di migliaia di ‘eroi per forza’ che di quegli eventi sono stati protagonisti e vittime.

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Ombre inchiodate alla trincea

Raccontare la Grande Guerra lontano dalla grancassa delle celebrazioni, ma non per questo sottovoce e in sordina. Lo spettacolo di Mario Perrotta è un urlo straziante, un’osservazione della Storia attraverso le storie dei piccoli, i ragazzi che quella guerra l’hanno fatta per davvero. Un respiro di grande teatro, che si regge su un testo potente (opera dello stesso Perrotta) e una recitazione straordinaria, che merita pienamente la fama e i riconoscimenti di critica e pubblico nei due anni di vita dello spettacolo (nel novembre scorso al Piccolo Teatro di Milano e per una sera al “Manzoni” di Monza, interessante polo culturale attrattivo e coinvolgente per la cittadina).

Sfrondata ogni retorica e orpello, la narrazione si raggruma attorno a un polo centrale: il confine immaginario della trincea è un mucchio di sacchi di sabbia, che troneggia in mezzo alla scena; lì sopra viene a sedersi Perrotta: per tutto il monologo la parte inferiore del corpo resterà immobile (omaggio al Beckett di Giorni Felici), mentre la voce e le braccia disegneranno nell’aria il racconto.

L’incipit dal sapore epico e dai colori di un viaggio dantesco agli Inferi è di grande impatto. Attraverso l’immediatezza del “tu” Perrotta ci accompagna dentro la guerra, che è anzitutto esperienza del corpo. Arrivi a destinazione con il treno, di notte. Sei completamente disorientato. Ti affidi allora all’unica certezza, quella dei sensi. Avanzi nel buio e cominci a “sentire” la guerra: lampi dei segnalatori, colpi di mortaio che forano i timpani, lamenti dei feriti, fetore acre dei corpi vivi e dei cadaveri lasciati a marcire, mentre i tuoi stivali affondano in una melma vischiosa e indistinta, il «dio fango» che condizionerà i tuoi passi, ti mangerà i piedi nella cancrena, ti darà la febbre e coprirà i tuoi compagni uccisi.

Ecco l’ouverture, un “benvenuti all’inferno” cadenzato sul ritmo della lenta camminata sensoriale della recluta, un vortice ritmato in crescendo che cattura subito il pubblico, avvolto da uno strano senso di spiazzamento. La trincea infatti fu voragine in cui si sgretolarono i sogni di un’intera generazione, botola che spalancò l’abisso, ma anche spazio ristretto di confronto e condivisione. I ragazzi italiani di un secolo fa, che conoscevano a malapena il recinto geografico del paesello, catapultati a centinaia di chilometri da casa, si trovano a convivere gomito a gomito con altri fratelli italiani, che parlano una lingua diversa dalla loro. La lingua allora necessariamente si piega e la grammatica dei sentimenti espressa dai dialetti si contamina, in un groviglio emotivo scandito dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza.

Questo personaggio che ci parla è un’ombra, un fantasma ancorato al suo posto di guardia sui monti. Racconta di essere l’unico sopravvissuto della compagnia, decimata da un micidiale colpo di granata, ma ha perso la memoria della propria identità. Folle, vivo o morto? Non è chiaro, ma non importa: egli è corpo unico e spersonalizzato, un milite «ignoto perfino a se stesso», pretesto narrativo e delicata strategia simbolica per connotare la sua voce sola verso una vocalità corale.

Una coralità che è raggiunta soprattutto attraverso l’artificio linguistico. Egli infatti ha assorbito la lingua di ogni suo compagno e si esprime in un idioletto instabile e magmatico: una frase inizia con la cadenza siciliana e sfuma nelle tonalità musicali del veneto. E poi la pastosità del napoletano si apre alle rotondità emiliane, scivola verso il piemontese e termina con una bestemmia in toscano. Ogni periodo è una costellazione e sovrapposizione di ritmi e coloriture linguistiche, un mosaico di identità sgretolate, veicolate attraverso la lingua.

Egli è dunque il fiato di tutti e di nessuno, la voce di un’ombra, un genius loci della trincea e sentinella della memoria. «Te, tu, ti, te tu, tu veh’» è l’apostrofe iniziale, che chiede attenzione e invita a ricordare. Forse il personaggio si rivolge a se stesso, a quel guazzabuglio di identità che egli ha assorbito dai compagni morti. Ma lo stesso refrain plurivocale si ripete alla fine, e allora siamo noi i convocati al ricordo. Non quello magniloquente delle parate, delle corone di fiori e delle lapidi al macellaio Cadorna. La memoria che fa giustizia dei tanti uccisi si aggruma invece nelle targhe vuote, quelle delle storie singole e dimenticate. Non gli eroi ma i tantissimi ragazzi mandati allo sbaraglio, inerpicati su dirupi, divorati dal gelo, bruciati da una pallottola in un momento di distrazione o nella corsa folle dell’assalto.

