Mario Perrotta

PAC – PaneAcquaCulture

Affari di famiglia, con assaggi di figura paterna e contorno di assenze: Perrotta, Tavano e Il Mulino di Amleto Da taluni punti di vista può risultare sorprendente il numero di spettacoli in circolazione in questi mesi che riportano l’attenzione dello spettatore sulle questioni della famiglia. Va tuttavia considerato che lì dove per centinaia e centinaia di […]

Affari di famiglia, con assaggi di figura paterna e contorno di assenze: Perrotta, Tavano e Il Mulino di Amleto

Da taluni punti di vista può risultare sorprendente il numero di spettacoli in circolazione in questi mesi che riportano l’attenzione dello spettatore sulle questioni della famiglia. Va tuttavia considerato che lì dove per centinaia e centinaia di anni l’alterità per il nucleo familiare era rappresentata, per un verso, dei temi dell’individuo come singolo e, per altro, da quelli della società, la dissoluzione di quest’ultima dimensione dentro le vuote scatole dei social media, l’inesistenza pressoché totale di istanze di piazza, la crisi della rappresentanza nelle istituzioni democratiche, di presenza concreta delle questioni politiche o religiose come era un tempo nei quartieri, nei territori; tutto questo rende di fatto la famiglia luogo di assoluzione e dissoluzione dei propri peccati, riverbero di un’identità che non si libera mai non solo dei legami, come per natura sempre è, ma anche delle dinamiche, che si mantengono spesso identiche e immutabili nonostante il passare del tempo.
Scorriamo attraverso tre creazioni in circuitazione in questo periodo, alcune tematiche fra l’antropologico e lo psicanalitico. Lo facciamo con Patres di Saverio Tavano (visto nella bella rassegna diffusa fra alcuni comuni della provincia bergamasca a cura di Qui e Ora), con il ritorno in scena, dopo quasi un decennio, di Senza Famiglia, testo di Magdalena Barile riallestito da Il Mulino di Amleto, che di recente ha debuttato a Milano a Campo Teatrale, e con In nome del padre di e con Mario Perrotta, che ha debuttato a dicembre al Piccolo Teatro e sta girando adesso l’Italia con una felice tournée, e che abbiamo visto a Monza al Teatro Manzoni.

Stupisce come, comune a tutti questi lavori, sia in particolare la figura paterna, la sua dimensione allo stesso tempo presente e assente, non di rado egoista e infantile, destinata in ogni caso a segnare il rapporto con i figli.

Se in Senza Famiglia le donne evolvono, cambiano, tengono i giochi, le figure maschili escono un po’ sterilizzate. È una modernità senza Uomo la nostra? L’interrogativo non è casuale nell’atterrare sull’ultimo spettacolo di cui diciamo, In nome del padre (già raccontato da PAC) di e con Mario Perrotta, che costruisce il suo lavoro partendo proprio da una profonda indagine sulla psicanalisi della figura genitoriale maschile oggi. Della sua assenza archetipica, essenzialmente.
Quelle di oggi sono figure paterne dal contorno sfumato, che nascono probabilmente anche dal conflitto fra schemi e modelli nati in sistemi economico sociali e produttivi completamente diversi da quelli della effimera società dei servizi e digitale di oggi.
Dal padre “Narciso” al padre azienda, dal padre “figlio” al padre conquistatore, al finto democratico, la parata attoriale e simbolica che Perrotta ci mette sotto gli occhi ci racconta di essenze fumose, incapaci di crearsi un ruolo, e che quindi si rifugiano in un personaggio. Perrotta si è avvalso, nella strutturazione del pensiero e nell’individuazione delle figure, della consulenza scientifica e in un certo qual modo drammaturgica, di Massimo Recalcati, pensatore assai attivo negli ultimi anni nella divulgazione mass mediale sui temi dell’essere oggi.

Perrotta compone un intreccio narrativo nuovo rispetto alle strutture di scrittura fino a ora proposte, rivelando un coraggio non comune nel tentativo di esplorare i potenziali espressivi del suo essere uomo di scena. Passando dai primi lavori che nascevano ispirati da combinazioni più vicine alla narrazione, pur mantenendo nei suoi spettacoli la capacità tutta meridionale del “cuntare”, Perrotta ha comunque esplorato senza pentimenti la riscrittura del classico, il teatro fisico, l’interpretazione mimetica e quella invece post drammatica. Forse sono opere non sempre o non tutte perfette, ma comunque sudate, costruite artigianalmente con fatica da uno fra i pochi “solisti” del teatro italiano a non essersi fermato su un modulo “comodo”, a essersi comunque cercato e pensato sempre in una dimensione dinamica. È un dato di fatto che nessuno di Perrotta potrà mai dire di aver visto spettacoli fotocopia.

In nome del padre intreccia tre figure paterne distantissime e opposte: l’intellettualoide sicuro di sé e incapace di ascoltare, logorroico, un po’ Furio di Verdone, che cerca di entrare in sintonia con un figlio che, come estremo atto di ribellione al saputello senescente, si chiude in camera sua. Il secondo, un padre di pochi mezzi culturali invece, che vive le sue insicurezze nel rapporto con un figlio ormai grandicello, ma nato troppo in fretta dopo l’inizio di una relazione di gioventù: bei tempi, lui suonava la chitarra da dio, lei se ne innamorò sentendolo suonare. Ma l’artista e l’uomo giù dal palco sono figure che sovente non combaciano, e questo grande uomo con la chitarra diventa un debole e incapace in tutte le altre cose della vita, prima fra tutte quella di esser padre. Caratteristica, quest’ultima, che condivide con il terzo tipo umano tratteggiato dalla penna di Perrotta aiutata da Recalcati: il padre latin lover, quello che gigioneggia pure con la figlia, senza senso del limite. La penna drammaturgica su questo tipo umano mantiene volutamente l’equivoco sulla reale portata di questa figura, ma il tema profondo e comunque straniante per gli spettatori nasce dal riflesso sul palcoscenico di un’umanità in crisi di ruolo.

Non è più tempo per i padri. Non ci sono, più nel molle occidente senza regole, i padri della patria, i padri fondatori, e nemmeno i padri padroni. Le brutte copie dei dittatorelli girano in felpa e jeans, impossibilitati dalla debole forza di volontà, a regalarsi un fisico scultoreo e neoclassico. Figuriamoci quelli che li sostengono, poi: siamo in epoche in cui seguiamo fideisticamente delle brutte copie.
E così pure in casa, a questi padri incapaci, corrispondono figli certamente non in grado di elaborare forme di conflitto strutturate: nessuna Antigone in queste famiglie insomma.
Sono invece, per necessario contrappasso, figure che più facilmente si abbandonano al silenzio, alla depressione, al cellulare, svaccate sul divano. Per non parlare delle risposte sempre più frequenti che arrivano per il tramite del rapporto malato con il cibo.

Tornando allo spettacolo, la scena è vuota, eccezion fatta per tre installazioni scultoree in metallo che ritornano proprio su questi archetipi scarnificati di figure paterne che non sono più: il discobolo titanico, il pensatore dannato, il narciso vero. Ne vediamo tre invece incarnate dall’attore, irridenti e farsesche ripresentazioni, fragili, che Perrotta continua a intrecciare in un recitato potente e fisico, giocato sul cambio dei dialetti e sul mantenimento progressivo delle temperature emotive. Se il testo ha qualche momento di flesso e di stanca, in scena comunque è impossibile non seguire il ritmo dell’attore. Che qui, come in quasi tutti i lavori di Perrotta, viene prima e davanti a tutto.