Mario Perrotta

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Emigranti Esprèss: Il treno di un passato mai troppo remoto Tutto il nero di tutto il carbone di tutto il mondo, a questo sole non ci può tingere neanche un raggio! “Tutto il nero di tutto il carbone di tutto il mondo, a questo sole non ci può tingere neanche un raggio!”: è questa una […]

Emigranti Esprèss: Il treno di un passato mai troppo remoto

Tutto il nero di tutto il carbone di tutto il mondo, a questo sole non ci può tingere neanche un raggio!

“Tutto il nero di tutto il carbone di tutto il mondo, a questo sole non ci può tingere neanche un raggio!”: è questa una delle esclamazioni finali di Emigranti Esprèss, breve romanzo-reportage di Mario Perrotta. Ed è affidata alla bocca di Pinuccio, postino nel Salento negli anni in cui gli emigrati all’estero scrivevano lettere per far sapere come stavano a chi era rimasto al sud. Nell’opera di rimozione generale riguardo all’emigrazione italiana, quello del postino è un ruolo chiave: l’unico che ha memoria di ciò che fu, perché lo leggeva in tutte le lettere.
La frase di Pinuccio racchiude le speranze e le illusioni di chi, appunto, rimaneva, e anche di chi invece se ne andava. La possibilità di ritrovare quel sole da cui si era partiti (la “turnàta”): in evidente contrasto con tutto il nero (e il blu) del carbone che scorre durante il romanzo.
Mario Perrotta, nel 1980, aveva dieci anni, e ogni mese andava a trovare suo padre a Milano. Doveva farsi controllare l’apparecchio ai denti, e così sua madre lo metteva sul treno degli emigranti che da Lecce partiva ogni sera per portare all’estero i lavoratori italiani. Lo affidava ogni volta a gente diversa, e la cosa non poteva che rallegrare il piccolo Mario: per lui il treno era il primo palcoscenico, il gioco più lungo (il viaggio durava quattordici ore) e divertente che un bambino potesse trovare. Perché sul treno, Mario, lasciata la famiglia a cui veniva affidato, gironzolava, ascoltava le storie degli emigranti, raccontava le sue piccole bugie, insomma, era attore e spettatore di un periodo storico che oggi sembra, erroneamente, lontano nel tempo.
Nel romanzo, Mario arriverà a Milano e da lì continuerà il viaggio con suo padre passando per la Svizzera e la Germania, fino al Belgio, dove Perrotta è tornato da attore e autore dei suoi spettacoli teatrali (Italiani Cìncali! e La Turnàta), lavori sullo stile di Paolini e Celestini (con cui lo stesso Perrotta ha collaborato). E del teatro, del ritmo della parola orale si nutre questo romanzo, scritto in un italiano sporcato di leccese che risulta vivo e credibile al lettore, cui Perrotta si rivolge come se, appunto, stesse raccontando una storia in treno. ‘ la capacità di intrattenere dell’autore a creare quell’atmosfera che fa del viaggio stesso la destinazione e che ti fa abbandonare il mezzo con un po’ di malinconia’, così come accadrà per questo libro.
Come nelle opere di Celestini, la trama si sviluppa a fisarmonica, aprendosi e chiudendosi, allungandosi per via delle mille storie incasellate nella storia principale, i racconti che Mario ricorda e quelli che gli vengono raccontati (raccolte nelle interviste che il Perrotta adulto ha poi registrato per l’omonima trasmissione radiofonica di RadioDue da cui è tratto il libro e per i suoi spettacoli teatrali). Storie che l’autore riporta con la caratteristica capacità affabulatoria del racconto orale: il dialetto salentino diventa il principale protagonista del romanzo. Insieme al treno che, come diremmo oggi, è un perfetto non-luogo, e che, invece, finisce per diventare il vero e proprio luogo unico del romanzo, grazie anche ai tentativi tipicamente meridionali (tavolate improvvisate con ogni tipo di cibo) di renderlo più umano durante un viaggio. Viaggio che, si leggerà, di umano aveva ben poco.
C’è poi la materia vera e propria di Emigranti Esprèss: l’emigrazione. Il libro arriva in un periodo particolare, in cui una parte dei cittadini italiani sembra aver dimenticato quando toccava a noi emigrare in condizioni poco felici. I viaggi dei lavoratori ‘stagionali’ o ‘annuali’ erano veri e propri viaggi della speranza, figli di volontà politiche degli stati firmatari di accordi bilaterali sull’immigrazione, accordi che poi sembravano tenere poco alla dignità delle persone. E dunque: il rischio di fare retorica, in questi casi, è sempre alto. Come sfuggire alla sindrome del come eravamo, senza dimenticare o sminuire appunto la materia di cui Perrotta vuol parlare? Esattamente col suo stile, col suo approccio alla materia in questione: semplice, diretto, rivolto all’esperienza e alla memoria del singolo individuo piuttosto che alla moltitudine. Raccontando delle storie che stanno tutte sullo stesso piano, ma inquadrate da angolazioni specifiche: dal minatore col petto blu all’operaio che si spacca la testa contro il muro per la disperata solitudine natalizia all’estero, alla donna che in fabbrica spacca la testa a un collega svizzero che esagera con le attenzioni perché le italiane sono donne facili, dal professore che scrive le lettere per gli innamorati lontani e analfabeti, fino al marxismo spiegato con il calcio; tutto però elaborato dagli occhi e dalle orecchie del piccolo Mario, che spazia da un realismo di situazioni a volte comiche, altre malinconiche e dure, fino a un candido simbolismo infantile (il treno su cui salgono a Lecce i lavoratori, preso d’assalto persino dai finestrini, diventa un mostro che mangia le persone), capace di riannodarsi a un certo intento documentaristico (il minatore col petto blu per le esalazioni di carbone diventa Virgilio e in sogno porta Mario in una miniera, descrivendo minuziosamente le claustrofobiche condizioni cui erano sottoposti gli italiani). Che rimane anche quando Perrotta ricorda le assurde e umilianti leggi sull’immigrazione ancora vigenti o da poco abrogate in Germania e Svizzera, che poco facevano per la dignità umana degli immigrati (ricorda qualcosa?).
Insomma, l’intento di Perrotta è duplice: da un lato incantare, intrattenere (nel senso più alto del termine) e da un altro trattare una materia attuale in modo vivo, proprio perché presente (il fenomeno dell’emigrazione cambia, assume forme diverse, ma non ha mai smesso di interessarci, soprattutto al sud), attraverso l’uso della lingua affabulatrice di un italiano sporco di dialetto. In quattordici capitoli, uno per ogni fermata, Perrotta riesce a farci affezionare a tutte quelle storie che racconta e, cosa che accade per pochi libri, dispiace doverlo chiudere. Come quando si abbandona un treno ricco di storie interessanti.