Mario Perrotta

Il Mattino

Con Perrotta nel «cuore amaro» di Marcinelle La miniera. È il simbolo proverbiale del lavoro più duro e pericoloso, dunque pure l’emblema, sanguinante e fiammeggiante, della santità del lavoro. E forse per questo le miniere son potute diventare, talvolta, persino il crocevia di purissime epopee politiche: giacché presso i minatori belgi – e figuriamoci, con […]

Con Perrotta nel «cuore amaro» di Marcinelle

La miniera. È il simbolo proverbiale del lavoro più duro e pericoloso, dunque pure l’emblema, sanguinante e fiammeggiante, della santità del lavoro. E forse per questo le miniere son potute diventare, talvolta, persino il crocevia di purissime epopee politiche: giacché presso i minatori belgi – e figuriamoci, con un polmone bucato dalla tubercolosi – trovò asilo il mio compagno Michalis Lilis, lo scrittore comunista greco (tradusse Marx) in fuga dai sicari dei colonnelli.
Ebbene, proprio le miniere di carbone del Belgio sono l’argomento di Italiani cìncali!, lo spettacolo di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta che – finalista al Premio Ubu 2004 nella categoria “Nuovo Testo Italiano” – lo stesso Perrotta presenta alla Galleria Toledo nella doppia veste di regista e interprete (nella foto una scena). Più esattamente, qui viene rievocata – sulla base di ricerche d’archivio e testimonianze dei protagonisti – la drammatica e misconosciuta odissea dei nostri emigranti che, per l’appunto, nel secondo dopoguerra andarono a scavare, e spesso a morire, nelle viscere del nord Europa. Per esempio non tutti sanno quel che stava dietro la dichiarazione resa alla Settimana Incom dal sottosegretario agli esteri Brusasca, il quale informava che per ogni lavoratore italiano spedito laggiù, ci arrivarono dal Belgio 200 kg di carbone al giorno.
Dietro quel carbone necessario alla ricostruzione del paese, stavano viaggi di cinquantadue ore in vagoni piombati come all’epoca delle deportazioni naziste ed alloggi «decorosi e a prezzo moderato» ch’erano soltanto le baracche dei campi di concentramento appena sgomberate dai soldati russi. E soprattutto si nascondevano, dietro quell’immondo baratto capitalistico, i topi, la silicosi, il grisou, la «vena 25» in cui, a più di mille metri di profondità, potevi scavare solo stando sdraiato.
Così l’8 agosto del 1956, nella miniera di Marcinelle chiamata «Cuore Amaro», a salvare i compagni non ci fu «il minatore dal volto bruno» della consolante canzone di Bixio e Cherubini: creparono in 263, dei quali 136 erano italiani.
E tuttavia, Italiani cìncali! sfugge a qualsiasi pietismo o polemica risentita, poiché Perrotta si veste di un personaggio che assicura un più che adeguato filtro straniante: Pinuccio il postino, che – unico maschio valido e alfabeta in un paese del Salento ormai abitato solo da vecchi, donne e bambini – nello stesso tempo recapita, legge (omettendo i passi più dolorosi) e scrive le lettere degli o agli emigrati e, all’occorrenza, «consola» le vedove bianche.
Ma non sono, queste, soltanto storie di tempi lontani. « Cìncali», ossia zingari, gli svizzeri chiamavano gli immigrati italiani. E nel 1990, mentre nel Salento sbarcavano i primi disperati albanesi, in Svizzera c’erano ancora mille bambini italiani clandestini.