Nelle parole semplici di questi «inalfabeti», il precipitare degli eventi che porta alla catena di dichiarazioni di guerra, pare un gioco incomprensibile di «gente coltivata» senza preoccupazioni, e allora pensa, litiga e alla fine «perde la crapa», mandando al massacro le masse dei contadini. E così i nomi di Trento, Trieste e l’ideale di Patria, sono tutte parole vuote per chi ogni giorno sperimenta l’Orrore.

Il Milite Ignoto di Perrotta ci chiede ricordo e silenzio. Il suo fantasma torna ad essere inghiottito nel buio, lasciando il pubblico stretto dall’emozione, che si scioglie in dieci minuti di applausi. Meritatissimi.

Dramma.it

Milite Ignoto – Quindicidiciotto

Con l’estetica del miglior teatro di narrazione questo monologo drammaturgico compone una favola surreale o surrealistica dove il sogno confonde la materialità sanguinante di una vita in guerra, posta ripetutamente di fronte alla morte tanto, alla fine, da quasi desiderarla. L’attore narratore compone e scompone le identità molteplici di quegli anonimi soldati mandati dal loro piccolo paese a morire in trincea nella Grande Guerra. Lo fa utilizzando e miscelando le disparate lingue e dialetti di cui ciascuno era portatore e che, proprio nella reciproca diversità, lo rendeva compagno di quelli che come lui aspettavano impauriti l’ultimo boato. Così le identità molteplici e multiformi diventano una, diventano l’unità di un comune destino, un destino di rabbia e di paura che scoperchia le ipocrisie e le menzogne di chi quella guerra volle ma non combatté. Anche questi ultimi sono molteplici, si chiamino clero e politici, re e alti comandi, ma in fondo anche loro sono uno solo (il capitale), come quelle vite al massacro intuivano forse senza capire. La narrazione diventa dunque drammaturgia di voci e di suoni, capace di accogliere il pensiero di tutti e di ciascuno. Prende vita così un milite ignoto, quello della consapevolezza, cui nessuno rende omaggio e che ancora aspetta su quelle montagne, ormai da cent’anni. Commovente anche se con qualche passaggio di troppo in cui l’attenzione incespica. In scena il bravo Mario Perrotta che ha scritto il testo dal libro Avanti sempre di Nicola Maranesi e dal progetto La Grande Guerra, i diari raccontano a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi. Una produzione Permàr – Archivio Diaristico Nazionale – DUEL – La Piccionaia.

Ok Mugello

Eccezionale il “Milite Ignoto” di Mario Perrotta al Corsini

“Fermati, pensa e ricorda …poi il silenzio” ed un brivido percorre il pubblico accorso a Barberino per lo spettacolo di Mario Perrotta Milite ignoto.

Un brivido che va a sommarsi a tutti gli altri brividi che durante il racconto hanno ricordato a tutti gli orrori di una guerra assurda combattuta da soldati che neppure conoscevano i luoghi che avrebbero dovuto conquistare.

Mario Perrotta al Corsini con il nuovo spettacolo tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi e dal progetto La Grande Guerra, i diari raccontano a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, scelto da Radio 3 Rai per il centenario della Grande Guerra, è solo in scena a dare voce ad un’intera trincea.

Seduto su di un cumulo di sacchi di sabbia parla 20 dialetti diversi che sottolineano la confusione di lingue di giovani che fino allo scoppio della guerra pensavano che la loro “patria” fosse il paese dove vivevano. Ragazzi che non avevano studiato, mandati a combattere come “Carne da cannone”.

Mario Perrotta, che avevamo già visto in Mugello con Il misantropo, Italiani Cìncali! (per il quale ha ricevuto la targa della Camera dei Deputati), La Turnàta e Un bès – Antonio Ligabue per il quale ha vinto il premio Ubu nel 2015, è straordinario e quando allarga le braccia sembra riempire il palco, in questo spettacolo bellissimo fatto solo di parola, parole per ricordare tutti quei ragazzi senza un nome ed un cognome sacrificati per qualche chilometro quadrato di terra.

Uccisi più dal fango dal freddo e dalla febbre dei pidocchi che dalle pallottole i ragazzi raccontano la loro disperazione nell’attesa di un assalto che non viene comandato.

Eccezionale il pezzo del prete che benedice i ragazzi assicurandoli che Dio sarebbe stato dalla loro parte, peccato solo che anche il prete degli austriaci avesse fatto la stessa rassicurazione ai suoi…quindi fermati, pensa e ricorda, poi…il silenzio!.

Albengacorsara.it

Terreni Creativi 2017 seconda serata

[…] Finale con un nuovo cambio di registro, con Milite Ignoto – quindicidiciotto, monologo di e con Mario Perrotta, autore-interprete già più volte presente alle rassegne di Kronoteatro. Un soldato, seduto su alcuni sacchi e con magnifici ulivi a fare da sfondo, è reduce dalla Grande Guerra. Ha perso parzialmente la memoria, ricorda i fatti, ma non sa più chi è. È nessuno, è tutti, e i mille dialetti di un popolo che la guerra unì in maniera tragica si alternano continuamente nel testo, con una qualità di scrittura altissima e una fortissima interpretazione di Perrotta, che si conferma autore e attore tra i migliori in circolazione. […]

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