Il racconto del nano, un’ode alla libertà per rendere omaggio a Calvino
Giacca scintillante di paillettes, quattro fari che accecano il pubblico, un microfono ad asta e una scheletrica sedia girevole di metallo: quattro elementi, in parte antitetici, costruiscono l’intelaiatura del monologo con cui Mario Perrotta si inoltra nel corpus dei romanzi di Italo Calvino, scavando un sentiero affatto personale e, nondimeno, indiscutibilmente fedele.
L’attore-autore sceglie di aderire al punto di vista di un personaggio minore, una comparsa ne La giornata di uno scrutatore, uno dei tanti sfortunati ospiti del Cottolengo di Torino rinchiusi per sempre in quella bolla di vetro certo protettiva e, tuttavia, irrimediabilmente castrante. Ecco, dunque, che Perrotta decide di offrire a quel nano la libertà – da qui anche il sottotitolo – che il destino gli ha negato, tramutandolo in una sorta di eclettico entertainer, capace di inanellare senza reale soluzione di continuità monologo e contemporaneo melologo, flusso di coscienza e ripresa di passi tratti da altri romanzi di Calvino. Il narratore-entertainer alterna il racconto della vita al Cottolengo e il vagheggiamento di un amore impossibile per una suora – probabilmente l’unica categoria di donna conosciuta – con l’evocazione di personaggi quale il barone rampante Cosimo ovvero il solitario Palomar a passeggio sulla spiaggia; o, ancora, episodi tratti dalle Cosmicomiche e dalle Città invisibili.
Il drammaturgo Perrotta è abile nel comporre materiali multiformi in un’unità salda, ben trattenuta dal filo rosso di uno sperimentalismo linguistico rigoroso e mai velleitario che quello scrittore “scientifico” che era Calvino avrebbe sicuramente approvato. Così come avrebbe condiviso l’altro tema unificante, ossia quell’anelito alla libertà, che è in primo luogo possibilità reale di essere fino in fondo ciò che si è, dalla cui volontà di analisi è mossa la ricerca di Perrotta. E il lavoro dell’autore si traduce scenicamente nella sciolta e nondimeno rigorosissima versatilità dell’attore: la cadenza vagamente lombarda nei monologhi, la disinvolta spavalderia dei melologhi-rap e la coinvolta struggenza nell’interpretazione finale de Il mondo di Jimmy Fontana, canzone-totem di uno spettacolo armoniosamente forsennato e puntigliosamente sincero.