Il viaggio di Perrotta nella famiglia «alla ricerca del padre perduto»
C’è uno spettacolo, visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, che nasce da un’urgenza. Ad averlo scritto e a portarlo in scena è uno dei narratori storici del teatro italiano, quel Mario Perrotta che nel 2004 vinse il Premio Ubu con Italiani cìncali!, un monologo sui nostri minatori in Belgio che lo impose nell’olimpo degli affabulatori. In quindici anni Perrotta è passato dal secondo dopoguerra a oggi, dai cunicoli tetri delle miniere alle zone oscure domestiche, spinto da una necessità quasi biologica che lo ha portato ad analizzare e dare corpo ai fantasmi della figura più discussa, traballante ma indubbiamente imprescindibile della contemporaneità, quella paterna.
«Sei anni fa sono diventato padre – svela Perrotta – e mio figlio mi costringe a delle domande per le quali non sempre ho le risposte e, se le ho, sono sbagliate. Nel senso che con i figli c’è sempre un gioco di strategia e di riposizionamento continuo. Ti ritrovi puntualmente inadeguato a ciò che credevi ieri fosse valido. È uno stare sanamente sulla brace e in questi casi piuttosto che andare dallo psicanalista faccio teatro, invece di pagare mi faccio pagare». Al di là della battuta dal sapore apotropaico Mario Perrotta ha le idee chiare, dimostra di conoscere a fondo le dinamiche relazionali all’interno della famiglia ed è pervaso da un senso di paternità profondo e consapevole in quanto papà di un figlio etiope adottato per il quale paventa anche un futuro all’estero «se il colore della sua pelle nel nostro paese da un valore dovesse divenire un problema».
Sono padri con poche idee e pure confuse invece quelli che animano i 75 minuti dell’intensa e a tratti struggente narrazione di Perrotta intitolata In nome del padre (primo momento di una trilogia che prevede un capitolo sulla “madre” e il terzo sui “figli”) e che potrebbe sottotitolarsi «alla ricerca del padre perduto». Sono tre tipi diversi per estrazione sociale: un giornalista con evidente autocompiacimento per la sua cultura, un capofficina leone in fabbrica e agnello in casa, un imprenditore impaccato di soldi, di boria e di sfrenato edonismo. Hanno una serie di minimi comuni denominatori: abitano lo stesso condominio, ognuno di loro ha un figlio in pieno travaglio adolescenziale con cui non riescono a dialogare e in finale sono tre padri che, ognuno a suo modo, annaspano goffamente nel tentativo di scalare il muro di incomunicabilità che li separa dalla prole. Il giornalista subissa di ampollose costruzioni letterarie il suo Virgilio che da due settimane si è inspiegabilmente rinchiuso nella stanza isolandosi dal mondo esterno facendo pensare alla sindrome di “hikikomori”; l’afasico e impacciato operaio veneto, in cura dallo psicanalista e con l’autostima sotto le scarpe per aver rinunciato a una carriera di artista, non riesce a instaurare un dialogo col figlio Alessandro; il logorroico guascone napoletano, infine, si affida ai tarocchi per impostare le sue giornate fatte di spritz e uscite in discoteca con le amiche della figlia Giada, con cui veste i panni del patetico e ambiguo latin lover.
Insomma tre tunnel che lasciano intravedere una luce solo nel momento in cui i padri gettano le loro maschere e sprigionano una qualche forma di autenticità. Perrotta su un palco spoglio e in compagnia solo di tre simboliche filiformi sculture che riproducono il discobolo, il pensatore e il guerriero sconfitto, passa in dissolvenza con un cambio di giacca, di postura e di accento e con l’ecclettismo e la duttilità che lo contraddistinguono, da un personaggio all’altro. La dinamica dei passaggi è semplice e prevedibile, ma la verità interpretativa espressa è ficcante. Così come scaturiscono lampanti al termine della narrazione, seppur non esplicitati, gli ideali di cui hanno bisogno i nostri figli: amore, disciplina e soprattutto unione fra padre e madre altrimenti «i bambini cercano le crepe all’interno del muro dei genitori, ci mettono dentro i gomiti e poi li allargano». Un’immagine evocata dallo stesso Perrotta il quale non fa alcuna fatica a riconoscere che «i valori da dare ai figli sono quelli che si trovano nel Vangelo; uno può anche essere ateo ma non può negare che il Vangelo sia il più grande insegnamento di vita».