Dei figli

Dei figli

Sipario

Tutti rigorosamente in «vestaglia», agli arresti domiciliari della vita, dialogano in interminabili videochiamate con i genitori, un dialogo alla distanza esilarante e tristissimo al tempo stesso che somma debolezza a debolezza, comodità a pigrizie emotive sia da parte dei figli che dei genitori. Perrotta non dà giudizi, né fa la morale, ma presenta, espone tutto con disperante oggettività. E allora Paola Roscioli e Alessandro Mor sono i genitori di Ippolito, uscito di casa ma che dipende in tutto e per tutto da mamma e papà; Arturo Cirillo e Maria Grazia Solano sono i genitori di Melampo, lui succube della moglie, entrambi innamorati del figlio da incoraggiarlo ad andare ma al tempo stesso senza mai veramente dargli il la. Marta Pizzigallo è la sorella minore di Aurora, portavoce di una madre assente. Gaetano di Perrotta usa lo schermo per fare incontri sexi e sfoggiando una virilità fasulla consolando donne in crisi. Ma è la voce di un uomo – Saverio La Ruina – a ricordargli di un padre lontano che non ha mai accettato l’omosessualità del figlio. Perrotta costruisce una drammaturgia polifonica che dietro un’apparente oggettività brucia di dolore e di angoscia e lascia tutto e tutti un po’ impietriti. Al racconto si affianca – potente – la forma che vede gli attori in scena dialogare in presa diretta con i genitori in video: ciò che accade è che la parola e la gestualità di chi è sul palco assumono una sorta di secchezza e di ritmo che non concede sbavature perché non può che sottostare alla tirannia del girato. Ne fuoriesce un cortocircuito estetico: l’apparente realismo del racconto si scontra e si confronta con la secchezza di un dire straniato, eterodiretto. Ciò crea quel senso di empatica distanza che lascia spiazzati gli spettatori e li manda a casa con un senso di impotenza che fa riflettere. 

Tutti rigorosamente in «vestaglia», agli arresti domiciliari della vita, dialogano in interminabili videochiamate con i genitori, un dialogo alla distanza esilarante e tristissimo al tempo stesso che somma debolezza a debolezza, comodità a pigrizie emotive sia da parte dei figli che dei genitori. Perrotta non dà giudizi, né fa la morale, ma presenta, espone tutto con disperante oggettività. E allora Paola Roscioli e Alessandro Mor sono i genitori di Ippolito, uscito di casa ma che dipende in tutto e per tutto da mamma e papà; Arturo Cirillo e Maria Grazia Solano sono i genitori di Melampo, lui succube della moglie, entrambi innamorati del figlio da incoraggiarlo ad andare ma al tempo stesso senza mai veramente dargli il la. Marta Pizzigallo è la sorella minore di Aurora, portavoce di una madre assente. Gaetano di Perrotta usa lo schermo per fare incontri sexi e sfoggiando una virilità fasulla consolando donne in crisi. Ma è la voce di un uomo – Saverio La Ruina – a ricordargli di un padre lontano che non ha mai accettato l’omosessualità del figlio. Perrotta costruisce una drammaturgia polifonica che dietro un’apparente oggettività brucia di dolore e di angoscia e lascia tutto e tutti un po’ impietriti. Al racconto si affianca – potente – la forma che vede gli attori in scena dialogare in presa diretta con i genitori in video: ciò che accade è che la parola e la gestualità di chi è sul palco assumono una sorta di secchezza e di ritmo che non concede sbavature perché non può che sottostare alla tirannia del girato. Ne fuoriesce un cortocircuito estetico: l’apparente realismo del racconto si scontra e si confronta con la secchezza di un dire straniato, eterodiretto. Ciò crea quel senso di empatica distanza che lascia spiazzati gli spettatori e li manda a casa con un senso di impotenza che fa riflettere. 

