Soli sulla scena a rifare la storia
Negli anni Novanta il racconto di un singolo attore diventa un genere, fino ad essere oggi uno dei tratti distintivi e più autentici del teatro del nostro paese
In principio fu Dario Fo con il suo Mistero Buffo, uno spettacolo diventato storia […] Poi, dagli anni Novanta, il racconto di un uomo solo diventa un genere, fino ad essere oggi uno dei tratti distintivi e più autentici della scena italiana.
E questo raccontare, spesso si sposa con le esigenze del teatro di impegno civile, dice dell’attualità e del suo svolgersi, indaga i fatti con il piglio del reportage giornalistico, senza mai perdere di vista che, comunque, sempre di occasione artistica si tratta e dunque di essa vengono rispettate le forme e le regole. […] di vissuto, che si attacca alla pelle per non lasciarla mai più, parlano le storie dei nostri narratori. Uomini e donne di teatro che all’inizio si chiamano Marco Baliani, Marco Paolini, Laura Curino.
Baliani apre una strada tra l’’89 e il ’90 con il suo Kohlhaas, un esempio che ancora oggi, a quasi tre lustri di distanza, riesce a catturare ed emozionare […] Poi c’è Paolini, che comincia con gli Album la narrazione del clima degli anni Settanta, per arrivare, più tardi, a due grandi tragedie nazionali: c’è dietro soprattutto la passione per la verità nei suoi Racconto del Vajont e I-Tigi. Canto per Ustica. E c’è, ancora, la Curino, che in Olivetti racconta la vita del signor Camillo, il papà della Lettera 32 tratteggiato dalla mamma Elvira e dalla moglie Luisa, storia di “un sogno industriale, culturale, civile, unico in tutta l’Europa”.
Storie e vite, come quelle che diventano immagini grazie alla sapienza di una seconda generazione di affabulatori. Qui gli esempi di Ascanio Celestini, Davide Enia e Mario Perrotta: di alcuni loro spettacoli, in questa stagione in tournèe nelle sale italiane, parleremo infatti di seguito. Messinscene con un segno comune: il racconto di luoghi e personaggi conosciuti a fondo, perché sono i territori dove i nostri attori-autori hanno le loro radici.
Ascanio Celestini: Radio clandestina
Ascanio è un elfo elegante, un mago della parola. Anche nel passaggio più drammatico non perde quel suo sorriso dolce e malinconico, che è pietà per i vinti, condivisione con gli sconfitti dalla storia. Radio clandestina è un racconto della sua Roma in uno dei giorni più bui: 24 marzo 1944, data della strage nazifascita alle Fosse Ardeatine, con il suo pesantissimo carico di 335 vittime. Lo spettacolo ha ormai tre anni di vita, ma il suo meritato successo non accenna a diminuire.
Dopo quell’emozionante debutto all’interno dell’ex carcere di via Tasso – nell’ambito della manifestazione I luoghi della memoria, che accende ogni anno l’autunno romano – ci sono state più di trecento repliche, ovunque. Sì, nei teatri. Certo, nelle stagioni di prosa. Ma, soprattutto, negli spazi non convenzionali, non immediatamente vocati alla scena, perché, come dice Ascanio, “questa è una storia che tutti devono conoscere, anche quelli che non vanno a teatro”.
Lo spunto per Radio clandestina viene da un libro di Sandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito, una preziosa raccolta di duecento voci, testimoni sulla cui pelle quella vicenda di sessant’anni fa ha impresso piaghe incancellabili. Celestini racconta il prima e il dopo, risale nel tempo alla Roma dei decenni precedenti e scende fino a raccontare quello che la strage insegna oggi.
Il pretesto è la richiesta di una donna al narratore di leggerle un cartello di appartamenti da affittare. Lei non sa distinguere i segni, così come analfabeti erano quelli che nel ’44 andavano da suo nonno per farsi spiegare cosa volevano dire quei proclami tedeschi pubblicati sui giornali. Con un racconto che non è semplice prova d’attore ma poesia, attraverso una romanità che è omaggio e non ostentazione, con una sapiente leggerezza che è rispetto per una città violata, Ascanio resuscita una Storia che affonda le sue unghie nella carne.
Davide Enia: Italia-Brasile 3-2
Una partita che si racconta ancora, a chi ventidue anni fa non c’era. Un’epica della pedata e del pallone per un incontro che spalancò le porte di un incredibile titolo all’Italia di Bearzot e della sua truppa. I nostri buttarono fuori dal Mundial spagnolo il Brasile di Falcao e Zico, i maestri. Fu un 3-2 sotto il cielo di Barcellona, con gli azzurri due volte avanti e due volte raggiunti, fino al definitivo vantaggio. L’eroe di quel 5 luglio 1982 si chiamava Paolo Rossi e fino a quel punto era stato il bell’addormentato della competizione: fu baciato dalla principessa, si svegliò e non si fermò più.
A quell’epoca, una calda estate, Davide Enia era un bambino, aveva 8 anni e la casa invasa, perché i suoi avevano fatto il grande passo. Avevano comprato il televisore a colori. Con un ritmo perfetto e geometrie fantasiose – tutto ciò che i tifosi vorrebbero la domenica dalla squadra del cuore – in novanta minuti, il tempo di una sfida, Enia tratteggia un interno palermitano e insieme gli umori di quei giorni, non solo legati al calcio. Accompagnato da due musicisti, l’artista siciliano fa materializzare attraverso le parole il nuovo totem: il televisore a colori.
Attorno a questo centro si agita un’umanità varia, con le sue superstizioni, i suoi entusiasmi e le sue frustrazioni, fino al delirio del fischio finale. Paolo Rossi è il novello Orlando e il calcio diventa per tutti occasione di riscatto. Italia-Brasile 3-2 è uno spettacolo divertente, ma non solo. I ricordi corrono, quando viene evocata la morte di Fassbinder o citata la guerra alle Falkland. E ci si commuove anche, al racconto di come una squadra di campioni ed eroi sfidò gli occupanti: erano prigionieri in casa loro, non se ne curarono, vinsero la prima partita e poi la rivincita. Fecero felice un popolo, che orgogliosamente rialzò la testa. Furono ammazzati sul campo, una alla volta, un colpo di pistola alla testa per ciascuno. Accade a Kiev, quando c’erano i nazisti.
Mario Perrotta: Italiani cìncali!
Odora di grisou Italiani cìncali!, lo spettacolo in cui Mario Perrotta si cala nell’inferno delle miniere belghe. Pugliese trapiantato a Bologna, Perrotta è andato a farsi raccontare da chi è tornato quello che accadeva laggiù, a mille metri di profondità, nel mezzo dell’Europa degli anni Cinquanta. Storia di migranti che talvolta sembrano deportati e vivono nelle baracche dismesse di quelli che fino a pochi anni prima erano stati campi di concentramento. Storia di cìncali, cioè di zingari. Perrotta, girando in lungo e in largo la sua regione d’origine, ha raccolto le testimonianze di chi c’era, di chi là sotto viveva per lavorare.
Sulla scena, in canottiera e sudore, l’attore incarna dolore, amore, dolcezze e crudeltà. Chi racconta è il postino, involontario messaggero di drammi e felicità, testimone delle lacrime affidate alla carta. Dopo la parte dedicata ai minatori in Belgio – luogo, tra l’altro, della spaventosa tragedia di Marcinelle – quest’anno Perrotta proseguirà nella descrizione dei nostri connazionali, emigranti in Francia, Svizzera e Germania.