Mario Perrotta

Rumor(s)cena

Ligabue “Pitùr” interiore dai colori bianchi “Si dipinge col cervello e non con le mani” (Michelangelo) “La più grande ragione del dipingere è che non c’è ragione di dipingere” (Keith Haring) “Voglio dipingere la verginità del mondo” (Paul Cezanne) CASTROVILLARI – Se nel primo capitolo della trilogia dedicata da Mario Perrotta a Antonio Ligabue, “Un […]

Ligabue “Pitùr” interiore dai colori bianchi

“Si dipinge col cervello e non con le mani” (Michelangelo)
“La più grande ragione del dipingere è che non c’è ragione di dipingere” (Keith Haring)
“Voglio dipingere la verginità del mondo” (Paul Cezanne)
CASTROVILLARI – Se nel primo capitolo della trilogia dedicata da Mario Perrotta a Antonio Ligabue, “Un bes”, era l’uomo ad emergere, con il solo narratore in scena con pennelli e grandi tele, in questo secondo passaggio, “Pitùr”,esplodono i fantasmi, le ombre, i pensieri tenuti nascosti, le idee. Il tutto prima della grande festa sulla piazza di Gualtieri, il paese adottivo del pittore, nel giugno 2015. Un protagonista nel primo, otto nel secondo (sette sulla scena, sette come i colori che compongono l’arcobaleno, più lo stesso Perrotta laterale), ottanta nel terzo, in una moltiplicazione biblica. L’otto con tutte le implicazione di numerologia che punta all’infinito, al salto con l’asta dell’uomo verso l’oltre, cercando la propria natura, la spiegazione al suo stato, al suo essere, al suo pensiero.
Nella mente, risolta scenicamente con un bianco latte che fa da fondale con pannelli moventi che creano un anfiteatro e semicerchio dove al suo interno si agitano attori e danzatori ognuno dei quali prende le forme e le sembianze e le parole e lo stupore di Ligabue. I bianchi sui bianchi si sprecano: bianche le giubbe ed i pantaloni, che ne fanno una “divisa” da internato, bianchi gli schermi, il tutto come un terreno vergine e pulito dove poter appendere, come panni al sole, i colori vermigli e pieni della natura, quelli accesi della lotta, quelli sfolgoranti e robusti di campagne e animali, quelli della vita.
La scena, raffinata e fine, poco popolare potremmo dire, sembra l’opposto di ciò che abbiamo sempre visto e letto e sentito e studiato riguardo al “pittore mat”. Se dentro il bianco domina fuori era assiepato ed assiderato ed accerchiato dai colori così accesi da essere violenti ed aggressivi. Come burattini si muovono al suo interno: “Il mondo è tutto una marionetta” (gancio e ponte teatrale) che rende vivi i dipinti e morti gli uomini che popolano quella sua realtà contaminata. Solo gli animali sono veri perché non riescono a fingere: sono quello che sono senza maschere: “La gente è tutta un manicomio”.
Le persone sono personaggi, nulla più. Pannelli che sono cerchio e recinto e arena e chiusura. Il mondo non ha fantasia senza il pennello del pittore che regala vita e profondità al reale. Nelle danze, ora che pare ricordare quelle balinesi, adesso tribali, il rimando, sublimato e poetico ed etereo, del Ligabue en travestì per cercare ispirazione, per cercare immedesimazione urlante, oppure si riescono a scorgere i tratti leggeri di galli e tigri nell’intento dell’aggressione difensiva.
Certamente un lavoro più intimo e difficile “Pitùr” che ci mostra un Perrotta che si fa da parte, anche se la sua presenza scenica è sempre folgorante e corposa: in disparte, come direttore d’orchestra rimane in un angolo dentro una cornice tra piccoli tocchi di dialetto, qualche didascalia di ossessioni ed assilli guardandosi allo specchio con gli altri Ligabue che arrivano al suo capezzale per confrontare l’occhio ed il mento, lo scavo del naso e l’infosso dello zigomo.