Mario Perrotta e i suoi migranti venuti dal mare
[…] Ormai si è fatto buio, il sole è calato. Riprendiamo il cammino nella semioscurità. Di nuovo sul pullman per andare incontro alla sera, al monologo che Perrotta ha scritto adattando il diario autobiografico Lireta non cede, finalista del Premio Pieve Saverio Tutino nel 2012 ed edito quest’anno da Terre di mezzo in sinergia con l’Archivio Diaristico Nazionale. Perrotta lo ha scritto attraversando tutti i punti nevralgici di questa vicenda personale colma di coraggio, di pulsioni materne, di sofferenze indicibili. E lo ha scritto – soprattutto – per tradurlo in una sorta di melologo cucito addosso all’eclettica personalità artistica di Paola Roscioli, mettendo insieme teatro di narrazione, afflato simbolico e lirico, richiami brechtiani, teatro-canzone. Galleggia sull’acqua trasparente di Acquaviva il palcoscenico a cielo aperto che, illuminato da un faro puntato sulla vetta di una scogliera, si popola di tutti i ricordi della protagonista. Ed è un ricordo natio a segnare l’incipit del lavoro: le note straordinarie del duo composto da Laura Francaviglia (chitarra) e Samuele Riva (violoncello) ci sospingono a guardare all’orizzonte, immaginando quell’Albania stagliata in lontanaza da cui Lireta fugge giovanissima. Una. Due. Tre volte. L’attrice è di spalle e guarda la sua terra, le dedica uno straziante canto popolare. Le chiede di venire qui, al di la del mare, in Puglia. Munita di una voce molto intensa e calda, la Roscioli tesse la tela di un’intera vita: la fame, le violenze subite dal padre, la dittatura, il sogno di emancipazione, gli uomini sbagliati, il viaggio della speranza con una bimba di appena un anno sopravvissuta tra le onde maligne, il rimpatrio, la seconda partenza, una nuova casa/patria in Sicilia, la delusione sentimentale e poi, finalmente, la costruzione concreta di un’esistenza decorosa da condividere con un uomo innamorato e quella figlia quasi naufraga che Lireta ha difeso con tutta la sua ancestrale forza di madre. L’attrice alterna pathos e distacco, dà voce a tanti personaggi diversi, isola alcuni passaggi per interpretarli cantando, quasi fossero materia di una canzone alla Kurt Weill: interni alla vicenda eppure emblematici di tante altre vicende simili. Lo scenario d’intorno è talmente bello da togliere il fiato. Ogni tanto distrae dalla visione/ascolto ma Lireta ci accompagna sempre. Sta lì, sopra al mare, a smuoverci pensieri e interrogativi. Questa donna albanese dagli occhi chiari e il corpo minuto (anche lei a Lecce per la presentazione del suo Diario alla Fondazione Palmieri) ha avuto il coraggio di raccontarsi e di rivivere il suo terrore. La nostalgia è in agguato, anche nei suoi occhi. E lo spettacolo – forse solo leggermente lungo – non potrebbe che chiudersi come si è aperto: con quell’invocazione alla propria terra che è poi un’invocazione a noi. A tutti. A chiunque.