Mario Perrotta

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Alla Galleria Toledo Storie di emigrazione Italiani cìncali! – lo spettacolo in scena a Galleria Toledo, scritto da Nicola Bonazzi unitamente a Mario Perrotta, che ne è anche il regista e l’interprete unico – impone allo spettatore una profonda, severa e accorata riflessione sul lavoro e l’esistenza marginale di quegli italiani che, per sopravvivere e […]

Alla Galleria Toledo Storie di emigrazione

Italiani cìncali! – lo spettacolo in scena a Galleria Toledo, scritto da Nicola Bonazzi unitamente a Mario Perrotta, che ne è anche il regista e l’interprete unico – impone allo spettatore una profonda, severa e accorata riflessione sul lavoro e l’esistenza marginale di quegli italiani che, per sopravvivere e dar da mangiare alle loro famiglie, furono costretti, negli anni ’50, alla vigilia del boom economico, ad emigrare in Belgio, e qui a lavorare e, non di rado, a morire nell’inferno delle miniere di carbone: l’esempio più eclatante è, come è noto, quello della miniera di Marcinelle. Una riflessione che però, come si può facilmente dedurre dall’architettura, peraltro perfetta, dello spettacolo, nonché dall’impianto “ideologico” che ne plasma i contenuti, non può e non deve restare semplice astrazione speculativa, ma dare corpo ad un coinvolgimento emotivo e ad un sentimento di viva partecipazione alle sorti, spesso tragiche, degli operai che, nella fatica e nel sudore, videro svanire tutte le loro speranze, traditi da uno Stato che li vendette “per un sacco di carbone”: anime immolate sull’altare di quel capitalismo e di quel benessere, di cui non poterono mai godere i frutti che avevano contribuito a creare.
E a tal proposito, viene quasi naturale riportare le parole, dure ma appassionate, che Karl Marx scrisse in Manoscritti economico-filosofici del 1844 riguardo al lavoro: “[…]Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio. Produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l’altra parte[…]”.
Dunque, Mario Perrotta, in un’ora e mezza circa di spettacolo, ci regala l’umanità semplice e sincera di quegli operai-emigranti: svelandone le emozioni più intime, le sofferenze quotidiane, i sentimenti di nostalgia, i moti d’orgoglio, l’amore per le donne lasciate al paese, il tutto per bocca di un postino, simbolica figura di affabulatore di fatti ed emozioni, depositario della “parola” e, di conseguenza, del “mythos”. Mythos che qui intendiamo come racconto, tale che – facendo riferimento all’approccio strutturalistico dello studioso italiano Pettazzoni – esso non è finzione né favola, ma storia vera: in quanto narrazione di fatti accaduti in una condizione antecedente e determinante la realtà attuale perché capace di mettere in moto forme rituali utili alla società. Insomma, il postino magnificamente interpretato da Perrotta diviene, per una sorta di scivolamento metonimico, il segno scenico della memoria e, quindi, allegoria di un teatro di impegno civile.
Perrotta racconta, con fervido incanto ipnotico, non disdegnando qualche giusto slittamento verso una dimensione più ironica, utile a non appesantire il percorso drammaturgico, della tragedia di Marcinelle (262 morti), lasciando che immagini vivide dei fatti tragici dell’8 agosto del ’56, prendano forma davanti ai nostri occhi e si imprimano, con tutta la loro violenza emotiva, nella nostra memoria e nella nostra anima. A tal proposito, ci sembra interessante riportare le parole di una delle firme più autorevoli del nostro giornalismo, Igor Man, che nella “miniera Belgicca” – come fa dire Perrotta al suo postino originario del Salento – è sceso per tentare, come dice lui stesso, di dare una testimonianza “della discesa nei pozzi, di quel che significa frugare nell’intimo della terra profonda alla ricerca del carbone”. Il racconto è pervaso da una sensazione di profonda angoscia: “Al colmo della breve salita c’è una strozzatura, strisciamo nel carbone attraverso un breve tunnel non più ampio di cinquanta centimetri. Come accade di soffrire negli incubi si va avanti a fatica, il respiro mozzo, con addosso tutto il peso del mondo. Evasi dalla strozzatura eccoci in piena taglia, vale a dire il filone del minerale, proprio dentro il carbone. Trasferiamo il corpo affaticato su uno scivolo di lamiera, largo quaranta centimetri, inclinato a trenta gradi e prendiamo a scivolare col carbone che i minatori vi gettano implacabili a palate. Rassegnatamente scivolo sprofondando in un abisso senza fine. Da quando ho indossato la divisa del minatore ho abdicato alla mia volontà, non mi è neanche concessa l’autonomia di un gesto, né riesco a formulare pensiero che non sia legato all’immediato presente”. È la stessa angoscia che pervade lo spettatore quando, sulle scene, Perrotta racconta la vicenda di Michele, un minatore che, con orgoglio, si infilava nei cunicoli stretti della miniera, sfidandone la pericolosità e mettendo a rischio la propria vita.
Una drammaturgia vibrante di poesia realistica, cruda e tenera ad un tempo, una regia attenta e perfettamente calibrata nell’adattare la scrittura drammaturgica alle esigenze sceniche, un’interpretazione intensa, a tratti commovente, fanno di Italiani cìncali! uno spettacolo da non perdere. Uno spettacolo che lascia il segno, polemico, duro, implacabile nei confronti di un potere politico cinico e senza scrupoli, capace di sacrificare i suoi cittadini in nome di quel progresso che, da sempre, costituisce la giustificazione ipocrita e vergognosa addotta dai governi di fronte alle guerre o alle sciagure come quelle di Marcinelle, del Vajont, del Frejusse ecc. Uno spettacolo amaro, in cui la paura, le pene, gli affanni di un’esistenza povera e fragile avvolgono tutto, anche quei brandelli d’amore rubato per non sprofondare negli abissi della più tetra solitudine.