L’Odissea di Mario Perrotta
Raccontare un’attesa per riflettere su una assenza.
Ricorrere al mito per parlare al presente.
Abbandonarsi ai ricordi per scuotere emozioni, pensieri e stati d’animo troppo a lungo repressi.
È questo il multiforme e complesso varco attraverso cui Mario Perrotta, in Odissea, passa, tra epicità e quotidianità, per osservare l’attuale generazione e provare ad affrontare un problema sociale: il rapporto tra padri e figli, oggi. Alla luce di una alterazione della figura genitoriale sempre meno in grado di svolgere il suo ruolo di guida e sempre più intenzionata a restare infantilmente giovane, nell’abbigliamento così come nelle responsabilità.
Ma nel compiere questo studio e scriverne, l’autore leccese non è a una storia moderna che ricorre, bensì è alla riscrittura di un personaggio omerico che si affida: si tratta di Telemaco, figlio di Ulisse, destinato come la madre ad attendere il ritorno del padre mai conosciuto e dunque a fantasticare su di lui. Così come ne parla la gente e come la sua fantasia decide sia. Tra rabbia e disillusione. Mentre il mare si staglia imponente come il confine senza limite che lo separa da lui, e che mai gli restituisce il desiderato ritorno.
A fare da sorgente emotiva da cui attingere sensazioni, parole, storie e memorie, la vita personale e affettiva dello stesso Perrotta, inevitabile fucina di esperienze da portare in scena una volta tradite e rielaborate secondo sguardi esterni («È sui “sarebbe potuto” che ragioniamo noi che giochiamo al teatro. Il gioco è dare corpo al possibile, a ciò che non siamo ma avremmo potuto o voluto o, addirittura, odiato essere», afferma) ma anche la sua terra, il Salento, alla cui musicalità linguistica l’interprete affida la tensione dell’intero monologo, lasciando che il suo corpo, così come il suo viso e la sua gestualità ne diventino complici. Complici in grado di esaltarne l’efficacia espressiva e di ricrearne le atmosfere che abitano ed evocano.
Ed è così, allora, che in una danza di voci, suoni e richiami la storia dell’io parlante si trasforma e senza tregua percorre luoghi e anni, volgendo lo sguardo all’originale Odissea del poeta greco, ma al contempo attualizzandone le narrazioni e i significati custoditi; senza che mai interruzione – di enfasi e di attenzione da parte di chi ascolta e osserva – ci sia all’interno del racconto, nel solco di quella cifra stilisticamente meritoria che contraddistingue il lavoro dell’attore e regista, vincitore del Premio Hystrio alla drammaturgia 2009 proprio con questo testo.
Sul palco, insieme al saltimbanco Perrotta/Telemaco, immagine di un se stesso che caricaturalmente si confessa alla ricerca – sembra – di una (s)drammatizzazione in grado di lenire il dolore, i musicisti Mario Arcari (oboe, clarinetto e batteria) e Maurizio Pellizzari (chitarra e tromba), fondamentali riferimenti nello svolgimento del plot che in essi trova sensibile valorizzazione e puntuale contrappunto, armoniosamente sposandosi con i versi in rima e i giochi di parole a cui il protagonista affida tutta la sua affabulatoria narrazione.
Una narrazione che di luoghi, viaggi, approdi e partenze fa metafora e monito e che ancor più acquista senso ambientata – così come è – all’interno del Cantieri navale Postiglione di Baia, storico luogo di rimessaggio e manutenzione di barche, guscio perfetto al cui interno accogliere l’opera, in linea con gli intenti di conoscenza e rivalutazione di una terra – quella dei Campi Flegrei – che la rassegna Efestoval che la ospita ha scelto con plauso di perseguire. Tra passione e testimonianza. Tra scoperta e ostinazione.