Calvino, personale lezione sul concetto di libertà
Prodotto dalla sua compagnia e dall’Emilia Romagna Teatro, nello storico teatro trasteverino Argot (fino a domenica) riprende la tournée di Mario Perrotta con il suo Come una specie di vertigine. Un sottotitolo chiarisce Il Nano, Calvino, la libertà. Il monologo di Perrotta, che ne è autore e interprete, prende lo spunto dal nano, un personaggio del romanzo di Italo Calvino La giornata d’uno scrutatore. Attivo nella sede del Cottolengo durante le elezioni del 1953, uno scrutatore vede, o intravede il protagonista del racconto di una «pagina memorabile».
Dico «intravede» perché il punto centrale è questo: il nano si prende tutta la libertà che non gli è stata concessa dalla natura e per la verità dallo stesso Calvino. Impossibile dunque non porsi una domanda: il testo di Perrotta è, come lui sostiene, anche un omaggio al Calvino Italo (così lo chiama il nano), o è il suo contrario? Non è verosimilmente e piuttosto una critica? Quando lessi (è del 1962) il breve romanzo di Calvino, a lungo l’ho ritenuto una delle sue opere più significative. Così non è stato rileggendolo per questa occasione: la prosa di Calvino mi è sembrata come sarà anche nei racconti fantastici, didascalica, pedante, «letterale»: una prosa priva di qualunque sottotesto, priva di aura o, se si vuole, di una qualsiasi atmosfera. Uno scrittore minore divenuto maggiore a forza di volontà.
Nel suo recente Doria Yates. Il potere dell’ombra, Stefano Gallerani scrive a proposito del bodybuilder che la loro disciplina è in essenza «pensiero in atto ed elaborazione di una forma». Ecco, nel bodybuilder Calvino, il pensiero in atto è già divenuto e la forma è già elaborata. Ma questo il nano lo sa. È di lui che parla, sono i suoi libri che di continuo, «scalvinandoli» sfiora: da Il barone rampante a Le città invisibili (qui «invivibili») fino a Palomar. Il nano misura la sua libertà rispetto al poco o niente che Calvino gli ha dedicato.
Lo vediamo lui, il nano, poco più in alto di noi spettatori, come fosse seduto in trono – su una sedia che somiglia terribilmente a una sedia per paraplegici. È tutto storto, il suo corpo pende da una parte più che dall’altra, la mano sinistra è rattrappita, la destra non chiude mai le dita, la sua lingua-cadenza è un «lombardo area Milano-Brianza» (A lungo andare, per la verità, anche questa cadenza diventa una specie di prigione: il nano parla da nano, alla fine parla da attore; prima era a suo modo espressivo, poi finisce con l’esserlo troppo).
Ma il nano che parla da nano non sta mai lì prudente, incapace di contemplazione come il signor Palomar – che null’altro vuole se non quell’onda guardarla, si direbbe possederla senza mai riuscirvi. Il nano come il ragazzo Cosimo del Barone vuole librarsi in alto. E a differenza del signor Palomar che non sa come guardarlo, quel seno nudo sulla spiaggia, sa bene che «la cosa che non dà pace / è guardare, sentire / e non toccare». Il nano sa bene che questa è la libertà