Un esempio di narrazione civile in scena in un luogo evocativo, il Magazzino del Tabacco di Solagna
Solagna. Il “Mat” di Solagna, bisogna vederlo per crederci. È un enorme fabbricato nel centro del paese, ex filanda, ex magazzino di stoccaggio per i tabacchi e, da qualche anno, sede di un’associazione, il “Centro artistico culturale Bartolomeo Ferracina” che, sotto la spinta dei proprietari Ermanno Tresoldi e Paola Michio, anima la vita culturale di questo pezzo della Valbrenta. Nei tre piani che formano l’edificio si trovano ampi saloni, mostre permanenti d’arte e di antiquariato e, in alto, uno spazio adibito ad auditorium. Lì, sotto un soffitto ad alte capriate di legno, Operaestate ha presentato Italiani Cincali!, intenso monologo scritto da Nicola Bonazzi e Mario Perrotta, da quest’ultimo brillantemente interpretato. Tema del racconto, l’epopea dei minatori italiani in Belgio, narrata non da un testimone diretto ma da uno che è rimasto a casa a raccogliere e divulgare le parole di chi l’inferno della miniera lo viveva davvero. Pinuccio, postino di un piccolo paese del Salento svuotato dall’emigrazione, ha il compito di recapitare le lettere che arrivano dal Belgio e di leggerle ai destinatari. Dapprima i resoconti sono carichi di speranza per la fine di una miseria vecchia di secoli che il lavoro – seppure duro, pesante, lontano da casa – promette finalmente di riscattare. Poi, col passare degli anni, la fatica e i pericoli di un’esistenza disumana smorzano ogni entusiasmo e i racconti si fanno duri, pieni di rabbia e di disillusione. Pinuccio esercita una benevola censura, elimina dalle sue letture i passaggi più disperati, cerca di tenere acceso un barlume di speranza nell’animo di chi è rimasto a casa ma queste penose bugie gli rodono l’anima, lo rendono cinico e cattivo. I manifesti rosa che, appena finita la guerra, invitavano le masse dei disoccupati ad approfittare di un’interessante occasione di lavoro, a poche ore di treno da casa, ospitati in “confortevoli alloggi”, nascondevano una subdola trappola, ordita di concerto dai governanti belgi ed italiani. Il lavoro in miniera era duro al di là di ogni immaginazione, il pericolo di incidenti mortali costante, il rischio di ammalarsi di silicosi praticamente garantito, i “confortevoli alloggi” non erano altro che le baracche dei lager nazisti, appena un po’ ripulite. E, come spesso accade, i residenti trattavano gli immigrati con disprezzo: li chiamavano “cincali”, zingari.
Dire che la miniera è un inferno non è metafora ma precisa descrizione. Un luogo nero e buio scavato nelle viscere della terra, torrido, pieno di polvere, animato da esseri nudi che si aggirano a tentoni per le gallerie, costantemente minacciato dal fuoco: che cos’è se non un infernale girone di pena? E quegli uomini che scendono a centinaia di metri sotto terra e strisciano per ore in tetri cunicoli scavando, spalando e puntellando all’infinito, cosa sono se non anime dannate, condannate ad un tremendo supplizio? Per porre fine a questa vergogna – perpetrata nel cuore dell’Europa poco più di cinquant’anni fa – c’è voluto un disastro più grande degli altri, di quelli che, regolarmente, ammazzavano una cinquantina di minatori all’anno. L’8 agosto del 1956, a Marcinelle, un carrello impazzito provocò un furioso incendio nel quale morirono 262 operai, 136 dei quali italiani. Allora si capì che qualcosa bisognava fare per aprire le porte di quell’inferno e per restituire i dannati alle loro case. Mario Perrotta racconta con tono vibrante e partecipe la rabbia di Pinuccio e rende credibile la vicenda del narratore salentino e dei suoi sfortunati compaesani emigrati al nord. Un bell’esempio di teatro “civile” che il pubblico radunato al terzo piano del “Mat” ha lungamente applaudito.