Mario Perrotta

Il Sole 24 Ore

Quei padri sempre più fragili e smarriti Dopo due progetti di respiro corale – su Ligabue, fra gli argini del Po, sugli immigrati, in vari luoghi del Salento – Mario Perrotta affronta un tema più introspettivo, il rapporto tra padri e figli. Nel suo nuovo spettacolo, In nome del padre, che ha debuttato al Teatro Studio […]

Quei padri sempre più fragili e smarriti

Dopo due progetti di respiro corale – su Ligabue, fra gli argini del Po, sugli immigrati, in vari luoghi del Salento – Mario Perrotta affronta un tema più introspettivo, il rapporto tra padri e figli. Nel suo nuovo spettacolo, In nome del padre, che ha debuttato al Teatro Studio Melato di Milano, l’attore si pone spietati interrogativi sulla fragilità, sugli smarrimenti di questa figura nella nostra società. Il lavoro, scritto con lo psicanalista Massimo Recalcati, apre una trilogia sulla famiglia che passerà poi a inquadrare i ruoli di madre e di figlio.

È evidente che la questione è molto sentita da Perrotta, il quale già vi si era accostato nella sua Odissea, in cui la lontananza di Ulisse veniva vista con gli occhi di Telemaco. Intanto lui a sua volta è diventato padre, conscio degli errori che gli si prospettano lungo il cammino. Ma il confronto fra genitori e figli non è solo una faccenda privata: sia gli uni che gli altri sono specchio della società in cui vivono, e le loro incomprensioni ne mettono ferocemente in risalto vizi e sbandamenti collettivi. Non a caso l’approccio alla materia avviene attraverso l’accostamento di tre personaggi diversi, rappresentativi di ambienti e culture distanti fra loro. C’è il giornalista colto e forbito, che racconta ai lettori del figlio barricato in camera, forse dopo essersi scoperto gay, mentre il padre attraverso la porta cita il libero arbitrio, l’atarassia, tutti i grandi omosessuali della storia. C’è il capofficina veneto incapace di usare le parole, che dopo aver consultato il «’ssicanalista» confessa al figlio di aver rinunciato, per provvedere al suo mantenimento, a una carriera musicale, e la moglie non gliel’ha più perdonata. C’è soprattutto il commerciante napoletano immaturo e maschilista – linguisticamente, il più interessante – che offre canne alla figlia Giada e va in discoteca con lei e le sue amiche, che lo accusano di molestarle e di avere atteggiamenti ambigui nei confronti della stessa Giada. Perrotta dà voce a tutti e tre da solo, in uno spazio vuoto in cui spiccano unicamente tre sculture di Giacometti: passa dall’uno all’altro cambiando semplicemente giacca e accento, li differenzia e poi li intreccia, come se alla fine su di loro incombesse un destino comune.

Lui è bravissimo, come sempre, nell’evocare una piccola umanità, e si pone di fronte al problema con estrema serietà, il che non sfugge al pubblico. L’argomento è cruciale, senza dubbio, e fare del teatro il luogo in cui portarlo alla luce è un atto di coraggio da parte sua. Proprio in quanto esso impone riflessioni di enorme portata, vien da chiedersi fino a che punto i tre casi possano essere espressione di una realtà così complessa: credo che, sul piano drammaturgico, lo aspetti ancora un duplice impegno tutt’altro che facile, quello di tipizzarli ulteriormente e renderli al tempo stesso più universali.