Promesse
Dietro agli Italiani cincali! di Mario Perrotta, progetto teatrale in due tappe, c’è un baule. Invisibile ma incombente. Uno di quei bauli dove ci metti tutto: i ricordi, i documenti scaduti, i vestiti smessi, gli oggetti d’affezioni remote. Mario ci è andato a frugare in quel baule, a ritrovare la memoria di un passato recente. Di un passato italiano recente e che, stranamente, si è dissolto come nebbia al sole e non ce n’è traccia alcuna nei discorsi sull’emigrazione che si fanno oggi. Già perché ieri erano gli italiani a partire per le miniere del Belgio o per la Svizzera o per la Germania, erano quelli i «paradisi». Oggi sono i turchi, i marocchini, gli «altri». E non c’è tolleranza che tenga, sguardo che riesca a voltarsi indietro anche di poco. Eppure, i testimoni di quel periodo hanno oggi quaranta-cinquant’anni, nel pieno della maturità. Come il protagonista de La Turnàta, che ripercorre – stralciandola dai racconti, veri, di emigranti che Mario Perrotta e Nicola Bonazzi hanno raccolto e riarrangiato – il ritorno a casa alla fine degli anni Sessanta. Il viaggio disperatissimo e travagliato di una famiglia di emigranti dopo anni di sacrifici e privazioni in quella Svizzera che era un paradiso così visto dal basso da sembrare inferno. Il racconto di Nino, allora un bambino di nove anni, è un racconto di sguardi, di frasi mozze soffiate rapide in dialetto, di vite clandestine (i figli degli emigranti non erano ammessi e allora i genitori, per averli vicini, li segregavano in casa per mesi e anni), di carezze ruvide e fugaci, di frammenti di politica che diventa un gioco di calcio (comunisti contro padroni), di pezzi di sogno da andare a disseppellire sotto un albero d’ulivo. Perrotta è un fiume in piena, la faccia bella da italiano del sud, due mani grandi ad abbracciare l’infinito, quel fisico forte e mediterraneo che gli emigranti andavano a macerare in miniera, E racconto ma anche denuncia, delle condizioni desolanti di vita, dei governi italiani che dimenticarono gli emigranti, di situazioni che si ripetono oggi con altre facce, altri colori di pelle, altri nomi e una stessa razza: umana.
Erano chiamati cìncali, «zingari», gli italiani di ieri. Disprezzati, sfruttati, spinti alla disperazione fino a riportarsi a casa in macchina il nonno morto (costava troppo denunciare il decesso e il trasporto) fingendolo vivo, un bimbo clandestino, un amico sindacalista indagato dalla polizia, marito e moglie. Un’odissea lancinante, con squarci improvvisi di poesia come la storia del pastore che chiamava le pecore con il nome dei morti per sentirli ancora vicini. Una bella storia. Da vedere, dopo il debutto al Festival Bella Ciao, al teatro romano dell’Orologio e in tournée per l’Italia.