Mario Perrotta

Wordsinfreedom.com

Mario Perrotta: In nome del Padre Il rapporto tra Massimo Recalcati e Mario Perrotta comincia dopo lo spettacolo di quest’ultimo Odissea, di qualche stagione fa, tutto incentrato sull’assenza di Ulisse e sulla figura-perno di Telemaco, mancante, monco, a dover digerire questo vuoto paterno che gli rimbomba sordo dentro. Recalcati, psicoanalista, recentemente spesso in tv con le sue illuminanti lezioni-spettacolo, […]

Mario Perrotta: In nome del Padre

Il rapporto tra Massimo Recalcati e Mario Perrotta comincia dopo lo spettacolo di quest’ultimo Odissea, di qualche stagione fa, tutto incentrato sull’assenza di Ulisse e sulla figura-perno di Telemaco, mancante, monco, a dover digerire questo vuoto paterno che gli rimbomba sordo dentro. Recalcati, psicoanalista, recentemente spesso in tv con le sue illuminanti lezioni-spettacolo, citò lo spettacolo di Perrotta in un suo volume e da lì ne è scaturita stima prima e collaborazione poi. Padre-Madre e Figli sono tre cicli di trasmissioni che l’accademico sta portando sul piccolo schermo (“Lessico Amoroso”) così come diventeranno tre piece, una nuova trilogia per l’attore esploso con Italiani Cincali e La Turnata, che da qui ha iniziato il suo viaggio all’interno della Famiglia. C’è dell’autobiografico: Perrotta e la moglie, l’attrice Paola Roscioli, hanno da qualche anno adottato un bambino. Era un’esigenza dell’attore scandagliare la figura paterna, esplorarla, approfondirla, analizzarla, mettere le mani in pasta.
E lo ha fatto con questo catartico In nome del Padre (prod. Teatro di Bolzano) attraverso tre figure topos (Recalcati gliene aveva offerte sei tra realtà e modelli comportamentali studiati) incastrate in un ipotetico e metaforico condominio che tocca tutta l’Italia: c’è il padre siciliano giornalista e dotto, c’è quello veneto amante della chitarra poco scolarizzato, c’è quello napoletano giovanilista con il linguaggio infarcito di inglesismi e slang forever young ed evergreen. In nome del Padre sa di preghiera, In nome del Padre ricorda la pellicola con Daniel Day Lewis. Tutti siamo figli, non tutti gli uomini diventano padri. Perrotta utilizza il difficile e complesso meccanismo già utilizzato in Milite Ignoto mischiando le voci, con dialetti riconoscibili diversi, come fosse un canto in versi, ad intercalare i tre padri come fossero un’unica voce suddivisa in tanti differenti strati, sfaccettature, sottotracce. In scena con lui anche tre sculture, che ha ideato e realizzato lo stesso attore e regista leccese (anche bravo artigiano), statue in ferro dal corpo esile, assottigliato, sfibrate, disossate, padri ai quali non è rimasta che la loro essenza scheletrica, con la testa cava fatta di ragnatele e svuotata, leggera, reminiscenze classicistiche di quello che erano: ecco una sorta di Discobolo, una specie di Pensatore, un quasi Galata morente, felici intuizioni.

In questo In nome del padre sono raccolti tre modi nei quali non essere un buon padre, tre moniti, tre motivi d’attenzione. Ma è soprattutto uno spettacolo che parla inevitabilmente di figli e del rapporto conflittuale padre-prole che questi tre genitori-maschi, ci fanno tenerezza, affrontano e cercano di risolvere con tre metodologie diverse.
Il professore siciliano affossa e affonda il figlio di parole con la sua cultura esondante, lo assilla di verbosità maniacale ossessiva logorroica senza ascoltare le istanze del ragazzo che si è chiuso in camera come gli hikikomori giapponesi (100.000 anche in Italia), cercando pedissequamente di razionalizzare, spiegare con molte citazioni e poco cuore. L’operaio veneto invece sente, avverte ma soprattutto accusa e subisce la differenza culturale tra lui, che non ha potuto studiare, e il figlio bravo a scuola, tra il suo dialetto così marcato e volgare e l’italiano pulito del ragazzo, tra le sue sgrammaticature e la coniugazione perfetta dei verbi dello studente. Il terzo è un viveur napoletano che vuole proteggere talmente la figlia adolescente da diventare suo partner accompagnandola a ballare, flirtando con le amiche, bevendo aperitivi tanto per stare vicino, e controllare, la ragazza con quel fare sornione da amico ma che amico non può essere sfociando in un rapporto inquietante borderline, al limite, sulla soglia dell’incestuoso.
Se i padri fanno tenerezza e suscitano compassione con le loro mancanze ma anche con i loro continui tentativi di avvicinarsi, con i propri mezzi sfiancati e inefficaci certo, ai propri ragazzi, sono le madri che escono veramente male da questo affresco: assenti o silenti, traditrici e invadenti o ancora competitive con l’altro genitore tanto da frapporsi tra l’uomo e il figlio. Questi figli, schiacciati comunque dai padri, devono, per riappropriarsene, “uccidere il padre”, smontarne le verità e le sovrastrutture imposte, metterne in crisi l’autorità. Ma il nostro non è un Paese per giovani, anzi è una Nazione con molti figli unici messi e tenuti su piedistalli di cristallo o sotto campane di vetro il che ha fatto perdere di senso la rigidità e le regole paterne, sfumate e sbiaditesi, e ha fatto del figlio un catalizzatore di richieste senza rifiuti né negazioni a formarne il carattere. Perrotta, dopo aver tratteggiato magnificamente il pittore Ligabue nel suo Bassa continua, ha azzeccato una nuova trilogia, interessante, partecipata, contemporanea, viva, con un monologo pulsante, ricco, pieno, energico. Se nel Padre è solo in scena, nella Madre saranno due le voci a dialogare mentre nel Figlio sarà presente una moltitudine di giovani attori.
Con piccoli tocchi e gesti minuti, un giubbetto, una camicia, riesce a cambiare pelle, a diventare un’altra versione di padre frustrato, rassegnato, sconfitto, disperato, impotente e senza più armi, senza alcun santo al quale votarsi, senza nessun gancio da afferrare per non cadere. Li scusiamo questi padri, solidarizziamo con loro e con il dolore lancinante che provano di fronte all’incomunicabilità, davanti ai dinieghi, alle porte chiuse in faccia. Non hanno soluzioni, solo tentativi falliti. I figli (e con questo spettacolo anche Perrotta) ti mettono di fronte a te stesso, ti fanno fare i conti con il te più intimo, ti fanno scoprire, ti rendono vulnerabile, fragile, scoperto, senza pelle, i figli ti mettono con le spalle al muro e non puoi più fuggire né fingere. Si è padri non con le parole ma con l’esempio.