Voci dissepolte… per ascoltare le grida di oggi
Bologna – Quando gli emigranti eravamo noi, non molti anni fa. “Cìncali” ci chiamavano, in Svizzera: il suono era bello, sembrava un complimento a chi non masticava quelle lingue nordiche. Voleva dire “zingari”, o qualcos’altro di spregiativo. Ce lo racconta l’ultima rivelazione della schiatta dei narratori, Mario Perrotta, in un monologo teso, intelligente, commovente, capace di trascinare fino all’entusiasmo il pubblico, Italiani cìncali!. E’ stato presentato all’ITC di San Lazzaro, un teatrino appena fuori Bologna dove il Teatro dell’Argine, sta puntando tutto su una drammaturgia impegnata a ricostruire la memoria e a riflettere sui nostri tempi. Questa intelligente compagnia ha da poco presentato L’attentato, con la regia di Luigi Gozzi, sullo sparo contro il duce di Anteo Zamboni che aprì, nel 1926, la strada alle leggi speciali; con un gran numero di giovani l’anno scorso ha allestito Cronache da un mondo perfetto, uno spettacolo simile a un gioco di ruolo che precipitava lo spettatore in un colpo di stato, imponendogli non solo di guardare ma anche di prendere posizioni. Perrotta inizia in mezzo al pubblico partendo, come Paolini nel Vajont, dalla propria infanzia, negli anni Ottanta: da quei treni diretti dal suo Salento a Milano-Chiasso-Basilea-Schaffausen-Stoccarda e oltre dove lui veniva caricato per andare a Bergamo a raggiungere il padre, emigrato “per scelta”. Affidato a una di quelle famiglie piene di bagagli e vettovaglie che affrontavano un viaggio interminabile per ritornare al luogo di lavoro, sospese fra la terra che lasciavano, che non era più la loro, e un’altra, lontana, che ugualmente non era mai diventata la loro casa. Facce, atteggiamenti, calore, silenzi perplessi nella nebbia del mattino al risveglio nella pianura padana ci precipitano subito in uno sradicamento, in una sofferenza simile a quella dei disperati delle carrette del mare di oggi. Apparentemente meno violenti, meno minacciati da rischi di morte. Ma il seguito della storia smentirà questa prima nostra sensazione, precipitandoci in un inferno di cui abbiamo perfino cancellato il ricordo. L’attore si trasferisce sul palco, su una sedia, dove racconta un episodio di quella emigrazione, quella in Belgio, subito dopo la guerra, per lavorare nelle miniere di carbone. Narrerà su due piani, montando, insieme con il drammaturgo Nicola Bonazzi, materiali raccolti in un lavoro di indagine sviluppatosi per oltre un anno in molti luoghi, in paesi della Puglia, ma anche di altre regioni del sud, e pure del nord-est produttivo, entrando nei bar e chiedendo: avendo, dopo un primo imbarazzo, quasi sempre la stessa risposta: tutti emigranti, anche in quei posti dove ora il benessere attira poveracci da altre parti del mondo. L’attore diventa Pinuccio, il postino che ricostruisce le storie di un paese abbandonato da tutti gli uomini, attirati in Belgio da un manifesto che prometteva lavoro, guadagno, una buona casa e possibilità di ricongiungersi presto con le famiglie, e ritorna voce che giudica fornendo dati, smontando le versioni ufficiali, raccontando l’inferno del lavoro in miniera.
Sì, perché quelle promesse nascondevano un viaggio in vagoni piombati, come i deportati ai lager nazisti, il soggiorno in baracche malsane, la discesa nel ventre della terra, fino a oltre mille metri nel sottosuolo, fino alla “vena 25”, sdraiati a scavare carbone, seminudi, a temperature impossibili, fra i topi e il pericolo di crolli ed esplosioni di grisu. Le promesse nascondevano una deportazione e un immondo scambio della giovane democrazia italiana, che vendeva braccia al Belgio in cambio di sacchi di carbone per far funzionare le sue industrie. E il viaggio verso la speranza di un lavoro, per sfuggire da latifondi abbandonati e dalla fame, nascondeva umiliazioni di visite, selezioni, rifiuti, e poi una vita d’inferno, circondata dal disprezzo degli “ospiti”. Ma non è uno spettacolo indignato, questo. I dati sono tanto agghiaccianti da non dover essere troppo sottolineati: quando elencherà i morti, anno per anno, fino all’esplosione di Marcinelle, 1956, più di duecento seppelliti, bruciati vivi nelle gallerie esplose, più di cento italiani, la voce sarà secca, le luci fredde. Più colorito sarà il racconto delle assenze: la vita del paese rivissuta dal postino, unico uomo valido rimasto, con episodi gustosi e veri e propri atti di pietà, la lettura delle lettere alle donne analfabete cercando di rendere più tollerabile la realtà terribile, il peso delle assenze, le boccaccesche consolazioni delle vedove bianche, il rifiuto di giacere con la più bella ed eccitante, la moglie del grande amico, l’invenzione di rassicuranti lettere inesistenti del suo uomo morto in un incidente sul lavoro. Fino al cambiamento dei tempi, fra l’esplodere del boom economico sintetizzato da una canzone di Celentano e il ritorno di molti. Lo spettacolo fila per più di un’ora ricostruendo un mondo (apparentemente) lontano dal benessere, dall’egoismo attuale. Voci dissepolte, che si allargano dalla miniera ad altre situazioni, alla Svizzera, a quell’epiteto ingiurioso “Cìngali”, che forse viene dalla morra, cinq, giocata dai veneti, meridionali come gli altri, sradicati, disprezzati. E si chiude con i segni di quegli anni sui corpi, sui polmoni pietrificati dalla silicosi, sull’attesa di donne invecchiate che non vedranno tornare più quei ragazzi che le avevano lasciate pieni di speranze, con le voci di Ascanio Celestini, Beppe Barra, Laura Curino, Elio De Capitani che riportano alcune delle testimonianze raccolte, voci che piano piano sfumano nel buio, come quei tempi, quelle sofferenze. Questo lavoro, che ha ricevuto un riconoscimento della Presidenza della Camera dei Deputati, chiude a Bologna la sua prima tournée (e ci auguriamo che possa girare ancora). E’ l’inizio di un progetto più ampio dedicato al lavoro italiano all’estero, per riflettere sul passato e per guardarsi intorno, come fa Perrotta alla fine, quando interrompe gli applausi entusiasti per ricordare un’esplosione di oggi, in una miniera di Valona, Albania. Ancora morti, ancora.