Mario Perrotta

Corrieredellasera.it – Bologna

Il Misantropo nero e corale di Mario Perrotta Mario Perrotta scaglia in uno spazio vuoto i personaggi del Misantropo di Molière in un corpo a corpo senza respiro con i fantasmi della menzogna sociale. Otto sedie ai bordi della scena, segnata in terra con linee che formano un quadrato. Geometricamente ossessive sono le passioni dei […]

Il Misantropo nero e corale di Mario Perrotta

Mario Perrotta scaglia in uno spazio vuoto i personaggi del Misantropo di Molière in un corpo a corpo senza respiro con i fantasmi della menzogna sociale. Otto sedie ai bordi della scena, segnata in terra con linee che formano un quadrato. Geometricamente ossessive sono le passioni dei personaggi che si affronteranno in quel ring ideale, inchiodati ai loro ruoli in un confronto sulla sincerità e la menzogna virato al nero, incalzante, contemporaneo e antico come i costumi, barocchi e di oggi. Niente suppellettili, niente scene: solo parole e caratteri, piaggerie e furiose sgradevoli antisociali verità. Bastoni per sorreggersi, trascinare, sfidare. Piccoli specchi portatili agitati come amuleti per provare a squarciare, a riconoscere la vanità e le maschere. Perché tutti ne indossano qualcuna, anche Alceste, il protagonista, nei suoi disgusti senza mediazioni, che lo rendono incapace di umana comprensione.
Perrotta, con la sua fluida traduzione, con la sua regia a ritmi rock, aggiorna anche alcuni riferimenti di Molière adattandoli a moderni cortigiani. Ma questa è forse la parte più debole dello spettacolo: si ferma al piacere della battuta, per l’attore, e del riconoscimento, per il pubblico, senza la corrusca forza politica che aveva l’invettiva nel buio di Leo de Berardinis in Il ritorno di Scaramouche, contro “‘sto mariolo che c’arrobba pure ‘o sole”. La virtù, qui, sta invece nel ritmo senza requie, che tutto travolge, compreso il protagonista, ridicolo, inadeguato nel suo voler forgiare un mondo nuovo che non si lascia plasmare. La tenerezza, la dignità finale, sta nell’amico e nella cugina di Celimene, che semplicemente hanno il coraggio di confessarsi il loro amore, prospettando la possibilità di una vita “naturale”.
La lotta contro il mondo di Alceste nella sua radicalità umorale, nel suo rifiuto del mondo,nella sua solitudine è destinata all’esilio. Nella furia di questa ora e mezza si racconta l’isolamento che non viene a patti e che non porta sbocchi, accennando solo altri aspetti dell’opera, come il doloroso autobiografismo dell’autore, Molière. Ma non manca il gusto per certe sfumature, specie nella caratterizzazione fisica epica di certi personaggi. Bastano alcuni passi di tango, qualche sguardo sfuggente, per descrivere l’amore “alla moda” di Celimene; qualche postura artificiale per evocare la piaggeria cortigiana.
Bravi gli attori, spesso impegnati in vere e proprie prove di virtuosismo all’ultimo fiato. Sempre segnato dal violento distacco dalle bassezze l’Alceste di Marco Toloni, tronfio, piacione e sottilmente feroce il vanesio Oronte di Perrotta, solenne anche nella dissimulata civetteria la Celimene di Paola Roscioli. Le altre figure sono affidate a Lorenzo Ansaloni, Donatella Allegro, Giovanni Dispenza, Alessandro Mor, Maria Grazia Solano. Il misantropo è la prima tappa di una Trilogia sull’individuo sociale che proseguirà con I cavalieri di Aristofane e Bouvard e Pécuchet di Flaubert. Già da questa prima tappa si apprezza la regia efficace e il coraggio di Perrotta, che abbandona la strada dell’aedo tutto solo in scena per misurarsi con un testo in compagnia.