Mario Perrotta

L’Unità

Il teatro nel fango Dal Vajont a Sarno passando per Marcinelle: una strage dopo l’altra, montagne di terra che uccidono, perché gli affari sono più importanti della vita dell’uomo. Il teatro vuole raccontare la storia, quelle vite da italiani. Da Mascia ad Alaimo a Perrotta… Italiani nel fango, italiani sottoterra: c’è un filo rosso di […]

Il teatro nel fango

Dal Vajont a Sarno passando per Marcinelle: una strage dopo l’altra, montagne di terra che uccidono, perché gli affari sono più importanti della vita dell’uomo. Il teatro vuole raccontare la storia, quelle vite da italiani. Da Mascia ad Alaimo a Perrotta… Italiani nel fango, italiani sottoterra: c’è un filo rosso di tragedie annunciate che corre dal Vajont a Sarno, di storie seppellite troppo velocemente nella memoria, che sembrano appartenere al secolo scorso e invece sono appena dell’altro ieri. Come gli italiani finiti a fare i minatori in Belgio, vite e lavori massacranti, con una percentuale fissa di morti ogni anno fino all’impennata di Marcinelle l’8 agosto del 1956: 263 minatori deceduti, di cui 136 italiani nell’inferno delle gallerie sotterranee. Un incidente maledetto ma non improbabile considerando le condizioni in cui lavoravano quei poveretti, denunciate pochi mesi prima anche dalle pagine di questo giornale. La tragedia non portò cambiamenti sostanziali: le statistiche riportano altri morti negli anni seguenti. Così come il Vajont, il cui imminente disastro fu denunciato più volte dall’Unità, non ha impedito che si ripetesse una sciagura analoga a Sarno nel 1998. Ricordare diventa allora un dovere civile. Una necessità della quale il teatro si è fatto e si fa portavoce sempre più spesso. Teatro di denuncia come i monologhi di Marco Paolini, oratori civili come Fango di Nello Mascia, la scena come luogo privilegiato di ascolto, di «ricostruzione» della memoria come i racconti di Ascanio Celestini, le storie di emigranti portate sul palcoscenico da Enzo Alaimo (Villarosa) e da Mario Perrotta (Italiani cìncali!).
Il bello è che funziona. Fra i primi e più famosi a dimostrarlo è stato Marco Paolini con il suo Racconto del Vajont, monologo-denuncia del 1995 che si basava su un copione fitto di dati e di una meticolosa ricostruzione dei fatti. Spettacolo innovativo, creato in collaborazione con Gabriele Vacis, in un’atmosfera teatrale che si nutriva da questi input sociali e politici (pensiamo anche a Marco Baliani che tre anni dopo porta in scena Il caso Moro), ma allo stesso tempo capostipite di un nuovo genere teatrale tra narrazione e denuncia, recitazione e riflessione. Il racconto del Vajont vincerà anche la scommessa più difficile: portato in tv, in prima serata su Raidue, conquista un audience solitamente dedito a paillettes e varietà. Senza quel successo, forse oggi non si sarebbe azzardato a proporre un programma di approfondimento, cronaca e teatro insieme come l’attuale Report su Raitre, in cui Milena Gabanelli affianca il suo lavoro di documentazione e di ricerca a quello teatral-monologante di Paolini.

A quel Vajont si riallaccia oggi l’oratorio civile di Nello Mascia, Fango, «recuperato» dal festival napoletano «La rete dell’immaginario» dalle «Vie dei Festival» a Roma, dove ha debuttato qualche giorno fa. Un leggio, un coro alle spalle per sottolineare i passaggi più intensi della storia di Sarno e dei vicini comuni attraverso i frammenti di testimonianza dell’unico sopravvissuto della frazione campana: Roberto Robustelli, un giovane fotografo trascinato dall’ondata di fango e miracolosamente rimasto incastrato nell’anfratto di un magazzino per tre giorni. Anche qui, come per il Vajont trentacinque anni prima, una montagna perde brandelli di sé e travolge in un fiume nero di detriti la gente che abitava nella valle sottostante. Alla radice della disgrazia, le solite motivazioni di incuria e corruzione, speculazioni edilizie, fatale superficialità nel valutare i sintomi che annunciavano il pericolo.
Gioca su una memoria personale d’infanzia Villarosa di Enzo Alaimo (che debutta stasera all’Auditorium, sempre nell’ambito delle Vie dei Festival a Roma). Monologo accompagnato dalle musiche e dalle canzoni di Giovanna Marini, “un controcanto”, precisa l’autore e interprete, al testo che mescola aneddoti della madre ex emigrata ai fatti storici. «All’inizio – racconta Alaimo – ero partito dal desiderio di raccontare qualcosa che fa parte della mia vita. l e cose divertenti e folli che mi raccontava mia madre che a vent’anni partì con la famiglia da Villarosa in Sicilia per Liegi, nel Belgio». Storie di zii ammalati di silicosi in miniera che si facevano fotografare in «pose alla Elvis». di mescolanze linguistiche ardite di francese e siciliano. «Pensavo ad una sorta di antropologia buffa degli emigrati in salsa underground – continua Alaimo – ma poi ho approfondito quella parte di storia che non conoscevo, sono passato dal privato di quella ragazza di vent’anni alla Storia collettiva e il lavoro ha preso un’altra direzione. Un doppio passo e una doppia lingua: il siciliano per recitare storie, l’italiano per raccontare i fatti: migliaia di uomini spediti nelle miniere di carbone in Belgio con la promessa di alloggi confortevoli (erano gli ex lager nazisti appena sgombrati), braccia «vendute» dal governo italiano in cambio di sconti sull’importazione di carbone. Emigrati «rimossi» dalla memoria dei figli e dei nipoti per loro stessa volontà: «Non è strano – spiega Alaimo – chi da emigrato povero è rimasto povero ha ‘vergogna” di quello che è stato, della fame e dei sacrifici fatti. Mentre gi emigrati del nord-est diventati benestanti, non vogliono ricordare di essere stati poveri a loro volta, quasi per preservare una verginità da nuovi ricchi».
Emigranti di «scarto» rispetto a quelli che se ne partirono per l’America o per il nord Italia. «Lì si andava per restare, mentre chi veniva “arruolato” in Svizzera, in Germania o in Belgio si trovava nella condizione di eterno stagionale», dice Mario Perrotta, autore e interprete di Italiani cìncali!, in scena al Teatro dell’Orologio a Roma fino a domenica. Spettacolo nato dopo due anni di ricerche e di testimonianze registrate, innestato anche in questo caso su memorie personali di quando, bambino, veniva messo su un treno da Lecce per Bergamo, dove lavorava il padre. «Mi ricordo le facce di quegli emigranti, buie quando ci allontanavamo da Lecce, brillavano come in un film di Tornatore al ritorno – continua Perrotta -. Ho avuto voglia di raccontare questa gente, di restituire loro una dignità». Anche Italiani cìncali! si muove su un doppio binario, da un lato la cronaca cruda, dall’altro le storie private filtrate dal postino, l’unico uomo rimasto in paese che, sapendo leggere e scrivere, manteneva la corrispondenza tra i minatori lontani e le loro giovani mogli. All’uopo, «confortandole» nei lunghi anni di vedovanza in bianco… Cosa impressiona di più di quei tempi non remoti? L’appellativo che gli svizzeri davano agli italiani: cìncali, che sta per «zingari» e il fatto che nel 1990, quando nel Salento è sbarcata la prima carretta del mare carica di albanesi, c’erano ancora mille bambini italiani clandestini in Svizzera. Negli anni Settanta erano 30mila…