Ateatro

Mario Perrotta si riconferma sperimentatore e ricercatore di forme e linguaggi del teatro sempre nuovi. Pur potendosi adagiare in precostituiti standard di successo, decide di rischiare e lo fa con successo con la trilogia Nel nome del padre, della madre, dei figli. L’ultimo tassello indaga un tema di un’attualità lacerante con comicità, brio e profonda serietà.
Il tempo è il protagonista di una pièce che ha come protagonisti le divinità: “Dei”, appunto, denominate “Figli”. Capricciosi, fragili e insistentemente complicati anche laddove tutto è semplice e una Musica leggera può far parlare un’orchestra al nostro posto! “Diventare adulti sarebbe un crescendo di violini e guai”: cita Colapesce Dimartino il testo di Mario Perrotta, che è anche regista e interprete di uno spettacolo che apre voragini nel mito, lasciando domande di una urgenza impellente.
L’atto civile è rito condiviso, con lo spettatore coinvolto in un sabato che coincide nella nostra visione con la festa del papà, sabato 19 marzo a Correggio, Teatro Asioli. Tutto intorno per le strade divampa la fiera di primavera e il paesaggio s-confina con quello descritto sulla scena, ibridato con il virtuale, demotivato dalla possibilità di attuare finalmente quella scelta che distanzierebbe ciò che separa mondo filiale da genitorialità.
Sono metaforicamente uno schermo e un telefono a legare come un cordone ombelicale. Non è un caso se Gaetano, il protagonista interpretato da Perrotta, è una sorta di mago che quel cordone non lo ha, lo ha staccato ed è capace addirittura di averlo incorporato: con il solo movimento delle mani riesce ad attivare schermi e conversare con il cugino Saverio (La Ruina). Il dramma può finire solo con un sacrificio: quello di un padre morto, quello di Gaetano. Ma anche con il sacrificio del padre di Melampo, uno dei coinquilini della casa gestita da Gaetano. È solo attraverso la morte del padre che il figlio può finalmente rendersi indipendente? Nella lettura di Perrotta pare inevitabile una routinaria esistenza priva di una via d’uscita.
A volte sembra di trovarsi dentro una sit-com amara e grottesca, in altro momenti dentro un musical dal sapore salentino e napoletano. In scena Luigi Bignone, Dalila Cozzolino e Matteo Ippolito e poi in video Arturo Cirillo, Alessandro Mor, Marta Pizzigallo, Paola Roscioli e Maria Grazia Solano; in audio il già citato Saverio La Ruina, Marica Nicolai, ancora la Roscioli e la Solano. Tutti gli attori non sembrano diretti, ma come un coro procede la recitazione con intensa ed esatta consonanza, nonostante si tratti di una operazione live solo in parte, con un grande apparato tecnico; alcuni attori recitano infatti su schermi in sincrono con la recitazione dal vivo.

“Sabato…” di Loretta Goggi è cantato dai personaggi in scena con sapore retrò ma anche con estrema caratterizzazione pop-televisivo-trash. Gaetano (Mario Perrotta) è un mix tra Freddy Mercury e Oscar Wilde (da testo), Aurora (Dalila Cozzolino) indossa solo abiti sexy e iperfemminili, Melampo (Luigi Bignone è un neocyberuomo con veste alla Neo di Matrix (come ci rivela il regista), mentre Ippolito (Matteo Ippolito) è un personaggio biblico con lunghissima tunica di lana. Le scene e le luci di Perrotta gettano ponti tra il primo e il secondo episodio della trilogia, scegliendo un minimalismo raffinato che rende agente organico in inorganico e sospensione temporale con slow motion ripetuti e ossessivamente necessari.
Che questo sia teatro ce lo rivelano fin da subito i nomi dei personaggi, che incarnano la mitologia pura e a essa si ispirano filologicamente e ne seguono le gesta, in un coevo e postapocalittico agglomerato di nevrosi narrate da Massimo Recalcati al drammaturgo durante il processo che ha visto la scrittura della trilogia.
Nell’epilogo, alcune parole che oggi ci appaiono estranee e del tutto prive di ambizione da parte di una generazione che di lotta e resistenza sembra non avere bisogno:

“We don’t need no education/ We don’t need no thought control/ No dark sarcasm in the classroom/ Teachers leave them kids alone/ Hey! Teachers! Leave them kids alone!”.

