Mario Perrotta

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Quarto Stato Festival Un festival intelligente, che con il titolo di Quarto stato ci fa pensare e ricordare come (cito dal libro di Gian Antonio Stella, L’Orda, Rizzoli) un tempo gli «albanesi» fossimo noi. Noi quelli costretti a emigrare in cerca di fortuna, a sentire il disprezzo dei Paesi ricchi nei nostri confronti, a sopportare […]

Quarto Stato Festival

Un festival intelligente, che con il titolo di Quarto stato ci fa pensare e ricordare come (cito dal libro di Gian Antonio Stella, L’Orda, Rizzoli) un tempo gli «albanesi» fossimo noi. Noi quelli costretti a emigrare in cerca di fortuna, a sentire il disprezzo dei Paesi ricchi nei nostri confronti, a sopportare umilianti perquisizioni e sfiancanti interrogatori, a fare i mestieri più pericolosi che gli altri non volevano fare. Noi, proprio noi, quelli dell’Italia affluente di oggi, che spesso guardiamo con fastidio, quando non con disprezzo, quella società multirazziale, che affolla le nostre città. È di scena a Milano (al Teatro Blu, al Teatro della Cooperativa, al Teatro Verdi), con la collaborazione della Provincia, un Festival dove sono di scena gli ultimi, i dannati della terra: racconti di vite qualunque, segnate dalla povertà e dall’esigenza di emigrare, inseguendo il sogno di un futuro migliore, per fare studiare i figli, per cercare di garantire ai vecchi rimasti al paese un’esistenza un poco più dignitosa. Storie di gente minima, vite perdute e vendute magari per 35 grammi di carbone, quante ne intascava pro capite lo Stato italiano dai Paesi ricchi di miniere. Ce le raccontano, in modi e con accenti diversi, due spettacoli: il bellissimo monologo Italiani Cincali! interpretato da Mario Perrotta e Ballare di lavoro, uno spettacolo coinvolgente tutto declinato al femminile che vede in scena le brave Veronica Cruciani e Silvia Gallerano e alla fisarmonica Cristina Vetrone, dalla stupefacente voce.

Italiani Cincali! scritto dallo stesso Perrotta con Nicola Bonazzi (la parola «cincali» sta per zingaro ma, si racconta nello spettacolo, potrebbe essere anche una storpiatura del modo con cui i nostri emigranti dicevano «cinque» giocando alla morra) nasce dalla ricostruzione – fantastica e allo stesso tempo reale perché nata da una serie di interviste –, dell’emigrazione che innanzi tutto dal Sud ma anche dal Veneto a dal Friuli, portò migliaia di braccia nelle miniere del Belgio. Una lunga scia ininterrotta di esseri (fino al disastro di Marcinelle) di esseri che abbandonavano le proprie case, che si lasciavano dietro le proprie radici, costellata da un filo continuo di morti a causa degli incidenti nelle viscere delle terra (soprattutto nella famigerata vena 25 da cui solo i più forti riuscivano a tornare) e, per chi riusciva a sopravvivere, dalla condanna sicura alla morte per silicosi.

Perrotta racconta il viaggio sul treno della speranza da Lecce a Milano e poi oltre il confine, di migliaia di poveri cristi. Racconta, inventando il personaggio di un postino, uno dei pochi a saper leggere e scrivere a quei tempi in paese, al quale tocca tenere i rapporti con gli uomini lontani, consolare vedove, essere la memoria storica di un paese abitato da vecchi, bambini e donne. Dalle sue parole si snoda con commossa lucidità un’epopea di vittime predestinate dentro le viscere delle terra. Alla loro vita, ai loro sogni dà voce in modo esemplare il bravo Mario Perrotta, seguendo le vie di un teatro del racconto del quale sa essere interprete con una finezza e una sensibilità rare.

Lo spettacolo firmato da Veronica Cruciani, Ballare di lavoro è, come suggerisce il titolo, una ballata della povera gente, una storia di donne – una figlia e una madre – destinate a non vedersi mai: una che continua a vivere e a studiare al Sud fino alla sua morte; l’altra che arranca per le strade di New York con il suo inglese scarsissimo, la sua perdita d’identità, il suo arrangiasi a fare qualsiasi lavoro. Il testo, costruito da Renata Ciaravino su interviste raccolte in giro per l’Italia da Veronica Cruciani e da Silvia Gallerano, mostra come la crudeltà della separazione si trasformi anche per una madre che continua ad amare sua figlia nell’impossibilità di tornare indietro, nell’incapacità di accettare una vita costruita sui modi di vivere, eternamente identici a se stessi, di un tempo. Due sedie in palcoscenico, pochi oggetti in scena, la musicista cantante seduta a lato del proscenio come un occhio che tutto vede e commenta con la musica e con il canto, sono tutto il mondo che serve alla Cruciani per raccontare questo rapporto mantenuto attraverso uno scambio di lettere.

Ballare di lavoro non ha lo stesso afflato epico di Italiani Cincali!: è una piccola, commovente, storia privata che le due attrici, a turno illuminate dal cono di luce o sprofondate nel buio, sanno vivere con rara sensibilità, dando spessore alle parole e restituendoci tutto il senso di un’esperienza all’apparenza senza storia. L’uno e l’altro sono spettacoli che rendono palpabile la necessità del teatro ma anche il teatro della necessità: da non perdere.