Mario Perrotta

La Repubblica – Milano

Svizzera andata e ritorno con i racconti di Perrotta Il bel monologo del Teatro dell’Argine sui nostri emigranti al Verdi Dopo averci spiegato l’anno scorso che gli emigranti italiani erano chiamati cìncali, cioè zingari, ai tempi in cui eravamo noi i “vu cumprà” in cerca di lavoro per l’Europa, Mario Perrotta nel secondo spettacolo da […]

Svizzera andata e ritorno con i racconti di Perrotta

Il bel monologo del Teatro dell’Argine sui nostri emigranti al Verdi
Dopo averci spiegato l’anno scorso che gli emigranti italiani erano chiamati cìncali, cioè zingari, ai tempi in cui eravamo noi i “vu cumprà” in cerca di lavoro per l’Europa, Mario Perrotta nel secondo spettacolo da lui creato con Nicola Bonazzi per la Compagnia del Teatro dell’Argine passa alla denuncia del leghismo persecutorio degli svizzeri contro i lavoratori italici, furente negli anni ’50 e ’60 a cui risale la sua precisa poderosa documentazione, e ancora attivo oggi verso le minoranze arrivate magari dalla Turchia o dal Marocco. Armato solo di una sedia e di un sorriso, il narratore affronta stavolta con un eloquio infiorato di pugliesismi La Turnàta, cioè la storia di un ritorno in patria che vorrebbe chiudere simbolicamente la brutta avventura di un popolo di disoccupati. Ma la premessa si diffonde sulle incredibili norme imposte a questi “stagionali”, esculsi da ogni possibile normalizzazione da contratti-capestro tali da impedire perfino la convivenza coi coniugi e la permanenza nella confederazione dei figli nati lì. Dopo inizia un viaggio di un simbolico ritorno da Zurigo a Lecce, ambientato nel 1969, quando i nostri stagionali elvetizzati erano 700.000, e ironicamente paragonato alle spedizioni lunari. Per raccontarcelo Perrotta assume il ruolo del piccolo Nino, nove anni trascorsi murato in casa, per essere colpevolmente nato in Svizzera, chiuso magari in un armadio, come al passaggio della frontiera nel baule. Accanto a lui, sull’Alfa di questo attraversamento di mondi, ci sono il padre alla guida, la madre a sua volta ex-clandestina, un amico operaio sindacalista e, con un cappello calato sul viso, il nonno morto che comincia a puzzare ed è la causa del viaggio, per evitare le spese di spedizione del cadavere e seppellirlo al paese. Il racconto è quindi frastagliato e continuamente mosso, incrociando briciole di conversazioni a una sorta di scoperta. E al di là delle parole, spesso smozzicate o ridotte a esclamativi significanti c’è l’espressività folgorante di Perrotta sulla sua sedia su una scena vuota che si riempie di evocazioni e di una protesta che valica il tempo per raggiungere i giorni nostri, le colpe dei politici e dei governi, mentre un bambino vede per la prima volta gli ulivi.