Forse è proprio la solitudine ciò di cui abbiamo davvero bisogno per diventare adulti, oggi e sempre?

Ateatro

[…] Siamo in un limbo esistenziale e generazionale nel quale si avvitano su sé stesse le diverse declinazioni di una adolescenza cronicizzata, secondo la puntuale definizione di Massimo Recalcati, consulente alla drammaturgia. Una adolescenza allargata che accomuna l’incompiutezza di tutti i personaggi in scena, anche se il più giovane è intorno ai vent’anni e il più vecchio è quasi cinquantenne. Quest’ultimo si chiama Gaetano (lo interpreta con misurata ironia Perrotta, che non si perita anche di cantare) e accoglie nella propria casa, per una pigione poco più che simbolica, dei giovani che, in cambio, devono solo raccontargli ogni sabato le loro storie personali. Gaetano è un omossessuale depresso, un dandy pantofolaio. Come i suoi inquilini, vive quasi recluso nell’appartamento e si nutre dei loro racconti perché non sa vivere liberamente la propria sessualità. Come loro, insomma, non ha saputo superare lo stato di minorità, emanciparsi dalla famiglia, diventare adulto. Arrotonda come può: le entrate e i sentimenti. Cioè compensa la propria inadeguatezza con il potenziale represso delle vite altrui. Sempre in vestaglia da camera, ogni tanto prova qualche canzone pop, si lancia perfino nella disneyana I sogni son desideri.
Pochi elementi di design arredano l’appartamento. «Una casa fluida, come le vite che vi abitano», dichiara Perrotta. Le stanze senza muri si offrono allo sguardo dello spettatore come a quello dei familiari dei tre “ragazzi” che incombono da altrettanti grandi monitor. Nelle videochiamate conosciamo la sorella di Arianna (Marta Pizzigallo) i genitori di Melampo (Arturo Cirillo e Maria Grazia Solano) e quelli di Ippolito (Paola Roscioli e Alessandro Mor). Quando non sono smorzati dal ralenti, o messi in stand by, i loro interventi registrati determinano una partitura alla quale si devono attenere gli attori dal vivo, rispondendo con precisione millimetrica ai colleghi virtuali in un fitto dialogato molto efficace. Le interpretazioni registrate sono la forza dello spettacolo (in particolare Cirillo).
Dei giovani attori in scena la più convincente è Dalila Cozzolino; rischia l’esuberanza Luigi Brignone, mentre il personaggio di Matteo Ippolito sembra in cerca di definizione. Gaetano muove i fili del teatrino domestico. Intrattiene al videotelefono donne masochiste, mogli insoddisfatte, madri in crisi. Sempre a pagamento. E periodicamente parla anche con il cugino Saverio, rimasto l’unico legame con la famiglia d’origine. È lui che gli darà la notizia della morte del padre. Quel padre che lo ha sempre rifiutato, un altro padre assente, incongruo, anacronistico, come i tanti padri fantasmatici evocati in questa trilogia di Perrotta.
Gli interlocutori hanno le voci registrate di Saverio La Ruina, Marica Nicolai, Paola Roscioli e Maria Grazia Solano. I quattro personaggi in scena si moltiplicano dunque nel corso dello spettacolo diventando tredici profili diversamente irrisolti dello stesso devastato volto della famiglia oggi. In questo senso, Dei figli (basta un accento e la preposizione diventa sostantivo, a indicare le fragili divinità che egemonizzano il sistema psicologico familiare) richiama e compendia tutte le figure e le relazioni messe in campo nel progetto. E l’adolescenza si presenta come una dimensione atemporale. Non più un’età di mezzo, una stagione (inventata) della vita, ma una condizione dello spirito, uno stato di incoscienza permanente.

