Omero in Salento
(recensione su studio estivo)
Se con i recenti Italiani cincali! e La turnata Mario Perrotta (Lecce, 1970) si è confrontato con il tema del viaggio, raccontando dei migranti salentini in Belgio e Svizzera, non sorprende che oggi abbia deciso di affrontare il mito di Ulisse, attraverso una personale interpretazione dell’Odissea omerica presentata in forma di studio all’interno del circuito dei festival estivi. Si tratta di una sorta di reading, con tanto di leggio, di una drammaturgia che si arricchirà – a detta dello stesso interprete – di elementi fisico-visivi nella versione definitiva prevista per la tournée invernale, a cominciare da un maggiore impiego delle risorse espressive del corpo dell’attore, qui costretto ad una sostanziale immobilità per la scelta di una forma espositiva quasi oratoria. Accompagnato in occasione dello studio estivo dalle musiche suonate dal vivo dai Têtes de Bois, Perrotta ripercorre le vicende di Odisseo attraverso la prospettiva del figlio Telemaco. L’epos omerico è però sottoposto ad un processo di attualizzazione con l’intento di istituire rimandi ed interferenze tra mito e cronaca come nel caso dell’episodio di Circe, in cui si dileggiano le manie sessuali di una società – quella contemporanea – che nell’eros cerca l’oblio ed il riscatto dalle frustrazioni del negotium quotidiano. La narrazione è ambientata in un iper-realistico Salento, abitato da personaggi-macchiette dai tratti popolareggianti e fantastici, come nel caso dell’Antonio “delle cozze” che, seduto di fronte al mare, come un novello rapsodo racconta a Telemaco le avventure di suo padre. Più che alla tradizione omerica, tuttavia, la caratterizzazione di Ulisse sembra ispirarsi all’interpretazione dantesca (non a caso l’eroe non tornerà alla propria famiglia) ed incarnare, quindi, l’ansia umana di conoscenza. Ma si tratta di una bramosia di sapere che agli occhi di Telemaco corrisponde ad un inspiegabile abbandono: è un rapporto, quello tra il padre ed il figlio, che si consuma tra la nostalgia per un genitore mai conosciuto ed il rancore per un’assenza che comporta sradicamento e disidentità. E qui la materia omerica si sostanzia ed invera attraverso un’eco autobiografica nel ricordo del proprio padre emigrato a Bergamo, come lo stesso performer raccontava in Italiani cincali!. Similmente ai suoi più recenti spettacoli, anche l’ultimo lavoro di Perrotta si inserisce nel solco del cosiddetto teatro di narrazione: tuttavia, rispetto al consueto schema del narratore che affabula in prima persona, senza mai trasfondersi in quell’altro da sé che è il personaggio, Perrotta demanda l’enunciazione scenica ad una dramatis persona d’invenzione, presentandosi dunque – secondo i classici meccanismi del teatro di rappresentazione – come mediatore tra una fabula ed un pubblico in quanto “attore narrante”. Il modello della narrazione, per di più, si arricchisce in quest’ultima pièce di soluzioni ispirate alla tradizione dell’avanspettacolo primo-Novecento, nel gioco dialettico di provocazioni e punzecchiature tra la scena e la sala e nella scrittura imperniata su un incalzante affastellamento di giochi di parole e qui pro quo verbali, attraverso rime ed assonanze scandite da marcette da café chantant, che sottintendono e perseguono un virtuosismo esibizionistico capace sempre di coniugare l’impegno civile al ludus scenico.