Mario Perrotta

Delteatro

In nome del padre Una possibile rilettura della trinità familiare – padre, madre, figlio/figlia – per il suo nuovo spettacolo, un assolo colmo di tensione che lo vede dare voce a tre padri, primo tassello di – pensiamo – un’ipotetica famiglia tipo, moderna, smembrata nelle sue parti. Magari non è così e se mi sbaglio Mario […]

In nome del padre

Una possibile rilettura della trinità familiare – padre, madre, figlio/figlia – per il suo nuovo spettacolo, un assolo colmo di tensione che lo vede dare voce a tre padri, primo tassello di – pensiamo – un’ipotetica famiglia tipo, moderna, smembrata nelle sue parti. Magari non è così e se mi sbaglio Mario Perrotta mi perdonerà. Anche in questo nuovo spettacolo, In nome del padre, andato in scena con successo al Teatro Studio di Milano, l’interprete è solo nell’ampio spazio circolare del teatro, quasi una specie di arena, del luogo che per un’ora e mezza riempie con la sua fisicità e la sua bravura. Scritto dallo stesso attore, il testo nasce anche dalla consulenza drammaturgica di uno psicoanalista come Massimo Recalcati, da sempre studioso dei meccanismi su cui si regge la famiglia e sulla strada, spesso inquietante se non proprio dolorosa, che devono percorrere i genitori, sovente esclusi dal mondo dei figli, chiusi in una stanza reale o ideale dove è impossibile per chiunque entrare, a maggior ragione per chi come il padre incarna o perlomeno incarnava il principio di autorità.

Perrotta dà voce a tre tipologie paterne, un padre di cultura semplice, amante della musica; un padre colto, che non riesce a superare i silenzi del figlio; un padre che potremmo definire amicone, mai cresciuto, che ama andare in discoteca accompagnando la figlia e le sue amiche, che temono voglia mettere loro le mani addosso. Un equilibrio inesistente che si spezza davanti alla porta chiusa che sembra avere buttato via la chiave. “Hikikomori” chiama Recalcati, e con lui Perrotta, questa specie di atarassia che non ha nulla a che fare con quella dei filosofi greci. È piuttosto una mancanza totale di tutto: interessi, amori, senso delle parole, indifferenza verso gli altri per difesa, in favore di una tranquillità falsa, senza sogni.

Questi tre padri si sentono spiazzati dal silenzio e dalla volontaria solitudine dei figli. Fanno riferimento allo psicoanalista a sua volta apparentemente impotente di fronte a questa cosa da gestire che cerca – non lo vediamo mai in scena, le sue parole e teorie sono riportate a modo loro dai padri – attraverso l’esperienza e le parole di questo allontanamento progressivo e così numeroso e inspiegabile che attanaglia molta gioventù. Certo alla base di tutto c’è un principio di autorità che non si accetta più, che non si riconosce più da parte di questi figli che cercano di chiudere tutti i buchi neri che li metterebbero di fronte alla realtà.

I ragazzi sono tre: Alessandro, Virgilio, Giada. Nella famiglia di Alessandro, la più modesta, sembra che sia passato come un tornado, il padre non riesce a capire fino in fondo le parole dello psicoanalista, ma dopo tanti passi perduti sarà la sua semplicità ad aprire la porta del figlio grazie alla musica con la quale quest’uomo riesce a comunicare cose che non sa dire a voce. Qui le madri latitano, anzi si parla di madri che non si sa dove siano e con chi. Questo succede nella casa di Virgilio, dove il padre ha il coraggio di affrontare un tema paradossalmente tabù come quello dell’omosessualità e come quello di Giada che teme, e con lei le sue amiche, che quel padre troppo amicone che si ritrova possa andare oltre nei suoi rapporti con loro. Eppure anche lui alla fine capisce che è tempo di crescere. Il padre che forse ci azzecca di più è quello di Virgilio, folgorato dalla visione del figlio che, uscito dalla camera, se ne va a scuola tenendo Giada per mano.

Calato con forza in questo magma che gli pone più di un interrogativo, Perrotta non cessa di domandarsi, oggi, quale sia il modo di imparare davvero a essere padri fino in fondo.