Il finale resta aperto: riusciranno gli ospiti della casa a trovare la forza di uscire dallo stallo? Ritroveranno “lo splendore e l’audacia” della giovinezza o resteranno impigliati in questa rete di relazioni morbose? E Gaetano che non potrà più essere l’eterno figlio? Uscirà dal suo ruolo, comodo e marcescente, di vittima innocente e inconsolabile?
Lo spettacolo è il più ambizioso e complesso della trilogia. Amaramente comico […]

Avvenire

I “figli” di Perrotta nella gabbia di casa

Dopo “In nome del padre” e “Della madre” l’attore e regista racconta l’ultimo atto della sua trilogia familiare: «Siamo tutti vittime di una pesante regressione relazionale»

 

Sono passati dai figli che, pur avendo ormai da anni superato la maturità, restavano prigionieri nel calduccio del focolare domestico, ai rampolli alla soglia degli “anta” che di casa sono usciti ma vivono in un’ipocrita finta indipendenza con i genitori, complici carcerieri, che li ingabbiano e ne ingoiano la borghese autonomia. Questa deprimente e inquietante regressione relazionale e sociale viene perfettamente fotografata da Dei figli, terzo capitolo di una trilogia di Mario Perrotta avviata nel 2019 con In nome del padre, poi Della madre. Evidente l’urgenza artistica dell’autore e attore leccese di affondare il suo sguardo, sempre saldo e saggio, sulla famiglia e sui rapporti affettivi di quella che il sociologo Massimo Recalcati definisce una “cronicizzazione dell’adolescenza”. Il problema delle famiglie è ovviamente complesso e Perrotta saggiamente non si perde in svariate narrazioni o attitudini e sociologiche, per quanto sia avvalso della consulenza drammaturgica dello psicanalista Massimo Recalcati, fa ciò che un teatrante in questo caso dovrebbe: individuare e ricostruire figure paradigmatiche, creare dialettiche sintetiche e significative, sollevare questioni indelebili scomode e spesso occulte, muovere e commuovere. Connotati e obiettivi tutti più e meno raggiunti in Dei figli, che non a caso ha uno “sottotitolo”. Uno di verità: “Il primo studio italiano che possa risolvere la problematica della minore autonomia dei figli da un punto di vista sia medico che sociale”.

 

Un’opera di teatro civile insomma che affronta un tema centrale della nostra società con lo sguardo ironico e scanzonato del clown sofferente, come lui stesso si definisce. Lo spettacolo, frutto di una doppia sessione di residenze artistiche a Tuscania e Lecce, vede in scena quattro attori alle prese con il dramma di un’ipotetica famiglia borghese. I protagonisti sono il padre, interpretato da Mario Perrotta, e tre figli ormai adulti, senza lavoro, che vivono ancora a casa con i genitori. Un quadro sociale desolante, una fotografia impietosa di un’Italia in cui i legami familiari si trasformano spesso in catene soffocanti.

 

La pièce si svolge in un appartamento, dove i quattro personaggi si confrontano, litigano, si amano e si odiano, cercando di trovare una via d’uscita dalla gabbia domestica. I dialoghi sono serrati, incisivi, a tratti divertenti, ma sempre intrisi di una profonda amarezza.

 

L’obiettivo di Perrotta è chiaro: scuotere le coscienze, far riflettere il pubblico sul tema dell’autonomia dei giovani e delle responsabilità dei genitori. La sua denuncia è forte, ma non priva di speranza: c’è la possibilità di cambiare, di migliorare le relazioni familiari, ma solo se si è disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni e a fare un passo indietro per il bene comune.

 

Lo spettacolo ha ricevuto numerosi applausi e consensi, confermando ancora una volta la capacità di Perrotta di affrontare temi complessi con intelligenza e sensibilità. Dei figli è un’opera che non lascia indifferenti e che invita a guardare con occhi nuovi le dinamiche familiari, in un’Italia che ha bisogno di ritrovare se stessa e i suoi valori più profondi.

