Mario Perrotta

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“In nome del padre”: Mario Perrotta ci dona le testimonianze dei padri moderni Siamo tutti Telemaco, sostiene lo psicanalista Massimo Recalcati. Siamo tutti figli in attesa di un padre assente. Siamo tutti figli di un tempo che rappresenta l’era del tramonto dei padri: “La loro rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita […]

“In nome del padre”: Mario Perrotta ci dona le testimonianze dei padri moderni

Siamo tutti Telemaco, sostiene lo psicanalista Massimo Recalcati. Siamo tutti figli in attesa di un padre assente. Siamo tutti figli di un tempo che rappresenta l’era del tramonto dei padri: “La loro rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita dei figli o come bastoni pesanti per raddrizzarne la spina dorsale si è esaurito irreversibilmente. Il nostro tempo è il tempo dell’evaporazione del padre e di tutti i suoi simboli”.
È da qui che parte la profonda indagine di Mario Perrotta sulla figura paterna, dalla perdita dell’orientamento che sta caratterizzando alcune generazioni di genitori e di figli e da un contatto fertile, quello con il celebre analista (avviato dopo il suo spettacolo Odissea, dedicato appunto al figlio di Ulisse), che gli ha consentito di dare motore alla sua nuova opera dalla triplice testa: In nome del padre, della madre, Dei figli è, infatti, il nuovo progetto triennale del drammaturgo e attore leccese focalizzato sulle figure parentali. Dopo le ultime trilogie Bassa Continua e Verso Terra, Perrotta torna ad allargare i propri confini drammaturgici (con la consulenza di Recalcati appunto) con una scrittura in tre tempi, tre atti, tre momenti ben distinti, sia come testo che come resa scenica, ma complementari. La prima parte di questo trittico sul lessico familiare, In nome del padre (prod. Teatro Stabile di Bolzano) inizia da una scelta personale (la paternità di Perrotta) e cresce, si struttura con la necessità di sondare, sviscerare il ruolo del padre nel nuovo millennio. Un compito difficile, che Perrotta affida a tre figure ben distinte e diverse tra loro ma accomunate da un medesimo fil rouge: l’incomunicabilità con i figli.

Un giornalista e letterato siciliano, un operaio metalmeccanico veneto, un commerciante napoletano compongono il quadro, l’ideale condominio babelico che il regista disegna perfettamente, a cui, in scena, fanno eco e specchio tre statue di ferro lunghe e slanciate (opera di Perrotta stesso), un Pensatore, un Galata morente e un Discobolo; alter ego simbolici e immobili della stessa immobilità spirituale ed emotiva di questi personaggi. La parola, una parola, tra padri e figli è ciò che sembra mancare nelle tre situazioni, ma è ciò da cui parte Perrotta per dare equilibrio, continuità e ritmo serrato alla narrazione, passando dall’uno all’altro cambiando giacca (e in qualche modo status) e soprattutto con cambiando registro linguistico; Perrotta è un funambolo della lingua, abile e veloce nell’uso dei tre dialetti che plasma e fa propri senza soste, senza scatti ma in un gioco fluido ed efficace che contribuisce a caratterizzare fortemente questi antieroi. Parliamo appunto di antieroi, di padri che vivono nell’attualità, un tempo che tutto brucia e consuma, padri identificabili, riconoscibili (in questo il contributo di Recalcati è incisivo), attaccabili e dei loro fallimenti quotidiani con i rispettivi figli, sempre più lontani e isolati: il giornalista chiuso nella propria roccaforte di intellighenzia e consapevolezza sotterra il figlio in una reclusione spontanea e voluta tra aspettative altissime e una verbosità asfissiante; l’operaio fugge dai propri sogni e anche dallo sguardo di un figlio da cui si sente costantemente giudicato, rispetto al quale si sente inferiore per la scarsa educazione e la propria incapacità di parlare un italiano corretto; il commerciante napoletano tra slang da millennials e visioni della cartomante ci parla di un rapporto morboso con la figlia, un rapporto quasi al limite dell’incesto che disturba e inquieta.
Perrotta è solo sul palco, solo ma vibrante di una moltitudine quasi pessoana fatta di gesti, di una fisicità calibrata e giusta (ogni personaggio ha il proprio alfabeto di segni e azioni), di voci sempre diverse, di una forza empatica che ci assorbe velocemente all’interno dell’universo di questi padri stanchi, smarriti nella ricerca del senso del proprio ruolo e che navigano faticosamente, come Ulisse, per tornare verso la propria metaforica Itaca: la comprensione dei figli. Ed è nello stesso universo in cui “tramontano” i padri che anche le madri non brillano di luce propria uscendone qui sconfitte, negative, traditrici, assenti, antagoniste (aspettiamo il secondo capitolo dell’analisi di Perrotta per riscattare la figura materna). In nome del padre è uno spettacolo certamente dedicato ai padri ma che non si esaurisce nell’indagine sulla modernità che chiede loro “non potere e disciplina ma testimonianza”, perché mette a nudo tutti i figli in attesa, mette a nudo ciascuno di noi – obbligatoriamente figli, genitori per scelta – inchiodati a un confronto inevitabile con i protagonisti della narrazione ma soprattutto con i nostri riflessi autobiografici, con le mancanze dimenticate, con le assenze subite, con la nostra personale ricerca delle testimonianze che hanno lasciato i nostri padri.
“(…) Il compito della testimonianza paterna è, infatti, quello di rendere possibile un senso del mondo. Ma è anche quello di trasmettere il desiderio da una generazione all’altra, di trasmettere il senso dell’avvenire; non tutto è già stato, non tutto è già stato visto, non tutto è già stato conosciuto. Ereditare non è solo ricevere un senso del mondo, ma è anche la possibilità di aprire nuovi sensi del mondo, nuovi mondi di senso.” (Massimo Recalcati)