Tre padri in uno, fra una porta chiusa e una chitarra rediviva
MILANO – Tre padri – fra loro diversissimi per posizione sociale, provenienza geografica e condizione lavorativa – tentano ripetutamente, attraverso il dialogo, di stabilire un rapporto con tre figli del pari diversi fra loro ma accomunati dal fatto che in scena non compaiono mai e che, soprattutto, se ne restano murati nel silenzio, rispondendo – come apprendiamo dai padri – solo eccezionalmente e appena con qualche parola stentata e ostile.
Questo, in estrema sintesi, l’argomento di In nome del padre, lo spettacolo di e con Mario Perrotta che lo Stabile di Bolzano presenta nel Piccolo Teatro Studio Melato. E poiché i tre padri in campo (un giornalista siciliano, un capofficina veneto e un commerciante napoletano) abitano su tre piani contigui dello stesso palazzo, se ne deduce che costituiscono, sul versante simbolico, il paradigma della nostra società e la cartina di tornasole dei troppi vizi mentali e delle infinite paure psicologiche che, per l’appunto, intralciano e spesso impediscono senza riparo, oggi più mai, una corretta e proficua interazione fra chi ha dato la vita e chi l’ha ricevuta.
Preziosa, per quanto riguarda l’analisi di un simile quadro, s’è rivelata – in sede di stesura del testo – la consulenza di uno studioso del calibro di Massimo Recalcati. E ne è venuto fuori un monologo, insieme intelligente e intrigante, che trova la sua efficacia nella fusione mirata dei temi proposti dalla cronaca e delle ipotesi (scientifiche o ideologiche) che più largamente circolano a proposito della soluzione dei problemi a quei temi connessi.
I figli dei tre padri in questione sono, rispettivamente, Virgilio, uno dei centomila “hikikomori” (è il nome dato in Giappone al giovane iper-connesso che vive nel e del rifiuto di ogni contatto con la realtà a lui esterna) italiani; Alessandro, che si vergogna di avere un genitore incapace di parlare in italiano; e Giada, che indossa le cuffie e ascolta musica ad alto volume per non sentire quel suo paparino sciupafemmine che lei, addirittura, sospetta di mire incestuose.
Ebbene, è proprio Alessandro che mette sul tappeto il problema-chiave. Il giornalista, il capofficina e il commerciante hanno, tutti, abbandonato il linguaggio della naturalezza e della spontaneità per sostituirlo con il codice artificioso imposto dal loro peso sociale e dalle scelte di vita che da questo son derivate. Il capofficina suonava la chitarra nei locali, e giusto per mezzo di quel suono conquistò l’amore della donna che poi diventò sua moglie e la madre di Alessandro. Ma smise di suonare in cambio della sicurezza che gli garantiva il posto fisso. E adesso con la moglie non s’intende più e la chitarra giace abbandonata su un divano, accanto al figlio che vi sta in permanenza stravaccato.
Aggiungo che il tema degli “hikikomori” era già stato svolto in Notre peur de n’être (La nostra paura di non essere), uno spettacolo dell’autore e regista belga Fabrice Murgia presentato a Venezia nell’ambito della Biennale Teatro del 2015. E il suo protagonista veniva così descritto: «Ha rinunciato al sole, i suoi occhi l’hanno dimenticato. A volte la notte esce, cammina a piedi nudi per le strade. Osserva la città, come se i suoi abitanti fossero scomparsi. È solo al mondo, nella città fantasma, la città in cui poteva correre». Mentre – ecco in che cosa consiste la superiorità di In nome del padre rispetto a Notre peur de n’être – l’”hikikomori” di Perrotta al «sole», ossia a un mondo popolato di uomini, non ha rinunciato affatto; e non esce, di notte, ad inseguire fantasmi, sta in casa ad attendere, anche se disperato, che gli arrivi comunque un segnale di fraternità.
Per questo il riavvicinamento di Alessandro al padre coinciderà con gli accordi che a un certo punto il capofficina trarrà dalla chitarra abbandonata sul divano: è il suono ad assicurare la comunicazione negata dall’impotenza e dal mercimonio delle parole. Quelle che, per fare un altro esempio, adopera in continuazione il giornalista: a proposito di Virgilio, che si rifiuta di aprirgli la porta della sua stanza, ciancia di «atarassia», «laicità», «libero arbitrio», «nuova dinamica familiare», «centratura su se stessi»; e davvero non è un caso che, alla fine, il figlio gli aprirà dopo che lui, in ginocchio davanti alla porta chiusa, avrà detto: «Sugnu ccà, Virgilio, sugnu ccà. Avri sta porta, Virgilio. Sugnu ccà comu un cane, senza cchiù nenti. Avri sta porta, Virgilio, sugnu ccà in silenzio. Senza cchiù parole. In silenzio… Zitto».
Sì, è proprio il problema del linguaggio a costituire il vero tema dello spettacolo di Perrotta e a determinarne l’originalità e la profondità. Virgilio s’inginocchia anche lui e lascia che il padre lo abbracci allorché quest’ultimo prende a parlare nel suo dialetto, allorché, in breve, ritrova la naturalezza e la spontaneità di cui dicevo.
Ancora non a caso, del resto, il commerciante cerca di giustificarsi in quanto padre e, dunque, di controllare il rapporto con la figlia, la quale gli sfugge di continuo, sostituendo alle persone i personaggi fissi (il Muto, la Vergine Attica, la Torre, le Sperdute, la Foresta Cinica, l’Arrangiatore…) dei tarocchi. Anche lui, in altri termini, finisce per rimanere sconfitto perché abbandona il linguaggio della naturalezza e della spontaneità. E siccome lo fa, stavolta, in favore di formule esoteriche ammantate, per giunta, di un grottesco che sfuma nella comicità (si sarà capito, infatti, che i personaggi fissi citati li ha inventati lui), ecco che, così, viene sottolineata in maniera eclatante «l’evaporazione della figura tradizionale della paternità» di cui parla Recalcati in una sua nota.
Non meno significativo, poi, si rivela l’apparato scenico. Perrotta agisce accanto a tre manichini, da lui stesso realizzati e che rappresentano, ovviamente, i tre figli. Ma hanno la testa fatta di fil di ferro, e cioè, in quanto privi del corpo, sono una pura immagine. E proprio una pura immagine del rapporto di quel padre uno e trino con quei tre figli «misteriosi» disegna con grande bravura il Mario Perrotta attore, innescando, col semplice passare dalla giacca del giornalista ai giubbotti del capofficina e del commerciante, una serie di dissolvenze incrociate che rendono al meglio l’idea della «liquidità», ovvero dell’incertezza, in cui si traducono i tentativi di un contatto autentico qui dispiegati.
Infine, sul versante della cronaca c’è da aggiungere che In nome del padre è il primo momento di una trilogia che, s’intende, comprenderà anche uno spettacolo sulla Madre e uno sul Figlio, in programma, rispettivamente, per l’anno prossimo e per il 2020. E ho scritto Madre e Figlio con l’iniziale maiuscola in ossequio alla definizione che Mario Perrotta dà di questo progetto: «Uno sguardo sul presente, il mio presente, per indagare quanto profonda e duratura è la mutazione delle famiglie millennials e quanto di universale, eterno, resta ancora». Si tratta, in altre parole, d’indagare sulla famiglia considerandola, insieme, sul piano della quotidianità e su quello dell’archetipo. Ciò che, come ho cercato di dimostrare, ha cominciato a fare, per l’appunto, «In nome del padre».