PAC

Mario Perrotta chiude la trilogia fra eterna infanzia e squilibri caratteriali

Il percorso di indagine svolto da Mario Perrotta dentro le relazioni familiari rilette attraverso il medium teatrale è arrivato, nelle ultime settimane, all’atto finale della trilogia da cui il regista, drammaturgo e attore ha voluto fosse composto, nata come una sorta di preghiera che replicava già dal titolo il segno cristiano della croce – i tre atti si intitolavano infatti Nel nome del padre, Della madre, e ora Dei figli).Il terzo episodio del trittico è probabilmente la meta del viaggio, motore originario dell’impresa, nata anche da istanze autobiografiche e dalla necessità di comprendere a fondo il ruolo della genitorialità oggi: questa ricerca pluriennale ha avuto caratteristiche fin da subito orientate all’indagine psicologica.Già dal primo atto dedicato alla figura paterna, infatti, Perrotta ha chiesto supporto per la stesura della drammaturgia a Massimo Recalcati, noto studioso psicanalista e divulgatore scientifico, con il quale per ore l’artista teatrale ha dialogato, per arrivare ad una definizione dei prototipi caratteriali più comuni nella società odierna. Il primo atto aveva la caratteristica del monologo, sebbene Perrotta interpretasse più figure maschili, e ciascuna delle figure era emblematica della fragilità di questo ruolo nella nuova famiglia alle soglie del secondo millennio.

 

Il secondo, di cui pure per PAC ci siamo occupati, poneva in luce la preponderante, immanente e immobile figura della madre, gigante e a volte ossessiva nel suo essere troppo presente, ingombrante.Il terzo, che dopo alcune repliche di studio ha avuto il suo debutto vero e proprio a Castrovillari, al Festival Primavera dei Teatri, ha come obiettivo quello di andare ad esaminare la dinamica filiale nella società del post lavoro e della digitalità, una dinamica letta attraverso le vicende di quattro persone, tutte in una ideale tardo-adolescenza infinita, che vivono dentro la casa di uno di loro che affitta le altre stanze  a sempiterni studenti fuori sede, fuori corso, semplicemente fuori. Ciascuno di loro ha una vita incompiuta, un percorso irrisolto e irrealizzato, di cui è proiezione un inesausto lacaniano rapporto con i genitori, che costretti anche loro all’immutabile ruolo, non arrivano neanche essi a diventare mai adulti (quando ci sono).

 

Lo spettacolo nella distribuzione degli elementi scenici si svolge dunque in un interno domestico, di cui sono emblematiche postazioni, quasi nidi stilizzati su steli di ferro, quattro sedute in ferro battuto. Una ampia luce ambientale racconta questa casa che non ha pareti, e tutto si fonde in una liquidità esistenziale dove la privacy di fatto non esiste, come deve essere nell’era digitale, in cui si accordano protocolli di privacy lunghissimi, ma le grandi multinazionali dell’informatica conoscono di noi qualsiasi clic.A fondo scena tre schermi di proiezione video, in corrispondenza delle postazioni dei tre giovani, mentre le azioni del personaggio Gaetano, interpretato da Perrotta, quando in solitudine sono raccontate con una illuminazione fredda, diretta, nell’immaginario buio della sua stanza. Alla destra del palco una scala con tre gradini di ferro allude a una sorta di pianerottolo esterno, il classico luogo dove consumare una qualche sigaretta all’aria aperta.Ma in realtà il mondo esterno entra in modo importante nelle vicende domestiche, fin da subito, e lo fa attraverso il supporto tecnologico, la comunicazione digitale, la video chat, la video chiamata. Il maggiore degli abitanti della casa, Gaetano, il proprietario, inizia lo spettacolo intrattenendo delle partner online con conversazioni intonate a rapporti di dominanza sadomaso. Si scoprirà poi nel seguito la sua identità omosessuale, e dunque questa finta proiezione di sé attraverso il medium. L’uomo vive praticamente in vestaglia, è un elegante accessorio domestico invero di pregevole fattura sartoriale opera di Sabrina Beretta. In analoghe mise, che sanno poco più che di scendiletto sono anche gli altri protagonisti dello spettacolo, i più giovani sublocatari Melampo, Aurora e Ippolito (rispettivamente Luigi Bignone, Dalila Desiree Cozzolino e Matteo Ippolito), quelli che all’inizio vengono coccolati e accuditi dal ultracinquantenni padrone di casa quasi come figlioletti, rimboccati nel loro stare a nanna sulle note de I sogni son desideri: in realtà sono i suoi coinquilini subaffittuari, due ragazzi e una ragazza, tutti con una vita di proiezioni e sogni, ben distanti dalla realtà: Melampo, infantile e invasato, ormai distratto dallo studio, raccoglie fondi per organizzare un grande evento di risonanza planetaria, Occupy Polo Nord, Aurora dice di fare l’avvocato in favore dei diritti delle donne, e Ippolito, quasi 40enne e in una relazione con Aurora, sta dietro da anni al progetto di girare un film.

