Mario Perrotta

NonSoloCinema

I rapporti tra teatro e letteratura sono sempre stati difficili. Molto spesso la seconda ha prevalso sul primo, rendendo il lavoro scenico un pallido riflesso del libro. Figuriamoci se convocato sul palco è un mostro sacro come Italo Calvino, che quest’anno compirebbe cento anni. Invece stavolta no: questa volta il teatro rende un servizio straordinario […]

I rapporti tra teatro e letteratura sono sempre stati difficili. Molto spesso la seconda ha prevalso sul primo, rendendo il lavoro scenico un pallido riflesso del libro. Figuriamoci se convocato sul palco è un mostro sacro come Italo Calvino, che quest’anno compirebbe cento anni. Invece stavolta no: questa volta il teatro rende un servizio straordinario alle sue pagine, grazie a Mario Perrotta e al suo Come una specie di vertigine, sottotitolo emblematico Il Nano, Calvino, la libertà, visto a luglio a San Sepolcro all’interno di Kilowatt Festival.

Ed è proprio la parola libertà che offre la chiave di lettura di questo intensissimo spettacolo. La libertà di chi ce l’ha, e spesso stoltamente vi rinuncia, e quella di chi invece non ce l’ha, come il protagonista, che l’autore-regista-attore trae direttamente dalla calviniana Giornata di uno scrutatore: un nano ricoverato al Cottolengo, impossibilitato a parlare e a muoversi ma tutt’altro che impassibile osservatore di tutti i lacerti di realtà che riesce a cogliere dalla sua condizione immobile. È lui a stabilire un confronto con gli spettatori: «Io non sono libero. Voi sì», e questa dialettica cadenza ciclicamente tutto il lavoro. E sempre lui, da quell’angolazione, contempla come un regista cinematografico esperto le piccole parti anatomiche che può scorgere di Suor Antica, l’angelo sexi che lo accudisce e che un giorno, convinta di essere sola (cioè insieme a persone non senzienti, gli ospiti del Cottolengo, che non possono ‘vedere’) gli concede addirittura uno spogliarello imprevisto per fronteggiare la calura. A parlare, nella pièce, è l’anima dolente di questo nano, lei sì libera di andare dove vuole, insieme alle anime dei compagni di sventura e di corsia, i «fratelli guasti», che non compaiono mai in scena ma la cui presenza si fa sempre più palpabile mano a mano che il racconto procede.

Italo Calvino (anzi il Calvino Italo, alla lombarda, perché il protagonista parla in un milanese dinamico che si contrappone alla costretta fissità del suo corpo) entra in modo mimetico, senza disturbare in nessun modo il piano della narrazione. Anzi,. la sua scrittura graffiante e ironica diviene appassionante, quasi commovente, senza che l’autore (nel senso di Perrotta) indulga mai (ma proprio mai) nella retorica e nel pietismo. Così, nei fittissimi ottanta minuti di spettacolo, si passa senza soluzione di continuità dal citato Giorno di uno scrutatore, che dà lo spunto iniziale, al Cosimo del Barone rampante, al Cavaliere inesistente (che nella «Trap di Spirito e corpo» diventa «cavaliere del web») a Raissa, la più infelice delle Città invisibili. Ma naturalmente non possono mancare Le cosmicomiche e le loro galassie lontane e sconosciute, e nemmeno Palomar, un romanzo del 1983, il cui personaggio principale, Palomar appunto, richiama da vicino il cavaliere inesistente Agilulfo, e con la sua ‘incorporeità’ ben si inserisce nel contesto. La cosa più sorprendente è che Calvino entra ed esce dalle parole recitate con un’assoluta e sapiente naturalezza. Non si tratta di citazioni ma di ‘costruzioni’ calviniane filtrate dalla mente ipercinetica e sognante del nano.

Il tutto si rivela una grande operazione di scrittura, che dalla prosa spazia al polimetro, con rime interne ed esterne, accumuli, anafore, giochi verbali, ripetizioni espressive… Una scrittura densa e agile al medesimo tempo, che in scena si plasma nei ritmi sempre diversi che le destina il performer, muovendola e facendola vibrare in termini musicali, scandendo sillaba per sillaba, decantandola, modulandola o divorandola.

Mario Perrotta è bravissimo, fermo in una posizione innaturale, a restituire in scena il potere del suo testo. Dopo la trilogia ‘familiare’ degli ultimi anni, che l’ha visto condividere il palcoscenico con altri attori, ritorna al monologo, forma cui già aveva regalato perle teatrali, due per tutte Italiani cìncali (2003) e la grande epopea per attore solo Milite Ignoto – quindicidiciotto (2015).

A incorniciare tutto pensa Jimmy Fontana e la sua Il mondo, che, dopo aver aperto lo spettacolo presentandoci il protagonista seduto e in paillettes, torna alla fine «mentre la voce pian piano si contorce in un urlo, un bercio, e lui ha le convulsioni di chi quella libertà così abusata da noi ‘normali’ la vorrebbe comunque».

Un lavoro magnifico, da vedere assolutamente.