Mario Perrotta

Saltinaria

In nome del padre – Piccolo Teatro Studio Melato Mario Perrotta dà gesti e parole a tre padri diversi, che abitano tutti e tre nello stesso palazzo. Lo fa su una scena vuota con solo una sedia, mettendosi e togliendosi giacche diverse e usando i colori del dialetto. Le storie si intrecciano in continuazione, si sovrappongono, […]

In nome del padre – Piccolo Teatro Studio Melato

Mario Perrotta dà gesti e parole a tre padri diversi, che abitano tutti e tre nello stesso palazzo. Lo fa su una scena vuota con solo una sedia, mettendosi e togliendosi giacche diverse e usando i colori del dialetto. Le storie si intrecciano in continuazione, si sovrappongono, senza pause.

Il primo è un giornalista, un uomo di cultura, che ama parlare e scrivere usando parole altisonanti; ha gesti composti e misurati e parla con una leggera cadenza del sud. Il secondo, un uomo semplice, un capoofficina abituato a dirigere dieci operai, parla veneto, con un linguaggio concreto e diretto. Il terzo è un commerciante privo di cultura, arricchitosi con negozi di moda. Parla in napoletano, con un linguaggio impoverito, confuso e “accelerato”. Quando si accorge che la figlia non vuole ascoltarlo, preferisce alzare la musica e stordirsi con questa, proprio come fa sua figlia. Tutti e tre hanno figli adolescenti e si accorgono di non arrivare a comunicare con loro. Dovrebbero adempiere alla loro funzione, aiutare i figli in un età delicata come l’adolescenza, ma il cambiamento della società ha reso fragile la loro paternità.

Sgomenti davanti alle loro mogli sempre più libere ed indipendenti, spogliati dei loro ruoli tradizionali, incapaci di comunicare con figli adolescenti, non capiscono di aver loro per primi bisogno di aiuto.
Il giornalista confida ai suoi lettori di non riuscire più a parlare con il figlio, recluso da settimane nella sua stanza. É un Hikikomori, termine coniato in Giappone per designare persone, in genere adolescenti, che decidono di ritirarsi dalla vita sociale e restare chiusi in un isolamento. Usa la cultura come lente deformante per leggere la realtà amara. Nella segregazione autoinflitta del figlio, si convince di vedere una “atarassica rinuncia al piacere di greca memoria, un atteggiamento intelligente” per salvaguardare la sua anima. O un disagio per un’ipotetica omosessualità. La parola diventa allora trappola per l’immaginazione, priva di onestà.
Il padre napoletano invece, prova a vestirsi da giovane, ad andare in discoteca con la figlia e le sue amiche e, quando non capisce qualcosa del mondo degli adolescenti o di sua moglie, scappa a farsi leggere le carte.

L’operaio, con grande umiltà, comincia da se stesso e si lascia aiutare da uno psichiatra. Sarà il primo a trovare una strada verso suo figlio.