 

È la generazione di “giovani”, che da noi arriva ormai ben oltre i 40 anni, che non ha intenzione di abdicare alla figliolanza, un fenomeno questo molto italiano, stigmatizzato da alcuni con il termine “bamboccioni” che aveva suscitato scalpore anni fa, ma che fotografa quella che Michele Serra aveva ribattezzato come la generazione de Gli sdraiati (sul divano e con il cellulare in mano).

 

Qui gli schermi dei cellulari e dei computer sono grandi video da cui sbucano immanenti i genitori, in particolare quelli di Melampo (Amitaone e Idomenea, interpretati da Arturo Cirillo e Maria Grazia Solano) e Ippolito (Teseo e Fedra, Alessandro Mor e Paola Roscioli). Aurora ha una madre assente e quindi sente in video solo la sorella, Luna (Marta Pizzigallo). Per dirla in cifra semplice sono tre “scappati di casa”, fondamentalmente interpreti di un unico insistito fallimento o dolore, con genitori non meno problematici di loro, palesemente causa della gran parte dei loro disagi. Anche Gaetano ha alcune figure della sua famiglia meridionale di origine, che lo aggiornano via telefono sullo stato di salute dei genitori, con cui ha rotto i ponti per via dell’omosessualità.

 

In totale, fra le presenze fisiche in scena e quelle che agiscono da remoto, la drammaturgia dà vita a tredici personaggi, creando un complesso di relazioni sufficiente a definire chiaramente, e con una cifra per lo più comica e di satira sociale (qualche volta un po’ facile), il perimetro di questo universo tossico in cui, in parte come nelle precedenti drammaturgie della trilogia, nulla cambia realmente nella vita di questi esseri umani incapaci di andare al cuore dei propri problemi e di voler evolvere (ammesso che sia possibile).

 

Ma in realtà qui Perrotta un finale diverso prova a crearlo, sia con riguardo ad alcuni personaggi, che trovano o abbozzano la possibilità di una via di fuga, sia proprio come soluzione estetica finale, dove si arriva ad una plastica esemplificazione del presente mass-mediatico, in cui l’attore viene via dal palco, e lascia lo spettatore a guardare gli schermi. Esattamente come facciamo per tante, troppe ore al giorno. E quegli schermi, in ultima analisi, diventano specchi. I personaggi che li abitano, sono riflesso di tanti fra coloro che sono in platea, che in questo finale dai toni che virano al drammatico in modo repentino e inaspettato, trovano una chiamata in causa che è una delle maggiori ricchezze di questa creazione.

