Mario Perrotta

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In nome del padre, tra sfide e preoccupazioni Per il debutto di In nome del padre Mario Perrotta, in scena al Piccolo Teatro di Milano, è accompagnato nella drammaturgia dal supporto di uno degli psicoanalisti attualmente più noti in Italia, Massimo Recalcati, autore negli ultimi anni di saggi divulgativi di grande successo sulle figure familiari (Cosa […]

In nome del padre, tra sfide e preoccupazioni

Per il debutto di In nome del padre Mario Perrotta, in scena al Piccolo Teatro di Milano, è accompagnato nella drammaturgia dal supporto di uno degli psicoanalisti attualmente più noti in Italia, Massimo Recalcati, autore negli ultimi anni di saggi divulgativi di grande successo sulle figure familiari (Cosa resta del padre?; Il complesso di TelemacoLe mani della madreIl segreto del figlio).
Dopo aver vestito nel corso della sua carriera anche i panni di Telemaco in Odissea (in scena dall’11 al 13 gennaio al Teatro Biondo di Palermo), Perrotta entra ora in quelli del padre per il primo capitolo di una nuova trilogia dedicata appunto alla famiglia. E lo fa con una sorta di urgenza personale: «Padre è una parola che riempie il mio quotidiano di nuove sfide e preoccupazioni – scrive nelle note di regia – Ho bisogno di ragionarci attraverso gli strumenti che riconosco miei per inchiodare al muro i padri sbagliati che vorrei evitare di essere».

In questo nuovo percorso Perrotta si immerge dunque a capofitto, per delineare non un unico padre, bensì tre, che vivono nel medesimo caseggiato, assai differenti tra loro per estrazione sociale, provenienza geografica, condizione lavorativa. Tutti e tre alle prese con altrettanti figli forse un po’ problematici.

Virgilio è figlio di un giornalista siciliano. Chiuso nella sua stanza come un perfetto hikikomori, non risponde alle domande insistenti del padre. Un padre che non conosce le ragioni del suo silenzio, e insieme alla moglie cerca di scrutarne le cause. Le indaga, ipotizza, senza avere risposte certe.

Alessandro è figlio di un capofficina veneto; anche lui non comunica con il padre, un genitore che ha sacrificato la propria passione per la musica per riuscire a farlo studiare, mentre ancora si esprime in un dialetto a tratti stentato. Per questo il figlio si vergogna di lui?

C’è poi Giada, sempre con le cuffie addosso, che ha paura di quel padre un poco “sgarrupato” che per attirarla un po’ a sé usa persino i tarocchi. E che, sebbene ricco e adulto, è in fondo ancora un bambino, o meglio un ragazzo, con in mente solo il sesso: ecco perché teme le attenzioni verso le sue amiche.

Sono tre casi simbolici che, più di parlare di cosa possa voler dire essere adolescenti, ci riconsegnano le sfide di altrettanti padri nel cercare di capire i rispettivi figli, e viceversa. Figli che in scena sono solo evocati, eppure ne sentiamo bene la presenza. Non ci sono ragioni particolari che li rendono così difficili, bisogna forse solo dar loro il tempo di maturare, perché in testa hanno la confusione tipica dell’età, ancora incapaci di aderire in modo congruo al mondo in cui stanno entrando. Così spiega Alessandro al padre la sua condizione di alterità. E sarà attraverso la musica, con cui ha già conquistato anche la moglie, che il padre di Alessandro riconquisterà il figlio: con gli accordi di una chitarra, abbandonata sulla scena.
Nel medesimo modo, il padre di Virgilio donerà un abbraccio pietoso al figlio quando finalmente uscirà dalla stanza. Non userà più vocaboli difficili come ha sempre fatto, ma parole semplici.
Anche Giada riemergerà infine dal suo torpore, togliendo le cuffie dalle orecchie e andando semplicemente a scuola mano nella mano con Virgilio.
Così, d’incanto, i tre padri smussano le loro differenze per diventare uno solo di fronte a un figlio che non conosce ancora le proprie dimensioni interiori, né immagina dove si estenderanno i propri rami, ma che – perché così sempre è successo – diventeranno forti e fruttificheranno. Basterà solo aspettare!

Il tema scelto non è certo nuovo, indagato da film, libri e spettacoli, in teatro rivolti soprattutto alle nuove generazioni.
In questa creazione prodotta dallo Stabile di Bolzano ci troviamo a tratti di fronte a qualche eccessiva esemplificazione, ma Perrotta riesce ad infondere ai suoi personaggi una verità, restituendoceli con umiltà e passione. Ne accompagna i modi, i linguaggi, tanto diversi tra loro, così come i pianti e le speranze, tanto simili gli uni con gli altri.
L’attore agisce in una scena nuda cambiando una semplice giacca; accanto tre manichini, di cui intravvediamo solo i contorni realizzati con il filo di ferro dallo stesso Perrotta, così simili ai padri ma forse anche ad Alessandro, Virgilio e Giada.