Odissea calata nel nero del mare
Narratore di spicco, già protagonista di due fortunati spettacoli – Italiani, Cìncali! e La turnata – sull’emigrazione in Belgio e in Svizzera dei nostri lavoratori negli anni Cinquanta, Mario Perrotta coraggiosamente prova a cambiare strada: nell’Odissea è ancora solo alla ribalta, ma la sua scelta espressiva sembra trascendere la narrazione vera e propria per orientarsi a una più ampia forma di monologo, mentre il taglio “civile” lascia il posto a un’inquieta vena introspettiva. Anche l’abbigliamento povero, dismesso è sostituito da un’incongrua giacchetta da artista di varietà. In questa variazione sul tema, dell’Ulisse classico resta ben poco, qualche rimando allusivo, qualche episodio sottratto al suo contesto e calato nel clima del Sud pettegolo e invadente dei nostri giorni. La vicenda è vista infatti con gli occhi di Telemaco, il figlio che scruta le onde pensando a quel genitore partito per chissà dove, lasciandolo alle prese con le maldicenze del paese e con una madre che non vuole più uscire di casa: e le sue avventure marine sono evocate come le fantasie di un ragazzo che si aggrappa a sogni eroici per colmare il vuoto dell’assenza paterna. Il testo, che deve ancora trovare la giusta fluidità, svela guizzi di forte tensione poetica: il racconto – bellissimo – dell’incontro col Ciclope, che è il momento più vicino al poema omerico, e poi la figura di Antonio, il pescatore ritenuto dalla gente un pò demente, che offre al ragazzo la risorsa delle sue infinite storie: il gesto con cui egli sguscia le cozze e le restituisce al mare per nutrirlo ha un che di solenne e ancestrale. Più in generale, prende qui risalto tutto ciò che riguarda proprio il mare, entità oscura e imprevedibile, forse la vera presenza centrale dello spettacolo. Ma il nucleo vivo della vicenda resta comunque il nodo di insanabile dolore che caratterizza l’identità di quel figlio cresciuto senza padre: un viluppo di sentimenti complessi, che gli impone di sostenere in pubblico le mirabolanti prodezze dell’uomo, e di esprimere dentro di sé un rancore sordo nei suoi confronti. Perrotta mette in questi umori l’eco di uno strazio profondo, forse non privo di richiami a un vissuto personale: torna anche qui, in ogni caso, quel tema della lontananza – da casa, dagli affetti – che era anche la nota dominante dei due lavori sull’emigrazione. E proprio in questo senso l’attore pugliese è bravo a cogliere l’occasione per un’evidente crescita interpretativa, più ancora che drammaturgica: la parlata della sua terra, a contatto con l’antica materia mitica, si arricchisce di inedite sfumature, e la recitazione trae vigore dal confronto con le musiche originali – di sapore vagamente etnico – eseguite in scena da Mario Arcari e Maurizio Pellizzari. Ho visto lo spettacolo in una palestra di Carpaneto piacentino, davanti al solito pubblico attento a partecipe che rende ancora più emozionanti le serate teatrali fuori dai circuiti urbani.