Mario Perrotta

Diario

In fondo alla «vena». Gli italiani in Belgio raccontati da Perrotta Non è una canotta bossiana quella che Mario Perrotta indossa sul palcoscenico dell’Orologio, mentre fa ripartire il teatro da una sedia e un bicchier d’acqua: è una canotta da cafone del sud che racconta, come sa e come può, la favola nera dell’emigrazione che […]

In fondo alla «vena». Gli italiani in Belgio raccontati da Perrotta

Non è una canotta bossiana quella che Mario Perrotta indossa sul palcoscenico dell’Orologio, mentre fa ripartire il teatro da una sedia e un bicchier d’acqua: è una canotta da cafone del sud che racconta, come sa e come può, la favola nera dell’emigrazione che svuotava i paesi quando gli albanesi (anzi gli zingari, i cìncali) eravamo noi. E il «quando», appunto, è uno dei punti forti di Italiani cìncali!: appena nel 1947, ma ancora negli anni Cinquanta e Sessanta, fiumane di lavoratori italiani stipavano treni speciali diretti à la Belgique, per infilarsi sotto la terra del Brabante, a Charleroi, a Marcinelle, vittime designate di uno scambio impari con l’Europa «del carbone e dell’acciaio».
Epopea di emigrazione, dunque, ma anche un poco di deportazione: non a caso i confortevoli alloggi magnificati dalla propaganda erano ex baracche dei campi di concentramento. Perrotta la narra con passione, alternando la prosa della cronaca alla poesia della testimonianza orale: lui è l’aedo, cioè il postino Pinuccio, ultimo maschio sopravvissuto in un villaggio del Salento che va di casa in casa leggendo, decifrando e spesso inventando le lettere degli esuli. Nell’uso liturgico della ripetizione, in quello lirico della digressione, la sua performance deve forse qualcosa alle narrazioni ellittiche di Ascanio Celestini, il re degli schnorrer dell’affabulazione (di cui si ode la voce registrata), ma la generosità e l’energia sono tutte sue. Il risultato, anche: il pubblico, all’inizio perplesso, si cala, è il caso di dirlo, nei cunicoli saturi di grisou dove il cinismo paleo-industriale relegava gli oscuri eroi della sua marcia trionfale.
Dopo un’ora e un quarto in crescendo, i muri della sala trasudano la paura infera della «mina» — e non sembra più incredibile che, appena ieri, l’Italia ripulita, americana e neo-razzista, respirasse e morisse mille metri sotto, nella letale «vena 25».