 

ll regista in questi anni ha attraversato e sperimentato davvero ogni genere di esperienza teatrale, e a nostro avviso impropriamente gli si attribuisce una specifica connotazione di artista del teatro di narrazione, che a ben guardare non è cosa organica alla sua pratica artistica. Buona parte degli spettacoli degli ultimi anni si è rivolta peraltro a composizioni corali, anche performative, con il coinvolgimento di centinaia di persone, come con Bassa Continua nel 2015, o come la trilogia sull’individuo sociale, affrontando i classici, e per la quale ha ricevuto nel 2011 il Premio Ubu. E questo certamente non è spettacolo di narrazione, né un monologo, anzi, Perrotta torna a una coralità (anche canora in diversi momenti dello spettacolo) e per la prima volta scrive una drammaturgia per un numero così ampio di personaggi, confrontandosi anche con la non agevole, ma occorre dire riuscita, mescolanza fra la presenza in scena e quella fuori dalla scena, attraverso il canale video.

 

La cosa raggiunge una particolare qualità grazie ai notevoli attori e attrici protagonisti delle parti videoregistrate, capaci con la sola mimica facciale e poco più, di innervare i loro caratteri di uno specifico assoluto (fantastiche le interpretazioni della Roscioli e di Cirillo): conferiscono a Dei figli una dinamica grottesca precisa, bilanciando talune acerbità delle più giovani presenze in scena, e provano a rompere le meccaniche dei caratteri psichici, che tendono in questi affreschi della trilogia, per loro stessa natura, a non evolvere, ma a nascere e morire fondamentalmente e patologicamente uguali a se stessi, senza scampo. Le figure a video, in questo terzo atto della trilogia, sono quindi un’innovazione cruciale nella ricerca di Perrotta, per trovare una soluzione proprio a questo problema drammaturgico dell’evoluzione dei caratteri, già emerso nei precedenti lavori: sono così concrete e immanenti che non pochi spettatori si attendono di vederle uscire in proscenio al momento degli applausi, anche per via del grande sforzo collettivo degli interpreti dal vivo di essere maniacalmente attenti al sincro delle battute e dei tempi, il vero incastro magico di questo spettacolo, che ha  il suo maggior esito proprio nell’esercizio di verosimiglianza della coesistenza fra i video e la recitazione dal vivo. Alla fine, con la astuzia e i mezzi artigianali dei vecchi teatranti, il regista mette in scena uno spettacolo con tredici personaggi, con sole quattro presenze fisiche.

 

Dei figli, con i suoi pregi e difetti, conferma comunque l’indole di Perrotta a mettersi in discussione, a cercare risposte sul e dal fare teatro. Nessuno dei suoi spettacoli assomiglia a qualcosa di suo già visto o già percorso. Di ciascun passo ha acquisito in maniera nitida la consapevolezza dei punti di forza e di debolezza. E ogni debolezza emersa è diventata la caparbia sfida per la creazione successiva, piuttosto che la cosa da lasciar andare e da cui stare alla larga. È quello che comunque un vero artista deve fare. E Perrotta, gliene va dato atto, pur con un teatro accessibile e non forzatamente intellettualistico, di rado si siede realmente comodo.

