Il Teatro dell’Argine e il dramma dei minatori italiani morti in Belgio. Per non dimenticare
Ci sono storie che fanno ridere e piangere e sconvolgono il modo stesso di guardare le cose. Ci sono storie raccontate bene, anche molto bene, che rendono superflua ogni costruzione formale. Ci sono storie, infine, che ci strappano i paraocchi, invalidano in un istante decenni di menzogne, vanificano ogni retorica. Sono storie Italiani cìncali! andato in scena sabato all’Auditorium di Ponteranica nell’ambito della stagione organizzata da Erbamil per i Circuiti teatrali lombardi. Italiani cìncali! è la produzione che sta rivelando il bolognese Teatro dell’Argine. Tra l’altro, è l’unica narrazione di un gruppo che, per il resto, predilige gli strumenti classici della drammaturgia. Uno spettacolo di ottima fattura in cui Mario Perrotta alterna con grande perizia la narrazione pura al monologo di narrazione, il racconto storico all’invenzione scenica, il tragico al comico. È merito di una buonissima tecnica, merito anche del testo, scritto a quattro mani con Nicola Bonazzi, uno dei tanti giovani autori da tenere d’occhio. Ma non è per questo che Italiani cìncali! sconvolge. I buoni spettacoli e le buone giovani compagnie non mancano. A sconvolgere è il tema, una delle pagine più nere della nostra storia. È la vicenda degli emigranti italiani in Belgio tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni sessanta. Di quella vicenda oggi si ricorda a malapena la catastrofe di Marcinelle, il crollo della miniera e la morte di centinaia di uomini. Il tutto in genere (esistono poche eccezioni) è avvolto nel drappo patriottico e servito con un’abbondante retorica sugli “italiani povera gente”: ovvio, altrimenti il boccone non andrebbe giù. La realtà è diversa e la narrazione di Perrotta ha il merito di rievocarla senza imboccare nessuna scorciatoia patetica, senza astio, ma anche senza falsa pietà. Il governo italiano stipulò con il Belgio, appena dopo la guerra, un trattato: uomini in cambio di carbone, un tanto a persona. E serviva sbarazzarci di disoccupati sicuri, fonte altrettanto sicura di guai. Tutto questo sullo sfondo di due Paesi distrutti, un’Europa affamata, un’Italia da poco democratica. L’Italia rispettò l’accordo, reclutando emigranti ovunque: il 70% nel Nord Italia. Solo che agli emigranti non si raccontava che cosa gli aspettava: la miniera, un chilometro sotto terra, strisciando dietro la vena di carbone, a scavare la propria tomba in cambio della silicosi. Attraverso la figura del postino di un paese pugliese (l’unico uomo rimasto, l’unico alfabetizzato) Perrotta ricorda tutto questo. E in qualche modo cura una ferita mai rimarginata nelle nostre coscienze: la ferita inflitta dal silenzio in cui queste vicende sono, per troppo tempo, sprofondate.