Mario Perrotta si riconferma sperimentatore e ricercatore di forme e linguaggi del teatro sempre nuovi. Pur potendosi adagiare in precostituiti standard di successo, decide di rischiare e lo fa con successo con la trilogia Nel nome del padre, della madre, dei figli. L’ultimo tassello indaga un tema di un’attualità lacerante con comicità, brio e profonda serietà.
Il tempo è il protagonista di una pièce che ha come protagonisti le divinità: “Dei”, appunto, denominate “Figli”. Capricciosi, fragili e insistentemente complicati anche laddove tutto è semplice e una Musica leggera può far parlare un’orchestra al nostro posto! “Diventare adulti sarebbe un crescendo di violini e guai”: cita Colapesce Dimartino il testo di Mario Perrotta, che è anche regista e interprete di uno spettacolo che apre voragini nel mito, lasciando domande di una urgenza impellente.
L’atto civile è rito condiviso, con lo spettatore coinvolto in un sabato che coincide nella nostra visione con la festa del papà, sabato 19 marzo a Correggio, Teatro Asioli. Tutto intorno per le strade divampa la fiera di primavera e il paesaggio s-confina con quello descritto sulla scena, ibridato con il virtuale, demotivato dalla possibilità di attuare finalmente quella scelta che distanzierebbe ciò che separa mondo filiale da genitorialità.
Sono metaforicamente uno schermo e un telefono a legare come un cordone ombelicale. Non è un caso se Gaetano, il protagonista interpretato da Perrotta, è una sorta di mago che quel cordone non lo ha, lo ha staccato ed è capace addirittura di averlo incorporato: con il solo movimento delle mani riesce ad attivare schermi e conversare con il cugino Saverio (La Ruina). Il dramma può finire solo con un sacrificio: quello di un padre morto, quello di Gaetano. Ma anche con il sacrificio del padre di Melampo, uno dei coinquilini della casa gestita da Gaetano. È solo attraverso la morte del padre che il figlio può finalmente rendersi indipendente? Nella lettura di Perrotta pare inevitabile una routinaria esistenza priva di una via d’uscita.
A volte sembra di trovarsi dentro una sit-com amara e grottesca, in altro momenti dentro un musical dal sapore salentino e napoletano. In scena Luigi Bignone, Dalila Cozzolino e Matteo Ippolito e poi in video Arturo Cirillo, Alessandro Mor, Marta Pizzigallo, Paola Roscioli e Maria Grazia Solano; in audio il già citato Saverio La Ruina, Marica Nicolai, ancora la Roscioli e la Solano. Tutti gli attori non sembrano diretti, ma come un coro procede la recitazione con intensa ed esatta consonanza, nonostante si tratti di una operazione live solo in parte, con un grande apparato tecnico; alcuni attori recitano infatti su schermi in sincrono con la recitazione dal vivo.
“Sabato…” di Loretta Goggi è cantato dai personaggi in scena con sapore retrò ma anche con estrema caratterizzazione pop-televisivo-trash. Gaetano (Mario Perrotta) è un mix tra Freddy Mercury e Oscar Wilde (da testo), Aurora (Dalila Cozzolino) indossa solo abiti sexy e iperfemminili, Melampo (Luigi Bignone è un neocyberuomo con veste alla Neo di Matrix (come ci rivela il regista), mentre Ippolito (Matteo Ippolito) è un personaggio biblico con lunghissima tunica di lana. Le scene e le luci di Perrotta gettano ponti tra il primo e il secondo episodio della trilogia, scegliendo un minimalismo raffinato che rende agente organico in inorganico e sospensione temporale con slow motion ripetuti e ossessivamente necessari.
Che questo sia teatro ce lo rivelano fin da subito i nomi dei personaggi, che incarnano la mitologia pura e a essa si ispirano filologicamente e ne seguono le gesta, in un coevo e postapocalittico agglomerato di nevrosi narrate da Massimo Recalcati al drammaturgo durante il processo che ha visto la scrittura della trilogia.
Nell’epilogo, alcune parole che oggi ci appaiono estranee e del tutto prive di ambizione da parte di una generazione che di lotta e resistenza sembra non avere bisogno:
“We don’t need no education/ We don’t need no thought control/ No dark sarcasm in the classroom/ Teachers leave them kids alone/ Hey! Teachers! Leave them kids alone!”.
Forse è proprio la solitudine ciò di cui abbiamo davvero bisogno per diventare adulti, oggi e sempre?