Sipario

Pare che i personaggi in scena siano quattro e invece sono tredici. Quattro reali, cinque in video, quattro in audio. I quattro reali sono dei figli di varie età, dai 20 ai 50 anni che vivono nell’appartamento in affitto del più maturo Gaetano (Mario Perrotta), cui gli altri tre contribuiscono con una quota mensile. Alle prime sembrerebbe che si siano affrancati dai genitori, vivendo quasi in comune in uno spazio privo di pareti, quasi come in quel film di Lars von Triers, Dogville (2003), occupato da quattro agili seggiolini ferrosi, simili a dei volatili lacustri, e da tre schermi su cui appaiono spesso le facce certamente non contente dei familiari, che vedono vivere i propri figli in modo strano, sentendosi disarmati e superflui. Il 38enne Ippolito (Matteo Ippolito) spirito da bohemienne, vive in quella casa da almeno 18 anni, ama le canne e la lasagna di mamma (quella di Paola Roscioli che si esprime in un milanese niente male) che gli lava e stira pure la sua roba, fa l’amore-senza-amore con Aurora (Dalila Cozzolino) ed è alla ricerca di qualcuno che gli produca un suo film scritto dopo tre anni, lasciando attonito il padre (Alessandro Mor). Il 25enne Melampo (Luigi Brignone) vuole e ottiene il monopattino da duemila euro dal colorito padre napoletano (Arturo Cirillo), che non ama gli anglismi, aspira a laurearsi in Graciologia e vuole organizzare una grande marcia al Polo Nord di cui ha tracciato il percorso, per occuparlo. La 33enne Aurora (la Cozzolino appunto) è una giovane avvocato, definita da Gaetano la “Perla mediterranea d’Oriente” e dalla sorella Luna (Marta Pizzigallo) la “Principessa sul pisello”, rampognata spesso perché non rientra a casa e perché fa sesso con un tale come Ippolito che invece che a pensare al cinema dovrebbe dedicarsi a fare video di matrimoni, compleanni, battesimi e settimane della moda. Aurora cerca di mettersi in contatto con la madre-giudice che non le risponde, vorrebbe vivere con Ippolito in un’altra casa e i litigi con la sorella vengono definiti dallo stesso Melampo quali saghe popolari buone per delle serie televisive. Infine il 53enne Gaetano di Mario Perrotta (oltre che autore e regista dello spettacolo pure curatore di luci e scene) che qui interpreta un dandy omosessuale, avvolto da un’ampia vestaglia damascata alla maniera di Oscar Wilde, colto a bere calici di vino bianco e beveroni caldi sul proscenio del Teatro assieme alla Cozzolino nei momenti di fuori scena e quando invece entra nel vivo fa sentire la sua presenza di leader del gruppo, definito dallo stesso Melampo il “profeta del nuovo mondo”, un personaggio che vive come un guru dando consigli a pagamento per telefono ai suoi deboli e indifesi clienti, soddisfatti poi di chiudere le chiamate di quei personaggi appellati come “Sofferto Torino”, “Bastapoco” o “Sospiro romano”. Le voci sul filo son quelle di Marica Nicolai, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano, mentre più significativa, per entrare meglio nel carattere di Gaetano, è la dolce vocina del cugino Saverio (Saverio La Ruina), che gli telefona da almeno trent’anni, dandogli notizie del padre, addolorato perché ha un figlio gay e della madre che non gli parla, piange senza mai profferire verbo. Ha il cruccio di non avere un compagno fisso, esce una volta alla settimana, 52 volte l’anno per fare la spesa per tutti e sbava nei confronti di “Tatuaggio selvaggio”, un tipo che lavora al supermercato che Gaetano vorrebbe diventasse il suo terzo mondo, la sua FAO, la sua Amnesty International. Lo spettacolo di Perrotta sembra confermare che i figli rimangono sempre figli, a qualunque età e dimensione. Ciò che risalta in particolare nell’interessante e godibile spettacolo di 85 minuti, pure con alcuni brani musicali cantati e danzati dai quattro bravi protagonisti, molto applaudito alla fine dagli spettatori del Teatro Astra di Vicenza, è che i figli anche se distanti dai propri genitori tendono sempre a restare incollati a loro in qualche modo e per i motivi più disparati. «Una delle grandi mutazioni antropologiche del nostro tempo – chiarisce Massimo Recalcati consulente alla drammaturgia del testo – riguarda la cronicizzazione dell’adolescenza. Se prima la giovinezza era legata alla pubertà e si concludeva con la fine dell’adolescenza, oggi l’adolescenza non è più il riflesso psicologico della “tempesta” psicosessuale della pubertà bensì una condizione di vita perpetua che tende a cronicizzarsi». Con Dei figli si conclude così la trilogia In nome del padre, della madre, dei figli in cui Mario Perrotta con l’ausilio del Teatro ha provato “a ragionare su questa strana generazione allargata di “giovani” tra i 18 e i 45 anni che non ha intenzione di dimettersi dal ruolo di figlio. Non tutti, per fortuna, e non in ogni parte del mondo. Ma in Italia sì, e sono tanti». –

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